venerdì 31 agosto 2007

Perché esiste la superstizione


Questo è il quarto ed ultimo episodio di una serie dedicata alla superstizione e al libro di Richard Dawkins "Unweaving the rainbow: a darwinian view of life" (L'arcobaleno della vita). Episodi precedenti: primo, secondo, terzo.

Il concetto centrale di questo lungo episodio è che la ragione per cui gli esseri umani (ed altri animali, come vedremo) sono superstiziosi è che sono prodotti dalla selezione naturale. Infatti, confrontiamo le probabilità di sopravvivenza di un individuo "superstizioso" e di uno "scettico" nell'ambiente ancestrale in cui ci siamo evoluti. L'individuo "superstizioso" tende a credere facilmente all'esistenza di nessi causali nel mondo, e quindi crederà a molti nessi reali ma anche a qualche nesso inesistente; invece l'individuo scettico non crede in un nesso fino ad avere avuto molte conferme sperimentali, e quindi non crederà ad alcuni nessi esistenti. Risulta che l'individuo "superstizioso" ha maggiori probabilità di sopravvivere, in quanto il costo di vedere un nesso che non esiste è relativamente basso, mentre il costo di non vedere un nesso esistente è spesso altissimo. Ad esempio, se credo che la danza della pioggia porti la pioggia, poco male: sprecherò energie inutilmente, ma non morirò per questo. Al contrario, non notare un nesso esistente può significare la morte.

Un altro concetto fondamentale è che i nostri cervelli sono ancora adattati all'ambiente ancestrale in cui ci siamo evoluti, fatto di piccoli villaggi con pochi abitanti. La nostra soglia di stupore per le coincidenze è calibrata per piccoli villaggi, non per un mondo dove esistono mezzi di comunicazione di massa. Questo spiega, ad esempio, perché alcune coincidenze che non dovrebbero essere sorprendenti ci appaiano spesso tali. La parola a Dawkins.

Capitolo 7. Scomporre l'arcano (seguito)


La tendenza a vedere significato e scopo nella coincidenza, sia questa dotata o priva di significato reale, rientra nella tendenza più generale a cercare un disegno nelle cose. Si tratta di una propensione utile e lodevole. Molti fatti ed eventi del mondo sono in effetti consequenziali, e sia agli esseri umani sia agli animali giova individuare i nessi. Ma a volte ci si trova tra due estremi entrambi negativi: si individua un disegno apparente là dove non c'è e non si riesce a individuarne uno là dove c'è. La scienza della statistica consiste in gran parte nel seguire la difficile rotta che ci mantiene lontani da questi due scogli. Certo, già da molto prima che fossero elaborati i metodi statistici, gli esseri umani e anche altri animali erano discreti statistici innati; tuttavia è facile commettere errori, sia in una direzione sia nell'altra.

Ecco alcune correlazioni statistiche che sono vere in natura, ma non del tutto ovvie, e di cui gli esseri umani non si sono sempre resi conto.

  • Correlazione vera. A circa 266 giorni dal rapporto sessuale, segue statisticamente il parto.

    Perché è difficile coglierla. 266 giorni rappresentano la media, rispetto alla quale l'intervallo varia. Sovente il rapporto sessuale non dà luogo al conceepimento. L'atto sessuale è comunque freequente, sicché non è evidentissimo che sia esso a causare il concepimento e non, per esempio, l'atto altrettanto frequente di mangiare.

  • Correlazione vera. Il concepimento è relativamente probabile a metà del ciclo mestruale, e relativamente improbabile in prossimità delle mestruazioni.

    Perché è difficile coglierla. Si veda sopra. Inoltre, le donne che non hanno mestruazioni non concepiscono: questa è una correlazione spuria che ostacola la comprensione o addirittura, a una mente ingenua, suggerisce il contrario della verità.

  • Correlazione vera. Il fumo provoca il cancro ai polmoni.

    Perché è difficile coglierla. Molti fumatori non si ammalano di cancro ai polmoni, mentre si ammalano di questa malattia molte persone che non hanno mai fumato.

  • Correlazione vera. Durante le epidemie di peste bubbonica, la vicinanza con i ratti, e soprattutto con le loro pulci, conduce spesso all'infezione.

    Perché è difficile coglierla. Vi sono sempre in giro molti ratti e molte pulci. I ratti e le pulci sono talmente associati a cose come l'immondizia e l' «aria cattiva» che è difficile capire quale delle molte correlazioni sia quella importante. Anche in questo caso vi sono falsi nessi che ostacolano la comprensione.
Ecco alcune correlazioni che gli esseri umani hanno creduto di individuare, e che invece sono false.
  • Falsa correlazione. Si può porre fine alla siccità eseguendo una danza della pioggia (o compiendo un sacrificio umano o versando sangue di capra sui reni di un furetto, o in qualunque altro modo la teologia del luogo abbia decretato).

    Perché è facile cadere in errore. Ogni tanto capita che a una danza della pioggia (o agli altri riti) segua la pioggia, e questi rari colpi di fortuna si imprimono nella memoria. Quando la danza della pioggia non è seguita dalla pioggia, si ipotizza che qualche dettaglio della cerimoonia non sia andato bene o che gli dèi siano irati per un altro motivo; è piuttosto facile trovare una giustificazione abbastanza plausibile.

  • Falsa correlazione. L'apparizione delle comete e altri fenomeni astronomici preannunciano crisi nelle vicende umane.

    Perché è facile cadere in errore. Si veda sopra. Inoltre, è interesse degli astrologi tenere viva questa credenza, così com'è indubbiamente interesse degli stregoni tenere viva la credenza delle danze della pioggia o dei reni dei furetti.

  • Falsa correlazione. Dopo un susseguirsi di eventi sfortunati, si ha più probabilità di avere fortuna.

    Perché è facile cadere in errore. Se la sfortuna continua, diciamo a noi stessi che la serie di eventi sfortunati evidentemente non è ancora finita, e più che mai agogniamo a vederla concludere. Se la sfortuna non continua, la profezia è considerata compiuta. Inconsciamente, definiamo gli eventi sfortunati come una serie destinata a terminare, sicché è evidente che quando «termina» seguirà la fortuna.

