Negli ultimi tempi il Papa è stato fortemente criticato per aver preso posizione contro il preservativo come rimedio contro l'AIDS. I critici hanno sostenuto che, per effetto dei suoi predicamenti, avverrà un aumento della diffusione dell'AIDS.
Sono rimasto sorpreso dall'apprendere che l'argomento di cui sopra (quello dei critici del Papa) è sbagliato. Riuscite a indovinare perché?
La soluzione è dopo i puntini:
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Tratto dal blog di David Friedman:
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Supponete di rendere le auto più sicure obbligando i produttori a dotarle di cinture di sicurezza, piantone sterzo collassabile, e altri cambiamenti che rendono meno probabile che un incidente d'auto uccida gli occupanti dell'auto. La conclusione ovvia, raggiunta da molte persone, è che il numero di morti in autostrada diminuirà.
Sam Peltzman, in un articolo classico, ha fatto notare che non esistono buone ragioni teoriche per aspettarsi che ciò avvenga. Gli incidenti d'auto non sono cose che "accadono e basta"; al contrario, sono il risultato di decisioni prese dai guidatori, come: quanto veloce guidare; quanta attenzione prestare alla guida e quanta alle conversazioni con i passeggeri o all'ascolto della radio; se tornare a casa in macchina o prendere un taxi dopo aver bevuto un po' troppo. Il fatto che le auto sono diventate più sicure riduce il costo di guidare in modo spericolato; minore è la probabilità che l'incidente uccida il guidatore, più i guidatori saranno disposti a guidare in modo spericolato. Quindi rendere le auto più sicure produce sì meno morti per ciascun incidente, ma produce anche più incidenti. Non c'è base teorica per predire se l'effetto netto sarà più o meno morti. Peltzman ha offerto evidenza statistica che, nel caso particolare che lui stava studiando (un insieme di requisiti di sicurezza imposti negli anni '60) i due effetti opposti si cancellavano quasi interamente a vicenda. La mortalità per incidente diminuì, gli incidenti aumentarono, e il tasso di mortalità annuale rimase più o meno lo stesso che ci sarebbe stato senza i cambiamenti legali. [Anzi ci fu un leggero aumento delle morti, NdM.]
Tutto ciò mi è tornato in mente a causa di una recente controversia su una questione diversa ma che usa la stessa logica. Il Papa, non sorprendentemente, ha preso posizione contro la distribuzione di preservativi come sistema per combattere l'epidemia di AIDS in Africa e, non sorprendentemente, è stato criticato per averlo fatto.
Proprio come nel caso della sicurezza delle auto e degli incidenti d'auto, rendere l'atto sessuale più sicuro ha due effetti che vanno in direzione opposta. Diminuisce la probabilità che un singolo atto sessuale produca la trasmissione dell'AIDS. Ma, diminuendo questo rischio, riduce l'incentivo ad evitare interamente il sesso, ad evitare atti sessuali come i rapporti anali che hanno alta probabilità di trasmettere l'AIDS, e ad evitare il sesso con persone che hanno alta probabilità di trasmetterti l'AIDS, come le prostitute. Su basi teoriche non abbiamo modo di sapere se l'effetto netto sarà una quantità maggiore o minore di AIDS.
Su basi empiriche, c'è evidenza che i due effetti si cancellano a vicenda, proprio come nel caso delle automobili. O quantomeno, questa è stata la conclusione, ampiamente citata, di un ricercatore sull'AIDS di Harvard che ha realmente studiato i dati. "Non abbiamo trovato alcuna correlazione significativa tra l'uso del preservativo e una diminuzione dei tassi di infezione da HIV; diminuzione che, dopo 25 anni dall'epidemia, avrebbe dovuto manifestarsi, se davvero l'uso del preservativo stesse funzionando."
Questo mi ricorda un'altra questione ... La chiesa, per ragioni dottrinarie che ignoro, permette la contraccezione con il metodo Ogino-Knaus, ma sostanzialmente condanna tutti i metodi alternativi. I critici di tale politica sostengono spesso la loro critica con immagini di donne povere che generano dieci o dodici figli, con conseguenze terribili su se stesse e, sostengono i critici, sul mondo intero.
