venerdì 27 giugno 2008

Postulare un essere intelligente è una spiegazione?


Che cosa è una buona spiegazione per un fenomeno? Dipende dal contesto, da cosa sei disposto ad assumere. A volte una buona spiegazione per un fenomeno è quella che lo spiega in termini di intenzioni di esseri intelligenti. Ad esempio, l'economia è una scienza che spiega alcuni fenomeni (come l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, la disoccupazione) in termini dell'azione intenzionale di esseri umani; essa per scontato l'esistenza di esseri umani dotati di certe caratteristiche (come obiettivi, preferenza temporale, tendenza all'egoismo, avversione al rischio, utilità marginale decrescente, ecc.). Dà per scontato l'esistenza di intenzioni e spiega tutto il resto in termini di queste ultime. Perché questa è una buona spiegazione? Perché riduce un fenomeno complesso ad un fenomeno più semplice; così semplice che siamo disposti, in quel contesto, a darlo per scontato. Ad esempio, se spieghi che le leggi sul minimo salariale aumentano la disoccupazione, assumendo come ipotesi soltanto uomini razionali che seguono i propri obiettivi, quella è decisamente una buona spiegazione. Hai ridotto il fenomeno del salario a un fenomeno (il comportamento umano) che siamo disposti a dare per scontato, perché sappiamo bene che gli uomini si comportano tendenzialmente in un certo modo e non un altro. E' questo il motivo per cui le spiegazioni offerte dagli economisti sono buone spiegazioni (quando i comportamenti umani che postulano sono realistici).

Un altro esempio di buona spiegazione è quella che spiega l'esistenza di un orologio postulando l'esistenza di un orologiaio: un artefice intelligente, dotato di mente, che aveva l'intenzione di costruire l'orologio in quel modo, e che aveva progettato l'orologio, cioè anticipato nella propria mente le sue caratteristiche. Questa è una buona spiegazione perché, in questo contesto, siamo disposti a dare per scontato l'esistenza di un orologiaio dotato di mente, intenzioni, capacità di previsione.

Ma se il fenomeno da spiegare è proprio l'esistenza di esseri umani dotati di mente ed intenzioni, è chiaro che questo tipo di spiegazione non è più accettabile. In questo contesto non siamo più disposti a postulare l'esistenza di esseri con intenzioni e intelligenza. Se lo facessimo, il nostro ragionamento sarebbe circolare. (O quantomeno lo sarebbe se il livello di intelligenza e complessità dell'essere che postuliamo fosse pari a quello dell'essere che cerchiamo di spiegare.) E' chiaro quindi che in linea di principio l'unica spiegazione accettabile per l'esistenza di oggetti complicati, intelligenti, e dotati di intenzioni, come gli umani, è quella che li spiega in termini di oggetti meno intelligenti, meno dotati di intenzioni, arrivando alla fine ad oggetti privi di intelligenza e di intenzioni. (Abbiamo già visto che ogni buona teoria della mente deve spiegare l'intelligenza in termini di interazione tra automi meccanici privi di intelligenza.) Alla fine bisogna far vedere come un oggetto complesso può essere prodotto da meccanismi semplici, non dotati di mente, né di intenzioni, né di capacità di prevedere il futuro, o altre caratteristiche mentalistiche; meccanismi come ad esempio le leggi della fisica. Solo questa sarebbe una buona spiegazione per l'esistenza degli esseri umani. Al contrario, qualunque approccio di tipo "orologiaio", che spieghi la nostra esistenza in termini di un "creatore intelligente", è già in partenza una spiegazione cattiva. (Il che non significa che sia falsa; molta gente non capisce la differenza.) E' cattiva perché non soddisfa la condizione di base di una buona spiegazione: ridurre un fenomeno complesso ad un altro più semplice, così semplice che in quel contesto siamo disposti a darlo per scontato. (riduzionismo gerarchico.)