Non siamo gli unici animali a cercare correlazioni statistiche e consequenzialità in natura, e non siamo gli unici animali a commettere errori di tipo per così dire superstizioso. Che esistano questi due fenomeni è chiaramente dimostrato dalla gabbia di Skinner, così chiamata dal nome del famoso psicologo americano Burrhus F. Skinnner. Si tratta di un attrezzo semplice ma versatile, che serve a studiare la psicologia di cavie come ratti e piccioni. È una gabbia con una parete dotata di uno o più pulsanti che il piccione (per esempio) può premere con il becco per ottenere l'erogazione del cibo. Nell'esperimento più semplice, ogni volta che il pulsante viene premuto il becchime compare automaticamente. I piccioni imparano presto il compito e altrettanto fanno i ratti o, in gabbie ovviamente più grandi e rinforzate, i maiali.

Noi sappiamo che premere l'interruttore attiva l'apparato elettrico di emissione del cibo, ma il piccione lo ignora: per lui azionare col becco il pulsante potrebbe benissimo equivalere a una danza della pioggia. Inoltre, in certi esperimenti il collegamento è assai debole e statistico, ovvero la ricompensa in becchime non viene data ogni volta che l'animale preme il pulsante, ma solo una volta su dieci. Ciò significa che il cibo viene emesso letteralmente ogni decima beccata, oppure, se il congegno è regolato in maniera diversa, che in media è ricompensata una beccata su dieci, ma a ciascun turno il numero esatto di beccate necessarie dipende dal caso. Altre volte è un orologio a stabilire che il becchime uscirà in media per un decimo del tempo; ma è impossibile sapere per quale decimo.

I piccioni e i ratti imparano ad azionare i pulsanti anche quando verrebbe da pensare che solo un ottimo statistico possa individuare la correlazione; insomma stanno al gioco anche se è ricompensata solo una percentuale minima delle beccate. Un particolare interessante è che le abitudiini apprese quando le beccate sono seguite solo occasionalmente dalla ricompensa del cibo sono più durevoli delle abitudini apprese quando sono associate regolarmente alla ricompensa. Il piccione si scoraggia meno facilmente quando si trova con il meccanismo della ricompensa completamente disattivato; il che, se ci riflettiamo, ha senso sotto il profilo intuitivo.

I piccioni e i ratti, dunque, sanno il fatto loro, poiché sono capaci di cogliere sottili correlazioni statistiche nel loro ambiente. Trovano probabilmente utile questa capacità sia nella gabbia di Skinner sia in natura. La vita nel mondo fisico è ricca di correlazioni; il mondo è una grande, complessa gabbia di Skinner. Le azioni che compiono gli animali selvatici sono spesso seguite da ricompense, punizioni o altri eventi importanti. Sovente il rapporto tra causa ed effetto non è assoluto, ma statistico: se un chiurlo sonda il fango con il suo lungo becco curvo, ha una certa probabilità di infilzare un verme. Il rapporto tra sondare il terreno e trovare vermi è statistico, ma reale. Un'intera scuola di etologia si è sviluppata intorno alla cosiddetta «teoria dell'ottimizzazione della ricerca del cibo». Gli uccelli selvatici mostrano una notevole abilità statistica nel valutare la ricchezza relativa di un'area in termini di cibo e, in base a questa stima, passano periodi ora in una zona ora nell'altra.

In laboratorio, Skinner fondò una grande scuola di ricerca che utiilizzava la sua gabbia per diversi scopi. Poi, nel 1948, apportò un'ingegnosa variante alla tecnica standard: eliminò del tutto il nesso causale tra comportamento e ricompensa. Regolò il congegno in maniera che «ricompensasse» ogni tanto il piccione indipendentemente da ciò che questo faceva. Ora gli uccelli dovevano solo aspettare il becchime; ma di fatto non se ne stavano lì passivamente. In sei casi su otto si comportarono come se stessero apprendendo un'abitudine atta a determinare una ricompensa; mostrarono, cioè, quello che Skinner chiamò comportamento «superstizioso». Il rituale specifico dipendeva dal singolo animale. Tra una distribuzione di cibo e l'altra, un piccione ruotò su se stesso come una trottola, compiendo due o tre giri in senso antiorario; un secondo spinse la testa nell'angolo superiore della gabbia; un terzo mosse a sua volta il capo, ma come se lo ponesse sotto una sbarra invisibile per poi alzarlo ripetutamennte. Altri due, in maniera indipendente, si diedero all'«oscillazione pendolare»: dondolarono la testa e il corpo ritmicamente (un'abitudine, questa, che dev'essere apparsa abbastanza simile alla danza di corteggiamento di alcuni uccelli del paradiso). Skinner usò l'espressione «comportamento superstizioso» perché gli uccelli sembravano pensare che il loro tic abituale avesse una correlazione causale con il meccanismo di ricompensa, mentre così non era. Era l'equivalente aviario di una danza della pioggia.

Una volta instauratosi, il comportamento superstizioso persisteva anche per ore dopo che il meccanismo della ricompensa era stato disattivato, ma i tic non restavano identici: cambiavano come improvvvisazioni d'un organista. Un particolare piccione iniziava i propri movimenti con un brusco scatto della testa: la girava a sinistra, con il passare del tempo la scuoteva sempre più forte, poi spostava l'intero corpo in quella direzione, facendo uno o due passi. Dopo molte ore di «spostamento topografico», lo zampettare verso sinistra diventaava la caratteristica dominante del tic. Il comportamento superstiziooso rientra forse nel repertorio naturale della specie, ma è lecito affermare che per i piccioni esibirlo in quel contesto, e ripetutamente, è innaturale.