L'errore di questa argomentazione è che il problema di sovrappopolazione che si cita è esattamente il problema che viene risolto da forme di contraccezione inaffidabili come la Ogino-Knaus. Se il tuo scopo è avere quattro figli invece di otto, un metodo di contraccezione che fallisce solo occasionalmente servirà bene allo scopo. E' questa presumibilmente la ragione per cui, prima dell'invenzione dei metodi moderni di contraccezione, il tasso di natalità, anziché essere sempre vicino al massimo biologico, era influenzato da fattori come il reddito, che influenzano la desiderabilità di avere figli. [...]
Le forme inaffidabili di contraccezione funzionano abbastanza bene per limitare il tasso di nascite all'interno del matrimonio. D'altra parte, se il tuo scopo è permettere alle donne di avere rapporti sessuali con uomini con cui non sono sposate senza rischi significativi di gravidanza (cioè permettere ciò che è diventato la norma nelle società sviluppate), allora forme di contraccezione più affidabili diventano molto sensate.
Questo mi fa sospettare che nessuna delle due fazioni nella controversia sia stata interamente onesta circa i propri scopi. La Chiesa cattolica difende la sua posizione su base dottrinaria, ma la sua posizione si può interpretare, in modo forse più plausibile, come ingegneria sociale. Limitare la contraccezione a forme inaffidabili (Ogino-Knaus, che la Chiesa approva, e coito interrotto, che la Chiesa non ha modo di impedire) rende il sesso occasionale considerevolmente più rischioso senza imporre grossi oneri al sesso matrimoniale, e quindi rende il primo meno attraente come sostituto del secondo. D'altra parte, i critici della posizione della Chiesa affermano di essere preoccupati della povertà e della sovrappopolazione, ma sostengono l'uso di tecniche di contraccezione che permettono (e probabilmente producono) il moderno stile di vita basato su rapporti sessuali al di fuori di relazioni a lungo termine.
Naturalmente, sul piano dei principi, credo che la contraccezione debba essere legale. Sono agnostico sulla domanda se la contraccezione abbia avuto, al netto, effetti positivi o negativi: riesco a vedere argomenti sensati da entrambi i lati. Ma il mio scopo in questo post non è sostenere una delle due posizioni, ma è solo offrire ragioni di sospettare che nessuna delle due fazioni sia stata interamente onesta circa i propri scopi.
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mercoledì 15 aprile 2009
domenica 12 ottobre 2008
Altro quiz - medicine o caramelle?
(Fatto realmente accaduto.)
Londra 1879. Il signor Bridgman produceva caramelle nella cucina di casa sua. Aveva un buon rapporto con i suoi vicini, compreso il dottor Sturges, che viveva ed esercitava la professione di medico in una casa adiacente.
Poi il dottor Sturges costruì un nuovo studio per le visite mediche nel proprio giardino, in posizione adiacente alla cucina del signor Bridgman. Quando ebbe finito di costruire la sala, il dottore scoprì che le macchine di Bridgman facevano così tanto rumore da rendere inutilizzabile lo studio. Il dottore portò in giudizio Bridgman per costringerlo a terminare la sua attività.
I giudici che si occuparono della disputa ragionarono così: "la nostra decisione non riguarderà solo Sturges e Bridgman; stiamo in realtà decidendo tra produrre un servizio medico e produrre caramelle al cioccolato. Se accoglieremo la richiesta del dottor Sturges, lui potrà curare più pazienti, e in modo più efficace; il lato negativo sarà la scomparsa delle caramelle di Bridgman dal mercato. Se invece accetteremo la richiesta di Bridgman, le sue caramelle resteranno mentre i servizi medici del dottore scompariranno."
I giudici decisero in favore del dottore: accordarono al dottore il diritto di richiedere in qualunque momento a Bridgman di terminare l'attività, e Bridgman non avrebbe potuto rifiutare.