Un altro modo di dire la stessa cosa è che una cattiva spiegazione postula l'esistenza di cose troppo complesse per essere nate per caso. Cioè, assume cose troppo improbabili. Ad esempio, se l'economia spiegasse l'aumento della disoccupazione in termini di una combutta tra i lavoratori per confondere gli economisti, questa sarebbe una cattiva spiegazione, perché la probabilità che avvenga una simile cospirazione tra milioni di persone è troppo piccola (dato il resto di ciò che sappiamo sul mondo e la natura umana).

Riporto su questo argomento un brano di Dawkins, tratto da l'Orologiaio Cieco, che a suo tempo avevo saltato.
Un altro tipo di problema è in che modo quella cosa complicata abbia avuto origine. E' questo il problema alla cui soluzione è dedicato l'intero libro, cosicché non è il caso che io mi dilunghi su questo adesso. ... [Ricordo solo che definisco] una cosa "complicata" come una cosa così "improbabile" che non ci sentiamo inclini a darne per scontata l'esistenza. Essa non avrebbe potuto venire all'esistenza in conseguenza di un singolo evento causale. Noi spiegheremo il suo venire all'essere come una conseguenza di trasformazioni graduali, cumulative, passo-passo, a partire da cose più semplici, da oggetti primordiali abbastanza semplici da poter aver avuto origine per caso. Esattamente come il "riduzionismo a grandi passi" non è una buona spiegazione per un meccanismo, e dev'essere quindi sostituito da una serie di piccoli passi graduali da un livello all'altro di una gerarchia [di spiegazioni], così non possiamo spiegare una cosa complessa come se avesse avuto origine in un singolo passo. Dobbiamo di nuovo far ricorso a una serie di piccoli passi, questa volta disposti in sequenza nel tempo.

Nel suo libro, scritto splendidamente, "La creazione", il chimico e fisico di Oxford Peter Atkins [...] sostiene che l'evoluzione di cose complesse sia inevitabile una volta che si siano affermate le condizioni fisiche appropriate. Egli si chiede quali siano le minime condizioni fisiche necessarie, quale sia la quantità minima di lavoro che un Creatore pigro dovrebbe fare per essere certo che l'universo, e in seguito elefanti e altre cose complesse, venissero un giorno all'esistenza. La risposta, dal punto di vista dello scienziato fisico, è che il Creatore in questione potrebbe essere infinitamente pigro. Le unità fondamentali originarie che abbiamo bisogno di postulare per comprendere il venire all'esistenza di qualcosa, o consistono letteralmente in nulla (secondo alcuni fisici) o (secondo altri fisici) sono unità di una semplicità estrema, troppo semplici per aver bisogno di qualcosa come una Creazione deliberata.


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mercoledì 18 giugno 2008

Cervelli gay strutturati come il sesso opposto


Gay si nasce o si diventa? Alcuni scienziati potrebbero aver scoperto delle caratteristiche cerebrali che si formano alla nascita e poi non cambiano più, e che si trovano solo in persone gay. Traduco un articolo apparso sul New Scientist. (articolo in inglese qui.)

Cervelli dei gay strutturati come quelli del sesso opposto

Nuove scansioni cerebrali hanno fornito l'evidenza più convincente finora disponibile che essere gay o eterosessuali è una caratteristica determinata a livello biologico [anziché appresa culturalmente, NdM].

Queste scansioni rivelano che, nelle persone omosessuali, alcune zone fondamentali del cervello, che governano l'emozione, l'umore, l'ansia e l'aggressività, hanno la stessa struttura presente nelle persone eterosessuali del sesso opposto.

Inoltre queste differenze si sono probabilmente formate durante la gestazione o nella primissima infanzia, dice Ivanka Savic, colei che ha diretto lo studio all'istituto Karolinska di Stoccolma.

"Questa è finora la più solida misurazione disponibile delle differenze cerebrali tra soggetti omosessuali ed eterosessuali" dice Savic.

Già studi precedenti avevano mostrato differenze nell'architettura e nell'attività cerebrale tra persone gay ed eterosessuali, ma la maggior parte di essi si basava sulle risposte a stimoli sessuali che avrebbero potuto essere apprese culturalmente, come giudicare il grado di attrattività di volti maschili o femminili.