I piccioni superstiziosi di Skinner si comportavano sì come statistici, ma come statistici idioti. Cercavano senza successo correlazioni tra gli eventi del loro mondo, soprattutto tra le ricompense ambite e le azioni che potevano compiere per ottenerle. Il rito, come premere la testa contro l'angolo superiore della gabbia, cominciava per caso: magari l'uccello stava facendo quel movimento un attimo prima che l'erogatore di cibo scattasse in azione, «elaborava l'ipotesi» di una correlazione tra i due eventi, e tornava quindi a compiere l'atto che riteneva all'origine del «premio». Certo, il meccanismo a tempo di Skinner faceva sì che prima o poi la ricompensa riapparisse, ma se l'animale avesse provato a non compiere il movimento rituale, avrebbe scoperto che il cibo arrivava lo stesso. Bisogna ammettere, però, che sarebbe dovuto essere uno statistico più bravo e più scettico di molti esseri umani per tentare un esperimento così eroico. Skinner paragona le sue cavie ai giocatori d'azzardo che, quando giocano a carte, cercano di attirarsi la fortuna con piccoli «tic». È un comportamento diffuso anche nei campi di bocce. Una volta lanciata la palla, si può solo sperare che si diriga verso il boccino. Tuttavia i giocatori esperti, mentre sono ancora chini per il tiro appena compiuto, spesso si torcono e protendono in avanti, quasi a voler impartire alla boccia ormai irraggiungibile istruzioni estreme, e sovente le rivolgono inutili parole d'incoraggiamento. In fondo, una slot-machine di Las Vegas non è altro che una gabbia di Skinner umana. Tirare la leva, ma anche naturalmente mettere soldi nella fessura, equivale a «premere col becco il pulsante». È davvero un gioco da idioti, perché le probabilità sono notoriamente truccate a favore del proprietario; come farebbe, altrimenti, il casinò a pagare le enormi bollette dell' elettricità? Dipende soltanto dal caso se tirando una certa leva in un certo momento si produce una vincita o no, sicché la slot-machine incoraggia al massimo le abitudini superstiziose. In effetti, se si osservano a Las Vegas i giocatori incalliti, si notano movimenti che ricordano molto i rituali dei piccioni di Skinner. Alcuni parlano con la macchina, altri fanno strani scongiuri oppure la accarezzano o le danno una pacca. Guardando persone computerdipendenti, mi sono accorto che quando, spazientite, aspettavano che il server le collegasse a Internet, si comportavano in modo analogo, per esempio picchiando le nocche sul terminale.

Chi mi ha informato su Las Vegas ha anche condotto uno studio informale sulle sale-corse londinesi e mi ha riferito di aver visto un giocatore che, dopo avere scommesso, correva su una particolare mattonella del pavimento e se ne stava lì su una gamba sola mentre guardava la corsa in uno dei monitor. Probabilmente una volta vinse mentre si trovava in quel punto della stanza e maturò la convinzione che tra le due cose vi fosse un nesso causale. Se qualcun altro ha già occupato la «sua» mattonella --- certi scommettitori la occupano apposta, forse per assorbire parte della sua «fortuna» o forse solo per fargli un dispetto --- lui ci gira intorno e cerca disperatamente di piazzarci sopra un piede prima che la corsa finisca. Altri giocatori non si cambiano la camicia né vanno dal barbiere finché dura la «vena fortunata». Un giocatore d'azzardo irlandese che aveva una bella testa di capelli si rasò a zero nell'ostinata speranza che il vento mutasse. Evidentemente deve essersi detto: «Ho un mucchio di capelli e pochissima fortuna nelle scommesse sui cavalli: forse le due cose sono in qualche modo connesse... forse tra le due cose c'è qualche relazione significativa.». Prima di guardare dall'alto in basso individui del genere, ricordiamoci che molti di noi sono cresciuti sentendo dire che Sansone da fortunato divenne scalognatissimo quando Dalila gli tagliò i capelli.

Come facciamo a capire quali correlazioni siano reali e quali casuali e prive di significato? Esistono dei metodi elaborati dalla statistica e, all'interno della statistica, dallo schema sperimentale. Vorrei soffermarmi ancora un poco, anche se non in dettaglio, su alcuni principi di questa scienza, che si può considerare in larga misura l'arte di distinguere le correlazioni dalla casualità. Casualità significa mancanza di correlazioni. Vi sono diversi modi di illustrare i concetti di casualità e correlazione. Supponiamo che io affermi di saper distinguere la grafia delle femmine da quella dei maschi. Supponiamo che dichiari di poter distinguere la prima dalla seconda in base a una reale correlazione fra sesso e scrittura. Qualcuno potrebbe dubitarne, o meglio convenire sulla variabilità della grafia, ma non sulla sua correlazione con il sesso. In che modo possiamo accertare chi abbia ragione? Non ci si potrebbe fidare della mia parola. Come un giocatore superstizioso di Las Vegas, potrei benissimo avere scambiato un exploit fortunato per un'attitudine reale e costante. In ogni caso, lo scettico avrebbe tutti i diritti di pretendere delle prove. Quali prove lo soddisferebbero? Quelle che fossero documentate pubblicamente e analizzate adeguatamente.

L'affermazione è, in ogni caso, un'affermazione statistica. Non sostengo (in questo ipotetico esempio, naturalmente, perché, nella realtà non sostengo nulla del genere) che so infallibilmente indovinare il sesso dell'autore di un manoscritto, ma solo che alcuni dei fattori che determinano le grandi variazioni riscontrabili tra le grafie sono correelati con il sesso. Sarei quindi «autorizzato» a fare parecchi errori ma, se mi venissero per esempio dati cento campioni di scrittura, dovrei riuscire a dividerli tra testi scritti da maschi e testi scritti da femmine con maggiore approssimazione che tirando a indovinare. Per valutare dunque se mi vanto delle mie capacità a ragione o a torto, bisogna prima calcolare quali siano le probabilità che un certo risultato si ottenga tirando a indovinare. Ancora una volta, ci troviamo quindi a calcolare le probabilità che si verifichi una coincidenza.