Nel giustificare questa decisione, i giudici fecero esplicito riferimento agli effetti che la loro decisione avrebbe avuto sulla produzione di beni e servizi nella città.
Ma i giudici si sbagliavano. Nonostante ne fossero convinti, la loro decisione non aveva alcun potere di influenzare la produzione di caramelle o servizi medici da parte di Bridgman e Sturges. Perché?
(Tratto da "Armchair Economist" , "l'economista in pantofole", di Steven E. Landsburg.)
(Suggerimento: la soluzione non è che Bridgman va a fare le caramelle da qualche altra parte. Nessuno dei due trasloca. Ciononostante, la decisione della corte non influenza minimamente quale delle due cose verrà prodotta.)
La soluzione è qui di seguito, dopo i puntini:
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Ecco la soluzione. Scrive Landsburg:
Osservazioni:
A) Se ciò che verrà prodotto non dipende dalla decisione del giudice, da cosa dipende? Risposta: dalle preferenze della gente. Non lasciamoci ingannare dal fatto che la disputa è tra due persone: il medico e il caramellaio sono soltanto intermediari. La vera battaglia è tra i cittadini che vogliono quelle caramelle e i cittadini che vogliono quelle visite mediche; gli uni stanno finanziando il caramellaio, gli altri il medico. E' come se questi due gruppi di cittadini stessero contrattando direttamente tra di loro, per stabilire cosa bisogna produrre; alla fine della contrattazione, tra i due servizi, sarà prodotto quello che ha maggior valore per i cittadini. Infatti, tra il medico e il caramellaio, quello dei due il cui lavoro ha maggior valore per i cittadini avrà anche più soldi da offrire all'altro, quindi finirà per vincere la contrattazione, quindi finirà per lavorare.
(A proposito, è del tutto possibile che per i cittadini abbia maggior valore il servizio del caramellaio. Si potrebbe pensare che per la gente il medico abbia sempre maggior valore del caramellaio, ma non è così. Infatti il valore del servizio offerto da quel medico dipende anche dalla quantità di altri medici disponibili sul mercato; se lui è il milionesimo medico, per la gente il suo servizio ha pochissimo valore. Quindi è del tutto possibile che la gente dia più soldi al caramellaio. Forse le sue caramelle sono molto particolari e diverse da tutte le altre sul mercato.)
B) Questa logica, basata sulla contrattazione che produce il risultato efficiente, sarà essenziale quando illustreremo l'argomento di David Friedman sul non-funzionamento della democrazia e sulla superiorità dell'anarchia di mercato (o democrazia di mercato che dir si voglia). L'argomento di Friedman è che la democrazia produrrà leggi che danneggiano il paese ma danno un beneficio netto ad alcune lobby, mentre nell'anarchia di mercato questo non può avvenire. Il motivo è che nell'anarchia di mercato le agenzie di protezione possono contrattare, e questa contrattazione produrrà come risultato la legge efficiente (quella di maggior valore per i cittadini); quindi la lobby non riuscirà ad ottenere la legge che vuole. Invece in democrazia (e in generale con lo Stato) questo non avviene, in quanto con lo Stato la legge efficiente diventa un "bene pubblico"; quindi non viene prodotta; quindi la lobby riuscirà a ottenere la legge opposta. Questa era la traccia dell'argomento di Friedman. (Nota: si dicono "beni pubblici" quei beni per i quali il produttore non riesce a farsi pagare da tutti coloro che ne traggono beneficio. Ne segue che questi beni vengono prodotti in quantità sub-ottimale. La legge e la protezione personale sono beni pubblici sotto lo Stato ma beni privati sotto l'anarchia di mercato.).
C) Abbiamo visto che la decisione della corte non ha importanza per quanto riguarda la produzione (la quale dipende solo dalla scala di valori della gente). Però ha grande importanza per il medico e il caramellaio; infatti influenza i loro rispettivi redditi.