Simmetria cerebrale

Per aggirare questo problema, Savic e una sua collega, Per Lindstrom, hanno deciso di misurare parametri cerebrali stabiliti al momento della nascita.

"Era questo lo scopo dello studio: mostrare che alcuni parametri del loro cervello sono differenti, ma questi parametri non possono essere stati alterati dall'apprendimento o da processi cognitivi", dice Savic.

Per prima cosa hanno usato degli scanner di tipo MRI per scoprire il volume complessivo e la forma complessiva dei cervelli in un gruppo di 90 volontari consistente di 25 eterosessuali e 20 omosessuali di ciascun sesso.

Il risultato ha mostrato che i maschi eterosessuali avevano cervelli asimmetrici, con l'emisfero destro leggermente più grande; ed anche le donne omosessuali avevano questa simmetria. I maschi gay, invece, avevano cervelli simmetrici come quelli delle donne eterosessuali.

Successivamente la squadra ha utilizzato degli scanner di tipo PET per misurare il flusso del sangue verso l'amigdala, una parte del cervello che governa la paura e l'aggressività. Le immagini hanno rivelato in che modo l'amigdala si connetteva ad altre parti del cervello, fornendo indizi su come ciò potrebbe influenzare il comportamento.

Il collegamento con la depressione

In tal modo i ricercatori hanno scoperto che nei maschi gay queste connessioni hanno la stessa struttura presente nelle femmine eterosessuali e viceversa (vedi immagine in alto).

Nelle femmine eterosessuali e nei maschi omosessuali queste connessioni terminavano prevalentemente in regioni del cervello che controllano sensazioni di paura ed intensa ansia.

"Le regioni coinvolte nella fobia, l'ansia e la depressione si sovrappongono alle strutture che vediamo dipartirsi dall'amigdala" dice Savic.

Questo è un fatto significativo, sostiene Savic, e conferma altri dati disponibili che mostrano che le donne hanno una probabilità tre volte maggiore rispetto agli uomini di soffrire di disordini dell'umore o di depressione. Anche i maschi gay hanno alti tassi di depressione, dice Savic, ma è difficile scoprire se ciò è dovuto alla loro biologia, all'omofobia di altre persone, o semplicemente alla sensazione di essere diversi.

Nei maschi eterosessuali e nelle femmine lesbiche, l'amigdala inviava i suoi segnali prevalentemente nella corteccia sensoria-motrice e nello striatum, regioni del cervello che attivano la risposta "combatti o datti alla fuga". "Si tratta di una risposta aggressiva, "d'azione", molto più che nelle donne", dice la Savic.

Differenze notevolissime

Questo studio mostra che gli omosessuali di entrambi i sessi mostrano forti deviazioni nella simmetria del cervello rispetto agli eterosessuali dello stesso sesso" dice Qaxi Rahman, un ricercatore di spicco sull'orientamento sessuale al Queen Mary College, Università di Londra.

"Le differenze che sono state rilevate nelle connessioni dell'amigdala sono notevolissime"

"Paradossalmente, otteniamo più informazione studiando caratteristiche che non hanno connessione diretta con l'orientamento sessuale, ed è proprio qui che lo studio in questione eccelle" dice Simon LeVay, un noto autore statunitense che nel 1991 ha scoperto (pdf) delle differenze tra omosessuali ed eterosessuali in una parte del cervello chiamata ipotalamo.

Ma, come la stessa Savic riconosce, lo studio non può dire se queste differenze nella struttura del cervello siano geneticamente ereditate, oppure se si formino durante la gravidanza, a causa di un'esposizione molto alta o molto bassa ad ormoni sessuali come il testosterone. [Però lo studio esclude che queste differenze possano essere dovute alla cultura o a come le persone sono state cresciute. Ricapitolando: se ho capito bene, lo studio dimostra che tra gay ed eterosessuali ci sono differenze, cerebrali e caratteriali, già fissate alla nascita o nel grembo. Ma non dice quanto queste differenze influiscono nel determinare la sessualità del soggetto. NdM.]