Prima di effettuare il vero e proprio calcolo statistico, dobbiamo prendere alcune precauzioni nell'organizzazione dell'esperimento. La correlazione, la non casualità che cerchiamo, è una correlazione tra sesso e grafia. È importante non inquinare tale nesso specifico con variabili estranee. Per esempio i campioni di scrittura che mi venissero dati non dovrebbero essere lettere personali, perché mi riuscirebbe troppo facile evincere il sesso dell'autore o dell'autrice dal contenuto della lettera anziché dalla grafia. Non bisognerebbe scegliere, come campioni, tutte ragazze di una scuola e tutti ragazzi di un'altra, perché gli alunni di un determinato istituto possono avere caratteristiche comuni nella grafia (apprese da un insegnante o copiandosi a vicenda). Tali caratteristiche, proprie dell'una o dell'altra scuola, darebbero differenze anche interessanti di grafia, che però sarebbero rappresentative di una diversità d'impostazione scolastica e solo incidentalmente di una diversità tra sessi. Inoltre non bisognerebbe chiedere ai ragazzi di trascrivere un brano preso dal loro libro preferito. Tenderei a pensare a un'autrice femmina se la citazione fosse tratta dal Principe nero e a un autore maschio se fosse tratta da Biggles e i predoni dell'aria (i lettori che hanno alle spalle altre letture per l'infanzia sostituiscano pure i miei con esempi propri).

Ovviamente è importante che i bambini siano tutti degli sconosciuti per me, perché se così non fosse potrei riconoscere la loro scrittura e quindi indovinare il sesso. Quando mi fossero consegnati, i testi dovrebbero essere anonimi, ma naturalmente chi conducesse l'esperimento dovrebbe sapere chi ha scritto cosa, e quindi mettere dei codici segreti sui plichi per ricordarsi gli autori. Dovrebbe inoltre badare a scegliere oculatamente i codici, cioè non segnare in verde i manoscritti dei maschi e in giallo quelli delle femmine: io non saprei che «verde» vuoi dire «maschio» e «giallo» «femmina», ma capirei ovviamente che i due colori designerebbero i due sessi, e sarei molto avvantaggiato. Sarebbe una buona idea attribuire a ciascun plico un numero di codice, ma bisognerebbe evitare di assegnare ai maschi i numeri da 1 a 10 e alle femmine quelli da 11 a 20, perché si creerebbe di nuovo una situazione analoga a quella del colore verde e del colore giallo (lo stesso discorso vale per i numeri dispari assegnati ai maschi e pari assegnati alle femmine). Si contrassegnerà invece ciascun testo con numeri casuali e si chiuderà a chiave la lista di decifrazione in un cassetto dove non si possa trovarla. Queste procedure sono le stesse che, nel campo degli esperimenti clinici, caratterizzano il «doppio cieco».

Supponiamo che siano state prese tutte le precauzioni del test in doppio cieco e che io abbia davanti agli occhi venti manoscritti anonimi mischiati alla rinfusa: a questo punto posso esaminare i testi dividendoli in due mucchi di presunti autori maschi e presunte autrici femmine. In alcuni casi sarò incerto, ma lo sperimentatore mi costringerà a formulare il verdetto che ritengo più probabile. Alla fine farò due pile di plichi e si procederà a controllare l'esattezza delle risposte.

Veniamo ora alla statistica. Se mi fossi vantato a ragione di saper indovinare il sesso dalla grafia, avrei dovuto dare una risposta esatta più spesso che se avessi solo tirato a indovinare. Ma quanto più spesso? Se mi fossi vantato a torto, il tasso di risposte giuste non dovrebbe essere più alto di quello ottenuto da chi lanciasse una moneta [cioè 50%, NdM]. A che punto il mio rendimento risulta talmente migliore di quello di chi tira la moneta da apparire impressionante? Ecco in che modo si può rispondere a questa domanda.

Si calcola in quali possibili modi avrei potuto indovinare il sesso dei venti ragazzi e ragazze, li si elenca in ordine di efficacia, cominciando da venti risposte corrette per scendere fino a un tasso di successo del tutto casuale (venti risposte sbagliate sarebbero quasi altrettanto incredibili di venti risposte giuste, perché dimostrerebbero una mia attitudine a discriminare, sia pure perversamente, al contrario). Poi si analizzano le scelte che ho compiuto nella realtà e si calcola la percentuale di tutte le scelte che sarebbero potute essere altrettanto --- o più --- efficaci di quelle reali. Come si calcolano le scelte possibili? Prima di tutto va osservato che, se c'è un unico modo di avere successo al cento per cento e un unico modo di fallire al cento per cento, ci sono molti modi di aver successo al cinquanta per cento. Avrei potuto indovinare il primo testo, sbagliare il secondo, sbagliare il terzo, indovinare il quarto ecc. Sono un po' meno i modi di imbroccare le risposte al 60 per cento, ancor meno quelli di imbroccarle al 70 per cento, e così via. I modi di commettere un singolo errore sono abbastanza pochi da poter essere annotati sulla carta. I testi sono venti. Avrei potuto sbagliare nel primo, nel secondo, nel terzo o ... nel ventesimo. Insomma ci sono esattamente venti modi di commettere un singolo errore. È più noioso scrivere le possibilità di commetterne due, ma il calcolo non è poi così difficile, e ci dà come risultato 190. È ancora più tedioso contare quelle di commetterne tre, ma anche in questo caso si tratta di un calcolo eseguibile. E così via.

Supponiamo che nel nostro ipotetico esperimento io abbia commesso due errori. Vogliamo sapere quanto sia stato buono il mio punteggio nello spettro di tutti i modi possibili di indovinare. Dobbiamo, cioè, cercare di sapere quanti possibili modi di scegliere siano buoni come il mio o migliori del mio. Il coefficiente che corrisponde alla mia abilità (due errori) è 190. Il coefficiente migliore del punteggio da me ottenuto è 20 (un errore) più 1 (nessun errore). Dunque, il coefficiente totale buono quanto o più del mio è 211. L'importante è aggiungere le possibilità di registrare un punteggio migliore del mio, perché appartengono di diritto alla PCAA, assieme alle 190 possibilità di registrare lo stesso mio punteggio.