Londra 1879. Il signor Bridgman produceva caramelle nella cucina di casa sua. Aveva un buon rapporto con i suoi vicini, compreso il dottor Sturges, che viveva ed esercitava la professione di medico in una casa adiacente.
Poi il dottor Sturges costruì un nuovo studio per le visite mediche nel proprio giardino, in posizione adiacente alla cucina del signor Bridgman. Quando ebbe finito di costruire la sala, il dottore scoprì che le macchine di Bridgman facevano così tanto rumore da rendere inutilizzabile lo studio. Il dottore portò in giudizio Bridgman per costringerlo a terminare la sua attività.
I giudici che si occuparono della disputa ragionarono così: "la nostra decisione non riguarderà solo Sturges e Bridgman; stiamo in realtà decidendo tra produrre un servizio medico e produrre caramelle al cioccolato. Se accoglieremo la richiesta del dottor Sturges, lui potrà curare più pazienti, e in modo più efficace; il lato negativo sarà la scomparsa delle caramelle di Bridgman dal mercato. Se invece accetteremo la richiesta di Bridgman, le sue caramelle resteranno mentre i servizi medici del dottore scompariranno."
I giudici decisero in favore del dottore: accordarono al dottore il diritto di richiedere in qualunque momento a Bridgman di terminare l'attività, e Bridgman non avrebbe potuto rifiutare.
Nel giustificare questa decisione, i giudici fecero esplicito riferimento agli effetti che la loro decisione avrebbe avuto sulla produzione di beni e servizi nella città.
Ma i giudici si sbagliavano. Nonostante ne fossero convinti, la loro decisione non aveva alcun potere di influenzare la produzione di caramelle o servizi medici da parte di Bridgman e Sturges. Perché?
(Tratto da "Armchair Economist" , "l'economista in pantofole", di Steven E. Landsburg.)
(Suggerimento: la soluzione non è che Bridgman va a fare le caramelle da qualche altra parte. Nessuno dei due trasloca. Ciononostante, la decisione della corte non influenza minimamente quale delle due cose verrà prodotta.)
La soluzione è qui di seguito, dopo i puntini:
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Ecco la soluzione. Scrive Landsburg:
1.
Supponiamo che il caramellaio guadagni 100$ a settimana vendendo caramelle, e che il medico guadagni 200$ a settimana con le visite.
Se la corte decide in favore del medico, il medico fa chiudere il caramellaio, e vengono prodotte più visite mediche ma meno caramelle.
Se invece la corte decide in favore del caramellaio, dandogli il diritto di fare rumore, la partita non finisce qui: il medico propone un patto al caramellaio: "ti pagherò 150$ a settimana se spegni la macchina e rinunci a lavorare". Ciò fa guadagnare al caramellaio 50$ in più di quello che guadagnerebbe lavorando; e lascia al medico un profitto netto di 50$ a settimana --- che è peggio di 200$, ma è meglio dei 0$ che guadagnerebbe dallo studio medico se non facesse quel patto. Ciascuna delle due parti ottiene un beneficio; stanno tutti meglio. Quindi il patto viene accettato: il caramellaio smette di lavorare, e vengono prodotte più visite mediche ma meno caramelle.
Quindi il caramellaio smette di lavorare indipendentemente dalla decisione della corte. Il verdetto non ha alcun impatto sulla produzione.
2.
Questo caso è simmetrico. Supponiamo che il caramellaio guadagni 200$ a settimana e il medico 100$. Se la corte decide contro il medico, il caramellaio continua la sua attività e il medico smette.
Se invece la corte decide a favore del medico, il medico ha il potere di far chiudere il caramellaio. Ma ora il caramellaio offre un patto al medico: "ti pago 150$ a settimana se mi lasci continuare l'attività." Questo frutta al medico 50$ in più di quel che può guadagnare con la sua professione. E lascia al caramellaio un profitto netto; quindi è a vantaggio di entrambi accettare. Il patto viene fatto, il caramellaio continua, e il medico termina l'attività.