Pubblicazione scientifica di riferimento: Journal reference: Proceedings of the National Academy of Sciences (DOI: 10.1073/pnas.0801566105)

venerdì 6 giugno 2008

Come risolvere il problema rifiuti

La situazione rifiuti a Napoli mi fornisce l'occasione per alcune riflessioni sull'inquinamento e il mercato, da cui emergerà anche un possibile modo di risolvere il problema rifiuti.

L'inquinamento è spesso considerato un caso classico di "fallimento del mercato". Prendiamo in considerazione un'industria che produce inquinamento (ad esempio, una fabbrica che inquina i fiumi, i mari, o l'aria). Quando un'industria produce inquinamento, sono i cittadini a sopportare i costi di questo inquinamento (sotto forma di maggiore rischio di malattie, di aria cattiva, di paesaggi meno piacevoli, di minore turismo, forse di maggiori tasse per lo smaltimento, ecc.). Cioè, l'imprenditore è in grado di scaricare sugli altri una gran parte dei costi della sua attività. Potendoli scaricare su altri, un imprenditore razionale non si interesserà della quantità di inquinamento che produce, ma solo del profitto per sé. Il risultato è che la quantità di inquinamento prodotto è "eccessiva", nel senso che è maggiore di quanto sarebbe se l'imprenditore sopportasse interamente i costi del suo inquinamento, anziché scaricarli sugli altri. Per questo motivo, si ritiene che lo Stato debba inserirsi nel mercato con regolamentazioni, ponendo un limite alla quantità di inquinamento che le imprese producono, al fine di rendere il mondo vivibile, oggi e domani.

Abbandoniamo ora il mondo delle imprese e prendiamo il caso di Napoli, in cui i rifiuti sono prodotti non dalle industrie ma dai cittadini stessi. Anche in questo caso, è naturale pensare ad un fallimento del mercato. Cioè, è naturale domandarsi perché il mercato non abbia già prodotto una soluzione al problema dei rifiuti di Napoli. Ad esempio, come mai i proprietari delle discariche (o di terreni inutilizzati) non si sono organizzati per offrire ai cittadini un servizio a pagamento, offrendosi di passare ogni giorno sotto le loro case con un furgone, e portar via l'immondizia dei loro clienti, dietro pagamento di un tot a chilo? Una possibile spiegazione è che questo sistema non funzionerebbe: i cittadini non sceglierebbero di usufruire di questo servizio. Infatti, per quale motivo un cittadino dovrebbe voler pagare per far portare via i propri rifiuti, dato che continuerà a vedere sotto casa sua i rifiuti delle altre persone che non hanno acquistato il servizio? Ciascun abitante della zona avrebbe interesse ad iscriversi al servizio solo se anche tutti gli altri si iscrivessero. Ma un singolo cittadino non ha controllo su ciò che gli altri decidono di fare; non ha modo di costringere gli altri ad iscriversi. Questo è quindi un caso in cui l'interesse individuale è diverso dall'interesse del gruppo. Razionalmente, tutti gli abitanti della zona si rendono conto che, se solo tutti si iscrivessero al servizio, starebbero tutti meglio; ma nessuno di essi, preso singolarmente, ha interesse a farlo. (Per chi conosce la teoria dei giochi, questo è un caso di "dilemma del prigioniero"). La logica conclusione sembra essere che occorre un qualche tipo di ente coercitivo, che costringa i cittadini a comportarsi nel modo in cui tutti "stanno meglio" (iscrivendosi obbligatoriamente al servizio di smaltimento di rifiuti, e pagando obbligatoriamente la propria quota). Abbiamo reinventato la tassazione.

Riassumendo: il mercato non sembra in grado di gestire né l'inquinamento prodotto dalle imprese né quello prodotto dai cittadini; è quindi necessario l'intervento regolatore e coercitivo dello Stato.

Tutto quello che ho detto è sbagliato.