Ora dobbiamo confrontare 211 con il numero totale dei modi in cui i 20 manoscritti avrebbero potuto essere classificati da una persona che avesse tirato una moneta. Non è un calcolo difficile. Il primo testo poteva essere di un maschio o di una femmina: in altre parole, due possibilità. Anche il secondo poteva essere di un maschio o di una femmina. Così, per ciascuna delle due possibilità del primo testo, c'erano due possibilità del secondo. Per i primi due testi abbiamo quindi 2 x 2 = 4 possibilità. Per i primi tre testi le possibilità diventano 2 x 2 x 2 = 8. E i modi possibili di classificare tutti i 20 testi sono 2 x 2 x 2 ripetuto 20 volte, ovvero due elevato alla potenza di 20, che dà un numero abbastanza elevato: 1.048.576.

Allora, nello spettro di tutti i possibili modi di indovinare, la Percentuale di modi buoni come o più del mio è 211 diviso 1.048.576, che dà approssimativamente 0,0002, o lo 0,02 per cento. In altre parole, se 10.000 persone scegliessero i testi solo ed esclusivamente lanciando la moneta, soltanto due di esse registrerebbero un punteggio alto come il mio. Il mio punteggio risulta dunque eccellente: se fossi davvero capace di avere un tale rendimento, suffragherei con prove convincenti l'ipotesi che i maschi e le femmine differiscano sistematicamente nellla scrittura. Permettetemi di ribadire che siamo qui nel campo delle congetture: che io sappia, non ho la capacità di dedurre con tanta abilità il sesso dalla grafia. Aggiungerò inoltre che, se anche vi fossero prove convincenti a sostegno di una simile differenza tra i due sessi, non avremmo modo di sapere se fosse innata o acquisita. Se infatti derivassero dal tipo di esperimento appena descritto, le prove sarebbero compatibili con l'ipotesi che alle femmine venga sistematicamente insegnata una scrittura diversa di quella che viene insegnata ai maschi, più improntata alla «grazia» che all'«assertività».

Abbiamo appena effettuato quello che in statistica è chiamato tecnicamente test di significatività. Noi abbiamo ragionato partendo dall'abicì, il che lo ha reso un po' noioso, ma in pratica gli statistici consultano tavole delle probabilità e delle distribuzioni che sono precalcolate. Non si è quindi costretti ad elencare letteralmente tutti i modi in cui le cose sarebbero potute accadere. Ma la teoria fondamentale in base a cui sono state calcolate le tavole si rifà in sostanza alla procedura che ho illustrato. Si prendono i modi in cui gli eventi avrebbero potuto verificarsi e si «lanciano» ripetutamente a caso. Poi si esamina il modo reale in cui gli eventi si sono verificati e si misura che grado abbia nello spettro di tutte le possibilità contemplate.

Si tenga presente che un test di significatività non dimostra niente in maniera conclusiva: non può escludere che a produrre il risultato che osserviamo sia stata la fortuna. Il meglio che può fare è spiegarci a quale quantitativo specifico di fortuna equivalga il risultato osservato. Nel mio esempio, il risultato (ottenuto ipoteticamente da me) equivaleva alla probabilità che due persone su 10.000 indovinassero a caso. Quando diciamo che un effetto è statisticamente significatiivo, dobbiamo sempre specificare il cosiddetto valore p. Si tratta dellla probabilità che un processo puramente casuale produca un risulltato almeno tanto notevole quanto quello reale. Un valore p di 2 su 10.000 è davvero notevole, ma è pur sempre possibile che non vi sia, qui, un'autentica correlazione. Il vantaggio di un buon test statistico è che ci spiega quanto sia probabile che non ci troviamo davanti ad alcuna correlazione.

Per convenzione, gli scienziati si lasciano influenzare da valori p di 1 su 100 o perfino da valori alti come 1 su 20, che certo fanno molto meno effetto di 2 su 10.000. Quale valore p accettare dipende dall'importanza del risultato e dall'importanza delle decisioni da prendere. Quando l'obiettivo è solo stabilire se vale la pena ripetere il test con un campione più grande, un valore p di 0,05 (cioè 1 su 20) è accettabilissimo. Anche se il nostro interessante risultato ha una proobabilità su venti di verificarsi comunque per caso, la posta in gioco non è alta: l'errore non costa caro. Se invece il problema è un problema di vita o di morte, come accade in alcune ricerche mediche, va scelto un valore p assai più basso di 0,05. Lo stesso discorso vale per quegli esperimenti che pretendono di dimostrare l'esistenza di facoltà molto controverse, come la telepatia o i poteri paranormali.

Come abbiamo visto brevemente a proposito del test del Dna, gli statistici distinguono tra i falsi positivi e i falsi negativi, detti anche errori di I tipo ed errori di II tipo. Un errore di II tipo, o falso negativo, consiste nel non rilevare un effetto che in realtà c'è. Un errore di I tipo, o falso positivo, consiste, al contrario, nel rilevare un rapporto di causa ed effetto là dove c'è solo casualità. Il valore p è la misura della probabilità che si sia commesso un errore di I tipo. Il giudizio statistico consiste nel mantenere una rotta equidistante dai due tipi di errore. Esiste anche un errore di III tipo, che è dato dal non ricordare assolutamente quale sia il falso positivo e quale il falso negativo tra i due errori di I e II tipo. Benché sia da una vita che mi occupo di queste cose, devo ancora andare a controllare qual è l'uno e quale l'altro. A scanso di equivoci, quindi, userò le espressioni falso positivo e falso negativo, che evocano meglio il concetto. A proposito: commetto anche spesso errori di aritmetica. In pratica non mi sognerei mai di eseguire un test statistico effettuando minuziosamente tutti i calcoli, come ho fatto nel caso dell'ipotetica distinzione tra scritture maschili e scritture femminili: guarderei sempre le tavole calcolate da qualcun altro, preferibilmente da un computer.