Quindi in nessuno dei due casi la decisione della corte ha effetto su cosa viene prodotto.(da "L'economista in pantofole")
Osservazioni:
A) Se ciò che verrà prodotto non dipende dalla decisione del giudice, da cosa dipende? Risposta: dalle preferenze della gente. Non lasciamoci ingannare dal fatto che la disputa è tra due persone: il medico e il caramellaio sono soltanto intermediari. La vera battaglia è tra i cittadini che vogliono quelle caramelle e i cittadini che vogliono quelle visite mediche; gli uni stanno finanziando il caramellaio, gli altri il medico. E' come se questi due gruppi di cittadini stessero contrattando direttamente tra di loro, per stabilire cosa bisogna produrre; alla fine della contrattazione, tra i due servizi, sarà prodotto quello che ha maggior valore per i cittadini. Infatti, tra il medico e il caramellaio, quello dei due il cui lavoro ha maggior valore per i cittadini avrà anche più soldi da offrire all'altro, quindi finirà per vincere la contrattazione, quindi finirà per lavorare.
(A proposito, è del tutto possibile che per i cittadini abbia maggior valore il servizio del caramellaio. Si potrebbe pensare che per la gente il medico abbia sempre maggior valore del caramellaio, ma non è così. Infatti il valore del servizio offerto da quel medico dipende anche dalla quantità di altri medici disponibili sul mercato; se lui è il milionesimo medico, per la gente il suo servizio ha pochissimo valore. Quindi è del tutto possibile che la gente dia più soldi al caramellaio. Forse le sue caramelle sono molto particolari e diverse da tutte le altre sul mercato.)
B) Questa logica, basata sulla contrattazione che produce il risultato efficiente, sarà essenziale quando illustreremo l'argomento di David Friedman sul non-funzionamento della democrazia e sulla superiorità dell'anarchia di mercato (o democrazia di mercato che dir si voglia). L'argomento di Friedman è che la democrazia produrrà leggi che danneggiano il paese ma danno un beneficio netto ad alcune lobby, mentre nell'anarchia di mercato questo non può avvenire. Il motivo è che nell'anarchia di mercato le agenzie di protezione possono contrattare, e questa contrattazione produrrà come risultato la legge efficiente (quella di maggior valore per i cittadini); quindi la lobby non riuscirà ad ottenere la legge che vuole. Invece in democrazia (e in generale con lo Stato) questo non avviene, in quanto con lo Stato la legge efficiente diventa un "bene pubblico"; quindi non viene prodotta; quindi la lobby riuscirà a ottenere la legge opposta. Questa era la traccia dell'argomento di Friedman. (Nota: si dicono "beni pubblici" quei beni per i quali il produttore non riesce a farsi pagare da tutti coloro che ne traggono beneficio. Ne segue che questi beni vengono prodotti in quantità sub-ottimale. La legge e la protezione personale sono beni pubblici sotto lo Stato ma beni privati sotto l'anarchia di mercato.).
C) Abbiamo visto che la decisione della corte non ha importanza per quanto riguarda la produzione (la quale dipende solo dalla scala di valori della gente). Però ha grande importanza per il medico e il caramellaio; infatti influenza i loro rispettivi redditi.
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lunedì 29 settembre 2008
Cosa succede sui mercati americani?
In cosa consiste il problema attuale dei mercati finanziari americani? E "di chi è la colpa"? Traduco un articolo di David Friedman che ha il pregio di essere accessibile a tutti, e che potrebbe aiutarci a comprendere che cosa sta succedendo.