Quella che ho esposto fin qui è la teoria prevalente, ed è sbagliata in quanto:

1) non è vero che il mercato è incapace di fornire una soluzione al problema dell'inquinamento;

2) non è vero che lo Stato è in grado di risolvere il problema.

Giustifichiamo queste affermazioni nell'ordine.

1.

Prima di illustrare la soluzione di libero mercato al problema dell'inquinamento, chiediamoci quale sia davvero il nostro obiettivo. Vogliamo eliminare tutto l'inquinamento? Certo che no. Immaginate la vita se inquinare fosse del tutto impossibile. Non sarebbe una bella vita. Non potremmo consumare molti prodotti che contribuiscono alla qualità della nostra vita (automobili, treni, aria condizionata, frigoriferi, deodoranti, pile elettriche...). Anzi, non potremmo nemmeno vivere. Infatti, per vivere abbiamo bisogno di respirare, e la respirazione produce diossido di carbonio, che è una sostanza inquinante. Ma allora, se non vogliamo eliminare tutto l'inquinamento, qual è il nostro obiettivo? Vogliamo conservare solo l'inquinamento che vale ciò che costa. Se un certo tipo di inquinamento ha costi molto piccoli e benefici molto grandi, non vogliamo eliminarlo. Se invece quell'inquinamento ha costi grandi e benefici piccoli, vogliamo eliminarlo. (Nota: quando dico "costi", non pensate solo ai costi monetari, ma a ogni tipo di costo, anche a lungo termine, come: probabilità di malattie, cattivo odore nelle strade, ecc). Quindi la domanda si riduce a: come decidere qual è la quantità "ottimale" di inquinamento? Come possiamo decidere se un dato tipo di inquinamento, in una data quantità, "vale ciò che costa"?

Ciò premesso, veniamo alla soluzione di libero mercato. Cercherò di dimostrare che, con questa soluzione, viene prodotto solo l'inquinamento che vale ciò che costa.

Supponiamo di abolire la proprietà pubblica. Supponiamo cioè che ogni lembo di terra (e ogni metro cubo di aria) diventi proprietà privata. Non abbiamo più proprietà pubblica, ma solo un mondo di proprietari che interagiscono, ciascuno seguendo i propri obiettivi.

In questo caso, la maggior parte della gente adibirà il proprio terreno all'uso più redditizio. Cioè, all'uso che soddisfa maggiormente le esigenze della popolazione. (Se un servizio è più necessario di un altro per la popolazione, la gente è disposta a offrire di più per averlo; ma allora guadagnerai di più producendo quel servizio piuttosto che un altro.)

Se, ad esempio, in una certa zona le strade sono molto trafficate, qualcuno avrà convenienza a convertire il proprio terreno in strada; egli si accorgerà che, così facendo, il terreno gli renderebbe di più di quanto gli rende con l'utilizzo attuale. Analogamente, se nella zona scarseggiano le discariche, qualcuno avrà interesse a convertire la propria zona a discarica. Se invece non ci sono abbastanza case, qualcuno convertirà il proprio terreno in abitazione e lo affitterà o venderà. E così via per tutti i possibili utilizzi di un terreno: il proprietario del terreno ha interesse ad usare il suo terreno nel modo che soddisfa maggiormente i bisogni altrui. E farà tutto ciò guidato soltanto dall'interesse personale.

Quindi la quantità relativa di case, di discariche, di strade, ristoranti, supermercati, night club, eccetera, si distribuirà automaticamente in modo da riflettere la loro importanza relativa per la popolazione.

In questo processo, i prezzi giocano un ruolo essenziale. Vediamo brevemente come il sistema dei prezzi permetta di raggiungere il risultato ottimale di cui sopra. Supponiamo che in un certo momento le discariche scarseggino. Allora i prezzi per buttar via i propri rifiuti saranno molto alti. Ma allora le discariche saranno molto redditizie. Questo spingerà i proprietari a convertire alcune strade, o case, in discariche. Man mano che fanno ciò, il numero di discariche aumenterà e quello di strade e case diminuirà. Questo farà scendere il prezzo delle discariche per i consumatori, ed aumentare quello di strade o case. Quindi, per i proprietari, le case e strade diventeranno sempre più redditizie e le discariche sempre meno redditizie. Questo processo si arresterà in uno stato di equilibrio, in cui la redditività delle discariche è esattamente pari a quella delle case o delle strade. (Cioè, ogni proprietario si accorgerà che adibire un metro quadro di terra a discarica gli darebbe esattamente lo stesso guadagno che adibirlo a strada, o ad abitazione.)