Gli errori dei piccioni superstiziosi di Skinner erano falsi positivi. In realtà, nel loro mondo non c'era alcuna correlazione tra l'azione che essi compivano poco prima di ricevere il cibo e il meccanismo di emissione del cibo stesso; ma essi si comportavano come se ne avessero individuato una. Un piccione «pensava» [...] che spostarsi a sinistra facesse scattare il congegno dellla ricompensa; un altro credeva di attivarlo spingendo la testa nell'angolo superiore della gabbia. Entrambi commettevano errori falsi positivi. Poniamo invece che un piccione in una gabbia di Skinner non si accorga che, premendo col becco il pulsante a luce azzurra accesa, il meccanismo di emissione del cibo si spegne per dieci minuti: in questo caso commetterebbe un errore falso negativo. C'è, nel suo piccolo mondo, una correlazione autentica che aspetta di essere individuata: ma lui non la rileva: preme col becco entrambi i pulsanti indiscriminatamente e qumdi ottiene la ricompensa meno spesso di quanto potrebbe.

Un falso positivo è anche quello dell'agricoltore che crede che sacrificare agli dèi porti la sospirata pioggia. Presumo (anche se non ho analizzato il problema sperimentalmente) che non vi sia una correlazione del genere nel suo mondo, ma egli non se ne rende conto e continua a buttar via il tempo in inutili sacrifici. Un falso negativo è invece quello dell'agricoltore che non si accorge che nel suo campo c'è una correlazione tra concimazione e bontà del successivo raccolto. Gli agricoltori abili evitano gli errori sia di I sia di II tipo.

Sono convinto che tutti gli animali, quali più quali meno, siano statistici innati e scelgano una rotta a metà strada tra gli errori di I e II tipo. La selezione naturale punisce sia i falsi positiivi sia i falsi negativi, ma le punizioni non sono simmetriche e senza dubbio variano secondo il tipo di vita delle specie. Le larve dei geometridi somigliano talmente ai rami secchi su cui riposano che non possiamo dubitare che la selezione naturale le abbia plasmate in maniera da farle rassomigliare a uno stecco. Molti bruchi morirono per produrre questo efficace risultato: morirono perché non assomigliavano abbastanza a un ramo secco e gli uccelli o altri predatori li individuarono e divorarono. Saranno stati trovati e mangiati anche alcuni geometridi assai simili a rametti, perché altrimenti come avrebbe fatto la selezione naturale a indurre queste creature a evolvere verso l'estrema perfezione della loro odierna famiglia? A loro volta, però, gli uccelli avranno mancato spesso di vedere i bruchi perché questi somigliavano, magari anche solo leggermente, a ramoscelli. Qualsiasi preda, per quanto ben mimetizzata, può essere notata dai predatori quando le condizioni sono ideali per l'avvistamento, e qualsiasi preda, per quanto mal mimetizzata, può non essere notata dai predatori quando le condizioni per l'avvistamento sono sfavorevoli. Tali condizioni variano con l'angolo visuale (un predatore riesce a individuare un animale ben mimetizzato se lo guarda frontalmente, ma non vede un animale mal mimetizzato se lo guarda con la coda dell'occhio), con l'intensità della luce (una preda che non viene notata al crepuscolo è invece notata facilmente a mezzogiorno), e con la distanza (una preda che il predatore scorgerebbe a quindici centimetri di distanza spesso non viene scorta quando si trova cento metri lontano).

Proviamo a pensare a un uccello che vola per il bosco in cerca di qualcosa da mangiare. È circondato da ramoscelli, alcuni dei quali (molto pochi) potrebbero essere bruchi commestibili. Il problema è decidere. Probabilmente l'uccello saprebbe distinguere un rametto da un geometride se gli si avvicinasse così tanto da poterlo esaminaare con cura in buone condizioni di luminosità. Ma non ha il tempo di ripetere l'operazione con tutti i rami. Per mantenersi in vita, gli uccelli piccoli dal rapido ricambio metabolico devono trovare il cibo molto spesso: se stessero a scrutare ogni ramo come topi di biblioteca con la lente d'ingrandimento, morirebbero di fame prima d'aver trovato il primo bruco. Per poter ottenere risultati dovrebbero condurre una ricerca più rapida e superficiale, anche a costo di lasciarsi sfuggire qualche preda. In altre parole, l'uccello deve trovare un equilibrio tra rischi opposti: se nella sua ricerca è troppo superficiale, non troverà mai niente; se è troppo scrupoloso, troverà tutti i bruuchi che cerca, ma poiché saranno troppo pochi morirà di fame.

È facile applicare a questi casi il linguaggio statistico degli errori di I e II tipo. Il falso negativo è quello dell'uccello che passa volando accanto a un bruco senza guardarlo meglio. Il falso positivo è quello dell'uccello che si avvicina per scrutare un presunto bruco e scopre invece che è un ramo. Lo svantaggio del falso positivo è rappresentato dal tempo e dall'energia sprecati per avvicinarsi al ramo ed esaaminarlo bene; se l'operazione viene compiuta solo qualche volta l'errore non è grave, ma se si ripete troppo spesso diventa fatale. Lo svantaggio del falso negativo è rappresentato dalla perdita di una preda e dunque di un pasto. Nessun pennuto che non viva in un ideale paradiso degli uccelli può sperare di non commettere mai errrori di I e II tipo. La selezione naturale induce i singoli individui ad adottare una politica di compromesso che consente di raggiungere il miglior livello intermedio tra falsi positivi e falsi negativi. Certi uccelli avranno la tendenza a commettere più errori di I tipo, altri a commettere più errori di II tipo. Senza dubbio uno scenario intermedio costituisce la rotta ideale, e la selezione naturale ne promuove l'evoluzione.

Quale scenario intermedio sia migliore dipende dalla specie. Nel nostro esempio specifico, dipenderà anche dalle caratteristiche del bosco, come le dimensioni della popolazione dei bruchi in rapporto al numero dei ramoscelli. Tali condizioni potrebbero cambiare di settimana in settimana, o variare da bosco a bosco. Forse gli uccelli sono indotti dalla selezione naturale a mutare politica in base alle proprie esperienze statistiche. Che imparino o no quest'arte dell'adattamento, in genere gli animali abili a cacciare si comportano come statistici esperti. (A proposito, spero non occorra che lo precisi, ma lo preciserò lo stesso: gli uccelli non eseguono calcoli consci con il calcolatore e le tavole delle probabilità. Si comportano come se calcolassero i valori p, ma non conoscono il valore p più di quanto noi conosciamo l'equazione della parabola quando afferriamo al volo una palla da cricket o da baseball nel fuori campo.)