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La società Fanny Mae è stata stabilita durante il New Deal dal governo federale allo scopo di rendere più facile per la gente ottenere un mutuo [mortgage] e quindi incoraggiare la gente a comprare una casa. Nel 1968 Fanny Mae fu "privatizzata". Nei tardi anni '90, sotto Clinton, le regolamentazioni sui prestiti furono rese meno strette allo scopo di rendere più facile ottenere prestiti. Il meccanismo di base era semplice: Fanny Mae acquistava i mutui dai creditori che li avevano emessi [diventando quindi essa stessa il creditore], e li impacchettava in pacchetti azionari garantiti da mutui; questi pacchetti potevano essere acquistati da chiunque desiderasse investire sul mercato secondario dei mutui. [In parole povere, con questo sistema i risparmiatori, acquistando i pacchetti azionari di Fanny Mae, stanno di fatto prestando soldi a chi desidera comprare una casa, NdM.]
Il problema, quando si investe in mutui, è il rischio che il debitore sia insolvente. Questo rischio dipende dai dettagli di quel particolare mutuo: il reddito del debitore, l'andamento del mercato immobiliare in quel luogo, e faccende simili. Ciò rende un singolo mutuo un pessimo investimento. Non solo è rischioso, ma il rischio è difficile da valutare per l'investitore. Un pacchetto di mutui è meno rischioso, ma il problema rimane. Per risolvere il problema e rendere le azioni attraenti per gli investitori, Fanny Mae le garantiva: se il debitore non avesse pagato il mutuo, Fanny Mae avrebbe coperto la perdita dell'investitore. [Quindi Fanny Mae diventa di fatto debitrice verso l'investitore: si impegna a risarcirlo nel caso il debitore sia insolvente. Quindi l'investitore non rischia più niente: il rischio è tutto di Fanny Mae. L'unico rischio che l'investitore si assume è che la stessa Fanny Mae fallisca. NdM.]
Una normale compagnia di assicurazione può permettersi di assicurare una casa dal rischio d'incendio in quanto il rischio che la mia casa bruci è scorrelato dal rischio che la tua casa bruci (sempre se non siamo vicini di casa). [In altre parole, se la mia casa brucia, comunque molte altre case non bruceranno. Quindi l'assicurazione non fallirà. NdM.] Se la probabilità che una casa bruci è una su mille e la compagnia di assicurazione assicura un milione di case, la compagnia può attendersi di dover ripagare in media mille case all'anno.
Questo non funziona con i mutui. La probabilità che una persona non paghi il mutuo dipende, tra l'altro, dallo stato dell'economia e dallo stato del mercato immobiliare. Infatti, se i prezzi delle case stanno salendo, io posso prendere in prestito più soldi offrendo come garanzia la mia casa, e così potrò pagare. Ma se i prezzi delle case stanno scendendo, non posso farlo. E inoltre, per ragioni discusse nel mio post precedente, potrei avere interesse a non pagare: in tal modo mi libero di un debito di 95.000$ al costo di una casa che ne vale solo 80.000$. Quindi, nel mercato dei mutui, le stesse circostanze che rendono probabile che io non paghi il mio mutuo rendono probabile che anche tu non paghi il tuo mutuo.
Questo solleva un ovvio problema per Fanny Mae: se un numero abbastanza grande di debitori non paga il mutuo, ciò che Fanny Mae dovrà pagare a coloro che hanno acquistato le azioni sarà più di quello che Fanny Mae possiede. [Quindi Fanny Mae non potrà pagare, e fallirà, NdM.] Se Fanny Mae fosse una normale compagnia privata, chi acquista quelle azioni terrebbe conto di questo rischio --- c'è la possibilità che la compagnia fallisca e non riesca a soddisfare le garanzie. Quindi il prezzo delle azioni di Fanny Mae rifletterebbe questo rischio. [Cioè sarebbe più basso a causa dell'alto rischio, NdM].
Ma Fanny Mae non è una normale compagnia privata: fu fondata dal governo, e tutti hanno dato per scontato che il governo, pur non avendo alcun obbligo legale di pagare i suoi debiti, non l'avrebbe lasciata fallire senza rifondere i suoi creditori. Questo ha dato a Fanny Mae un vantaggio sulle normali compagnie private che competevano nello stesso mercato. Il risultato fu che Fanny Mae ha potuto vendere le sue azioni ad un prezzo più alto rispetto ai suoi concorrenti. Questo spiega la sua posizione dominante nel mercato dei mutui. E spiega anche perché prima ho messo tra virgolette la parola "privatizzata".