Finora abbiamo dimostrato solo che esisteranno delle discariche, e che la quantità relativa tra discariche, strade, case (e bar, night club, ristoranti, supermercati ecc.) sarà ottimale. Ma non era questa la tesi. La nostra tesi è che sarà prodotto solo quell'inquinamento che vale ciò che costa. Per dimostrarlo, dobbiamo proseguire il ragionamento.

Prima di tutto, notiamo che i rifiuti prodotti vanno messi da qualche parte. Questo è vero anche oggi. Ma, nello scenario che stiamo esaminando, a differenza di oggi, ogni terreno è privato. Quindi, quando inquini un terreno, necessariamente stai inquinando il terreno di qualcuno. Stai danneggiando qualcuno. Che tu sia un'industria o un cittadino singolo, non cambia nulla. Se inquini l'aria, stai inquinando l'aria di qualcuno; se getti immondizia in un terreno, stai inquinando il terreno di qualcuno; se scarichi liquami in acqua, stai inquinando l'acqua di qualcuno.

Quindi, per poter inquinare un terreno, dovrai acquistare dal proprietario il permesso di farlo. Oppure, se non lo fai, dovrai pagare i danni. A questo punto si può già intuire perché questo sistema produce solo l'inquinamento che vale ciò che costa. Ma andiamo per gradi. Sono possibili solo due casi:

A. stai inquinando solo la tua terra (e/o la tua aria);

B. stai inquinando anche la terra e l'aria di qualcun altro.

Nel caso A, sei solo tu a subire i danni del tuo inquinamento. Sopporti interamente i costi del tuo inquinamento. Quindi necessariamente produrrai inquinamento solo quando il suo valore è maggiore del costo. Ad esempio, se decidi di gettare nel tuo terreno della spazzatura, contenente del cibo in decomposizione, ciò dimostra che per te il valore di consumare quel cibo era maggiore del costo di sentirne il cattivo odore in decomposizione. (Naturalmente, se l'odore dell'immondizia nel tuo terreno sconfina nel terreno adiacente, causi un danno anche ad altri, oltre che a te stesso. Ma allora non siamo più nel caso A, ma nel caso B.)

Caso B: stai inquinando la proprietà di qualcun altro (terra o aria o acqua). In questo caso, hai acquistato il permesso di farlo dal proprietario del terreno, oppure sarai denunciato e pagherai i danni. Esaminiamo entrambi i casi (che chiamiamo B1 e B2).

B1) Se hai acquistato il permesso di inquinare dal proprietario del terreno, chiediamoci: quanto lo hai pagato? Risposta: lo hai pagato una cifra stabilita volontariamente da entrambe le parti. Esaminiamo le conseguenze sia dal punto di vista tuo che da quello del proprietario del terreno. Il proprietario del terreno ha accettato volontariamente quei soldi per collocare i rifiuti nel suo terreno. Quindi, quei soldi avevano per lui un valore maggiore della sofferenza causatagli dai rifiuti. Quindi, dal suo punto di vista, è valsa la pena ospitare quei rifiuti. Cioè, quei rifiuti sono valsi il loro costo. Vediamo ora la cosa dal tuo punto di vista. Tu sapevi che avresti dovuto pagare quella cifra per liberarti dei rifiuti; quindi hai tenuto in considerazione quel costo nel decidere se produrre o meno quei rifiuti. Se hai deciso di produrre ugualmente quei rifiuti, significa che per te valevano di più del loro costo. Ad esempio, preferivi mangiare quel cibo e poi pagare quella cifra per liberarti dei suoi avanzi, piuttosto che non mangiarlo e avere un po' più fame. Insomma, anche dal tuo punto di vista, i rifiuti prodotti valevano ciò che sono costati.