Le rane pescatrici approfittano della credulità di pesciolini come i ghiozzi. Bisogna però ammettere che si tratta di un modo moralistico e ingiusto di descrivere le cose: sarebbe meglio evitare il termine «credulità» e dire che le rane pescatrici sfruttano il fatto che i pesci piccoli faticano a mantenere l'equilibrio tra gli errori di I e II tipo. I pesci piccoli, che come ogni creatura vivente devono mangiare, si nutrono di varie cose, in particolare di piccole creature guizzanti come vermi o gamberetti. Hanno occhi e sistema nervoso fatti apposta per individuare tutto ciò che guizza e, se vedono qualcosa che si muove sinuosamente, subito si lanciano all'arrembaggio. La rana pescatrice sfrutta questa tendenza. Dotata di una lunga «canna da pesca», derivante da una spina dorsale modificata che la selezione naturale requisì dalla posizione originaria per collocarla nel primo raggio della pinna dorsale, essa si mimetizza perfettamente, standosene immobile per ore e ore sul fondo marino, dove si confonde con rocce e alghe. L'unica sua parte ben visibile è un'«esca» simile a un verme, un gamberetto o un pesciolino all'estremità della «canna da pesca». In alcune specie di profondità l'esca è addirittura luminescente; e anche se non lo è, guizza come una creaturina appetitosa quando la sua proprietaria muove la «canna». Il piccolo ghiozzo ne viene attratto. Per un po' la rana pescatrice dà corda alla preda per catturare completamente la sua attenzione, poi porta l'esca nella regione insidiosa e apparentemente innocua situata davanti all'enorme bocca mimetizzata, e il ghiozzo spesso la segue. A quel punto, improvvisamente, la bocca gigantesca diventa visibile, si spalanca, inghiotte un gran fiotto d'acqua con tutto ciò che contiene, e il ghiozzo scopre di aver dato la caccia al suo ultimo verme.

Un ghiozzo che va in cerca di un boccone può notare o no la presenza di un verme, ma se la nota si trova, ahimè, davanti a un dilemmma: la preda è vera o è l'esca di una rana pescatrice? Se incappasse nell'errore falso negativo, rinuncerebbe a un ottimo pasto per paura che fosse in realtà il primo raggio della pinna dorsale della rana pescatrice; se incappasse nell'errore falso positivo, addenterebbe il boccone per poi scoprire che è un'esca. Ancora una volta si osserva come nel mondo reale sia impossibile indovinare sempre la mossa giusta. Un pesce troppo prudente che non attaccasse mai i vermi morirebbe di fame, uno troppo temerario non morirebbe di fame, ma potrebbe venire mangiato. Forse nel caso del ghiozzo la strategia migliore non è la via di mezzo, ma --- incredibile a dirsi --- uno dei due estremi. Probabilmente le rane pescatrici sono così rare che la selezione naturale ha indotto i pesci piccoli ad adottare la politica temeraria di lanciarsi su tutti gli apparenti vermi. Ho sempre amato molto un'osservazione che fece sulla pesca con la lenza il grande filosofo e psicologo americano William James:

Sono più i vermi liberi dall'amo che quelli infilzativi; così la Natura dice ai suoi figli pesci di correr pure il rischio e mordere qualunque verme vedano.

Pragmatism, 1910

Come tutti gli altri animali; e perfino le piante, gli esseri umani possono e debbono comportarsi come statistici innati. La differenza tra noi e gli altri animali è che noi possiamo fare i nostri calcoli due volte: la prima intuitivamente, come fossimo pesci o uccelli, la seconda razionalmente, con carta e matita o al computer. Si potrebbe pensare che con carta e matita sia facile ottenere la risposta giusta, a patto di non commettere qualche grossolano errore, e che invece affidandosi all'intuizione sia facile sbagliare. Ma in senso stretto non esistono risposte «giuste» nemmeno nel caso dei calcoli statistici raazionali. Potrà esserci il modo giusto di fare le somme e di calcolare il valore p, ma il criterio, o valore p di soglia, che adottiamo prima di scegliere una determinata strategia resta una decisione nostra e dipende dalla nostra propensione o avversione al rischio. Se la penalità da pagare per un falso positivo fosse assai maggiore della penalità da pagare per un falso negativo, dovremmo adottare una soglia di massima prudenza: non tentare quasi mai di assaggiare un «verme» per paura delle conseguenze. Viceversa, se l'asimmetria del rischio fosse opposta, dovremmo precipitarci ad assaggiare tutti i «vermi» in circolazione: poiché infatti assaggiarne di falsi non avrebbe conseguenze negative, ci converrebbe fare tutte le prove possibili.

Chiarita la necessità di trovare un equilibrio tra falsi positivi e falsi negativi, tornerò adesso alle coincidenze «arcane» e al modo di calcolare le probabilità che si verifichino comunque. Se sogno un amico da lungo tempo dimenticato e quella stessa notte l'amico muore, sono tentato, come lo sarebbe chiunque, di vedere un significato o un «disegno» nella coincidenza. Devo fare uno sforzo per ricordare che tanta gente muore ogni notte, che innumerevoli persone ogni notte sognano e spessissimo sognano che loro amici o conoscenti muoiono, e che nel mondo coincidenze del genere capitano ogni notte a molte centinaia di individui. Ma mentre così rifletto, l'intuizione mi grida che la coincidenza deve avere un significato, perché è capitata a me. Se in un caso del genere l'intuizione umana commette un errore falso positivo, come in effetti fa, bisognerà cercare di spiegare perché si comporti in questo modo. Come darwinisti, dobbiamo essere pronti a rilevare le possibili pressioni che ci inducono verso il falso positivo o verso il falso negativo.