[In altre parole, agli occhi degli investitori Fanny Mae non è una compagnia normale: è una compagnia che, se perde, ha il potere di colmare la perdita attingendo ai soldi dei contribuenti. Cioè, è una compagnia che può compensare le proprie perdite usando la forza. Nessuna compagnia sul libero mercato può fare una cosa simile. E' chiaro che, per un investitore, una compagnia che può ricorrere a mezzi di questo genere è un investimento molto più attraente di una compagnia normale. NdM.]
Ora i prezzi delle case stanno scendendo; molte persone che hanno contratto un mutuo sono diventate insolventi; e Fanny Mae non è in grado di coprire ciò che ha garantito. Cosa sarebbe giusto che succedesse ora? Molte compagnie hanno acquistato le azioni rischiose di Fanny Mae sulla teoria che, se le azioni fossero salite, avrebbero guadagnato soldi, e, se fossero scese, il governo sarebbe subentrato per limitare le loro perdite. La mia opinione è che queste compagnie adesso dovrebbero sopportare i costi della loro scommessa persa. L'alternativa è un salvataggio massiccio di fanny Mae mediante iniezione di denaro pubblico da parte del governo: questo semplicemente incoraggerebbe coloro che acquisteranno azioni domani a correre rischi che vale la pena di correre solo perché, se perderanno, qualcun altro pagherà per loro. Questo ragionamento distorcerà il comportamento sia delle compagnie che hanno a che fare con entità create dal governo come Fanny Mae, sia delle compagnie che credono ragionevolmente di essere "troppo grandi per crollare", come appunto Fanny Mae, Freddie Mac, ecc.
Una caratteristica sgradevole di questa situazione è l'opinione diffusa che questo collasso sia un fallimento del capitalismo deregolamentato. Fanny Mae è stato creato dal governo federale con lo scopo esplicito di prestare soldi alle persone che volevano comprare una casa ma non riuscivano ad ottenere un prestito sul mercato privato. [Cioè, il libero mercato non avrebbe dato un prestito a queste persone, perché era alto il rischio che non potessero pagare; ora queste persone non riescono a pagare, c'è il crollo, e si dà la colpa al libero mercato. NdM]. Ha continuato a perseguire questo obiettivo con il supporto del governo, prima esplicito poi implicito; ha mietuto i benefici di ciò e si è ripetutamente glorificata di questo; ed ora come risultato è finita in bancarotta. Questo è sì un fallimento, ma non è un fallimento del capitalismo deregolamentato.
[Ho semplificato la storia concentrandomi solo su Fanny Mae, ma credo di aver descritto le caratteristiche essenziali della situazione.] [Vedere anche Freddie Mac, NdM.]
[Vedi anche qui per una esposizione più chiara dell'argomento di Friedman.]
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[Friedman continua poi il discorso in un altro articolo:]
Ho sostenuto recentemente che il problema non è dovuto alla deregolamentazione dei mercati, ma è un problema della regolamentazione; più precisamente, è un problema dell'intervento dello Stato nel mercato immobiliare, intervento finalizzato a permettere a più persone di prendere soldi in prestito per comprare una casa.
Però c'è un germe di verità nella critica alla deregolamentazione. Sebbene non sia un esperto in materia, mi dicono che una delle fonti dei problemi attuali sia stata il rilassamento, durante l'amministrazione Clinton, delle regole sui prestiti a cui era soggetta Fanny Mae. Questo ha permesso di prestare soldi a persone meno qualificate di prima, che offrivano meno garanzie. Questo a sua volta ha aumentato la quantità di affari fatti da Fanny Mae; ha soddisfatto la domanda politica di aumentare il numero di persone che possiedono una casa; ed ha aiutato a condurre al disastro attuale.