B2) Se non hai acquistato il permesso, allora sarai denunciato dal proprietario del terreno che hai inquinato e pagherai i danni. Quanti danni pagherai? Approssimativamente pagherai danni in modo da compensare completamente la tua vittima. (Uno dei principi della giustizia è proprio questo: ripristinare per la vittima la situazione ex-ante). Ma allora, il discorso diventa simile al caso precedente. Infatti, la vittima è stata compensata interamente; quindi tu hai sopportato interamente i costi del tuo inquinamento. Sapendo che dovrai sopportare interamente i costi dell'inquinamento, produrrai solo i rifiuti che valgono di più di ciò che costano. Anche in questo caso il risultato è ottimale.

(Notiamo che il caso B2 presuppone una giustizia funzionante. Il problema è che lo Stato non offre una giustizia funzionante, ma di questo parleremo in un'altra occasione.)

In tutti i casi, la tesi sembra dimostrata: il sistema proposto produce solo l'inquinamento che vale ciò che costa.

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Vediamo una possibile obiezione. "Perché questo ragionamento non funziona già oggi? Dopo tutto, buona parte del suolo è già privata. Perché a Napoli il meccanismo che descrivi non è già in azione?"

Una risposta è che a Napoli la gente ha l'opzione di abbandonare i suoi rifiuti nella strada pubblica. Avendo questa opzione, razionalmente sceglierà di usarla. Perché? Lasciando i miei rifiuti nella strada pubblica, io scarico il costo del mio inquinamento interamente sugli altri. Infatti, il costo per me dei rifiuti che io abbandono in strada è pari a zero, perché, se non li lasciassi lì, per me non cambierebbe niente: continuerei a vedere in strada i rifiuti altrui. Quindi ciascun abitante della zona, singolarmente, ha interesse a lasciare i propri rifiuti nella strada pubblica, perché per lui il costo dei rifiuti che lui lascia è zero. Invece, nello scenario alternativo in cui non esiste il suolo pubblico, questa opzione non esisterebbe più. Non sarebbe più possibile inquinare e scaricare i costi sugli altri. Ognuno dovrebbe sopportare interamente i costi dei rifiuti che produce.

Questo avrebbe anche l'effetto di diminuire la quantità totale di rifiuti. Oggi noi, nel comprare una bottiglia di aranciata, teniamo conto solo del suo prezzo al supermercato, ma non del costo di quella bottiglia in termini di inquinamento. Questo costo viene scaricato su tutti gli altri. Questo significa che, razionalmente, consumeremo "troppo". Cioè, sceglieremo di consumare più aranciata di quanta ne consumeremmo se dovessimo sopportare interamente i costi dell'inquinamento della bottiglia. Questo significa che la socializzazione dello smaltimento dei rifiuti produce inevitabilmente inquinamento eccessivo. Una cosa simile succede quando si va al ristorante e il conto si paga dividendo in parti uguali. Tutti i partecipanti hanno incentivo a consumare di più di quello che sceglierebbero di consumare se sopportassero l'intero costo di ciò che consumano.

2.

Veniamo alla seconda parte della tesi: può lo Stato risolvere il problema dell'inquinamento? Si potrebbe essere tentati di sfruttare i principi sopra descritti per produrre solo l'inquinamento che vale ciò che costa, ma senza privatizzare il suolo pubblico. Ad esempio, lo Stato potrebbe eliminare la socializzazione dei rifiuti e costringere i cittadini o le industrie a pagare in proporzione alla quantità di inquinamento che producono. In questo caso, la gente produrrebbe solo i rifiuti che valgono più di quella cifra. Ma allora, non avremmo solo l'inquinamento che "vale ciò che costa"?