Come darwinista, congetturo che la nostra tendenza a meravigliarci di coincidenze apparentemente arcane (che è un caso particolare della tendenza a vedere correlazioni dove non ce ne sono) sia connessa al fatto che i nostri antenati erano in numero esiguo e avevano un' esperienza quotidiana piuttosto povera. Gli studi antropologici, nonché l'analisi sia dei reperti fossili sia di altre scimmie, laasciano pensare che negli ultimi milioni di anni i nostri antenati siano generalmente vissuti in piccoli gruppi erranti o in piccoli villaggi; nell'uno o nell'altro caso, quindi, avrebbero visto e frequentato non più di qualche dozzina di amici e conoscenti. L'abitante del villaggio preistorico sentiva probabilmente raccontare storie di coincidenze che apparivano incredibili in relazione all'esiguo numero dei conoscenti; di qualunque coincidenza fosse capitata a una persona esterna al suo villaggio non avrebbe infatti avuto notizia. Così il nostro cervello si abituò a rilevare «disegni» e portentose correlazioni in coincidenze che sarebbero parse di assai modesta entità se il numero di amici e conoscenti fosse stato ingente.

Oggi il numero di amicizie e conoscenze è ingente, soprattutto a causa dei giornali, della radio e degli altri mezzi di comunicazione di massa. Ho già spiegato come le notizie di coincidenze incredibili e inquietanti, circondate da un'aura sensazionalistica, vengano diffuse presso un pubblico assai più ampio di quello dei nostri antenati ominidi. Ora aggiungo che il nostro cervello, indotto dalla selezione naturale ad aspettarsi il basso livello di coincidenza della società ancestrale di piccoli villaggi, è probabilmente colpito dai casi «arcani» a causa della calibratura errata della soglia dello stupore. La nostra PCAA soggettiva è stata calibrata dalla selezione naturale in villaggi di ridottissime dimensioni e, come accade per tanti fenomeni della vita moderna, tale calibratura appare oggi superata. (Un ragionamento analogo può forse spiegare come mai abbiamo un atteggiamento isterico verso i rischi di cui più parlano i giornali: forse sono «mal calibrati» anche gli ansiosi genitori che credono che pedofili assatanati siano in agguato dietro ogni lampione quando i loro figli tornano a casa da scuola.)

Credo vi sia un altro fattore specifico che amplifica questa tendenza. Ho idea che oggigiorno, nella vita di ciascuno, l'esperienza per ora sia più ricca di quanto non lo fosse all'epoca degli antenati. Non ci limitiamo ad alzarci la mattina, guadagnarci da vivere come il giorno prima, consumare uno o due pasti e andare a letto: leggiamo libri e riviste, guardiamo la televisione, viaggiamo su mezzi velocissimi raggiungendo posti nuovi, incontriamo per strada migliaia di persone mentre andiamo al lavoro. Il numero di facce che vediamo, di situazioni diverse a cui ci esponiamo, di fatti che ci accadono, è assai più grande del numero di persone ed eventi che dovevano fronteggiare gli ominidi dei villaggi. Ciò significa che il numero di occasioni di coincidenza è, per ognuno di noi, maggiore di quanto non sarebbe stato per i nostri antenati, e quindi maggiore di quanto il nostro cervello sia in grado di gestire. Si tratta, come ho detto, di un fattore supplementare che si aggiunge al fattore, già illustrato, delle dimensioni della popolazione.

In teoria potremmo contrastare questi due effetti ricalibrandoci; in altre parole, potremmo imparare ad alzare la soglia dello stupore per farla corrispondere maggiormente alla densa popolazione odierna e alla ricca esperienza attuale. Ma l'impresa sembra riuscire assai difficile anche a sofisticati scienziati e matematici. Il fatto che ci sbaalordiamo ancora per le coincidenze, e che medium, sensitivi e astrologi riescano a ricoprirsi d'oro sfruttando la nostra ingenuità, lascia pensare che nel complesso non siamo in grado di ricalibrarci e che le regioni dell'encefalo responsabili della statistica intuitiva siano ancora ferme all'età della pietra.

Lo stesso discorso vale forse per l'intuizione nel suo complesso. Ne "La natura innaturale della scienza" (1992), l'eminente embriologo Lewis Wolpert sostiene che la scienza è difficile perché è, più o meno sistematicamente, controintuitiva. È una visione contraria a quella di un alfiere della teoria darwiniana come Thomas H. Huxley, il naaturalista dell'Ottocento secondo il quale la scienza era «solo senso comune affinato e organizzato», e «si discostava dal senso comune propriamente detto solo nella maniera in cui un veterano si discosta da una recluta». I metodi scientifici, continuava Huxley, «differiscoono da quelli del senso comune solo come un soldato delle Guardie Reali che maneggia la sciabola differisce dal selvaggio che maneggia la clava». Wolpert invece afferma che la scienza è innaturale e paradossale, non già un'estensione del senso comune, bensì un affronto al medesimo; e ne spiega con efficacia il perché. Ogni volta che beviamo un bicchier d'acqua, dice per esempio, beviamo almeno una delle molecole che passarono per la vescica di Oliver Cromwell; ed estrapola il concetto dopo aver osservato che «in un bicchiere d'acqua ci sono molte più molecole che bicchieri d'acqua nel mare». La prima legge newtoniana del moto, secondo cui gli oggetti si mantengono in movimento se una forza non li arresta, è controintuitiva, e altrettanto lo è la scoperta di Galileo, il quale verificò che, quando veniva meno la resistenza dell'aria, gli oggetti leggeri cadevano alla stessa velocità degli oggetti pesanti. È controintuitivo anche il fatto che la materia solida, perfino il durissimo diamante, sia costituita quasi interamente da spazio vuoto. Steven Pinker analizza con grande lucidità le origini evolutive delle nostre intuizioni fisiche in "Come funziona la mente" (1998).

Ancora più difficili e controintuitive sono le conclusioni della teoria quantistica, che è confermata in maniera eclatante da prove sperimentali la cui precisione si esprime con un numero elevatissimo di decimali, ma che riesce così estranea alla mente di esseri umani pur evoluti da non riuscire intuitivamente comprensibile nemmeno a molti fisici. Sembra che non solo le nostre capacità statistiche innate, ma anche il nostro cervello sia rimasto all'età della pietra.