No, perché quella cifra non rifletterebbe il vero costo dell'inquinamento. In altre parole, lo stato non avrebbe modo di decidere quanto far pagare gli inquinatori. Un euro al chilo? Dieci euro? Centomila euro al chilo? Dopo tutto, variando questo prezzo, potremmo ottenere qualunque quantità di inquinamento. Fissa i prezzi abbastanza alti, e la gente comincerà a inquinare pochissimo. Ma non potremmo certo concludere che il risultato così ottenuto sia buono o cattivo. Il fatto è che, se il prezzo da pagare per chilo di rifiuti è fissato dallo Stato, diventa solo un numero arbitrario privo di significato. Non è detto che tu, pagando quella cifra, stia compensando davvero il danno che fai. Quella cifra non deriva da una valutazione soggettiva della persona danneggiata circa l'entità del danno. Quindi, potrebbe essere troppo o troppo poco. In altre parole, nel momento in cui il prezzo per inquinare è fissato dallo Stato, esso non riflette più il vero costo dell'inquinamento. E' andata persa la connessione tra prezzo e costo.

Il motivo è che i costi sono soggettivi. Lo stato non può sapere quanto dispiacere provo vedendo dei rifiuti o sentendone l'odore (e quindi quanti soldi sarei disposto ad accettare per sopportare tutto ciò). Non può sapere quale è per me il costo di bere acqua inquinata. Solo l'individuo interessato può sapere quanto è il costo per lui di un dato tipo di inquinamento. Per fare un esempio estremo, se ho un cancro terminale, per me potrebbe valere molto poco la prospettiva di bere un'acqua più pulita; potrei preferire bere acqua un po' più sporca ed avere qualche soldo in più da lasciare ai miei figli. Quindi, lo stato non può produrre un risultato ottimale, perché non ha abbastanza informazione, sulle scale di valori e sui costi, che sono soggettivi e non rilevabili scientificamente, né sulle situazioni individuali. Solo se il prezzo per inquinare è fissato dall'individuo danneggiato, esso riflette davvero il costo dell'inquinamento.

Non avendo queste informazioni su costi e benefici, lo Stato non potrebbe mai decidere, ad esempio, dove costruire le discariche, quante costruirne, quanto far pagare per usarle, se conviene o no costruire impianti di riciclaggio dei rifiuti, se incentivare la raccolta differenziata, eccetera. Un burocrate, insomma, si trova di fronte a un problema insolubile. Egli sa quanto costa (in senso monetario) costruire una ulteriore discarica, ma non sa quanto vale. Forse è meglio spendere meno soldi per le discariche e più per l'istruzione o la sanità? Forse quei soldi possono essere usati meglio in altro modo? Il burocrate non può saperlo perché i soldi sono stati sottratti con la forza ai cittadini; ciò priva i cittadini della possibilità stessa di manifestare qual è il modo migliore di spendere quei soldi.

Solo quando le transazioni sono volontarie, e i soldi sono spesi volontariamente, possiamo concludere qualcosa sull'ottimalità del risultato. Solo nel momento in cui io accetto volontariamente di ospitare quei rifiuti e sopportare quel cattivo odore in cambio di denaro, possiamo concludere che quel denaro per me valeva di più del costo di sopportare quell'odore ed ospitare quei rifiuti. Se, al contrario, la collocazione dei rifiuti avviene coercitivamente (ad esempio, se un terreno viene espropriato dallo Stato per collocarci dei rifiuti), nessuno può sapere se i rifiuti prodotti valevano ciò che sono costati. (Anzi, il fatto che c'è stata coercizione è evidenza che il costo di quei rifiuti per la vittima è stato maggiore del beneficio per i beneficiari.)

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Ci sono anche altri motivi per cui lo Stato non può risolvere il problema dell'inquinamento: la mancanza di incentivi. I meccanismi interni dello Stato sono tali che, se anche riuscisse a calcolare la quantità ottimale di inquinamento, ancora non avrebbe incentivo a produrre quel livello di inquinamento, bensì ne produrrebbe di più (magari con la giustificazione di "promuovere l'industrializzazione"). Questo sarà oggetto di un post successivo.