Vale la pena di trarre una morale. A mio avviso la situazione ideale, nel mercato immobiliare e per molte altre cose, sarebbe un mercato interamente libero in cui il governo non giocasse alcun ruolo. Ma una volta che il governo interviene, avere meno regolamentazione non è necessariamente meglio che averne di più. Se (come nel caso attuale e nel caso precedente dell'S&L) l'intervento governativo rende il governo il responsabile ultimo delle perdite delle compagnie soggette a regolamentazione, in questo caso meno regolamentazione significa che le compagnie hanno più opportunità di correre rischi col ragionamento "testa vinco io, croce perdi tu" (dove il "tu" sono i contribuenti). Una volta che il governo risponde delle perdite, può essere prudente che il governo emetta regole progettate per limitare questi rischi. [Ma perché il governo dovrebbe avere incentivo a far ciò? Se il problema è stato prodotto dal governo stesso, perché poi dovrebbe volerne limitare gli effetti? Sembra più probabile che quegli stessi incentivi politici che hanno portato il governo a produrre il problema gli impediranno anche di risolverlo. NdM.]
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La società Fanny Mae è stata stabilita durante il New Deal dal governo federale allo scopo di rendere più facile per la gente ottenere un mutuo [mortgage] e quindi incoraggiare la gente a comprare una casa. Nel 1968 Fanny Mae fu "privatizzata". Nei tardi anni '90, sotto Clinton, le regolamentazioni sui prestiti furono rese meno strette allo scopo di rendere più facile ottenere prestiti. Il meccanismo di base era semplice: Fanny Mae acquistava i mutui dai creditori che li avevano emessi [diventando quindi essa stessa il creditore], e li impacchettava in pacchetti azionari garantiti da mutui; questi pacchetti potevano essere acquistati da chiunque desiderasse investire sul mercato secondario dei mutui. [In parole povere, con questo sistema i risparmiatori, acquistando i pacchetti azionari di Fanny Mae, stanno di fatto prestando soldi a chi desidera comprare una casa, NdM.]
Il problema, quando si investe in mutui, è il rischio che il debitore sia insolvente. Questo rischio dipende dai dettagli di quel particolare mutuo: il reddito del debitore, l'andamento del mercato immobiliare in quel luogo, e faccende simili. Ciò rende un singolo mutuo un pessimo investimento. Non solo è rischioso, ma il rischio è difficile da valutare per l'investitore. Un pacchetto di mutui è meno rischioso, ma il problema rimane. Per risolvere il problema e rendere le azioni attraenti per gli investitori, Fanny Mae le garantiva: se il debitore non avesse pagato il mutuo, Fanny Mae avrebbe coperto la perdita dell'investitore. [Quindi Fanny Mae diventa di fatto debitrice verso l'investitore: si impegna a risarcirlo nel caso il debitore sia insolvente. Quindi l'investitore non rischia più niente: il rischio è tutto di Fanny Mae. L'unico rischio che l'investitore si assume è che la stessa Fanny Mae fallisca. NdM.]
Una normale compagnia di assicurazione può permettersi di assicurare una casa dal rischio d'incendio in quanto il rischio che la mia casa bruci è scorrelato dal rischio che la tua casa bruci (sempre se non siamo vicini di casa). [In altre parole, se la mia casa brucia, comunque molte altre case non bruceranno. Quindi l'assicurazione non fallirà. NdM.] Se la probabilità che una casa bruci è una su mille e la compagnia di assicurazione assicura un milione di case, la compagnia può attendersi di dover ripagare in media mille case all'anno.
Questo non funziona con i mutui. La probabilità che una persona non paghi il mutuo dipende, tra l'altro, dallo stato dell'economia e dallo stato del mercato immobiliare. Infatti, se i prezzi delle case stanno salendo, io posso prendere in prestito più soldi offrendo come garanzia la mia casa, e così potrò pagare. Ma se i prezzi delle case stanno scendendo, non posso farlo. E inoltre, per ragioni discusse nel mio post precedente, potrei avere interesse a non pagare: in tal modo mi libero di un debito di 95.000$ al costo di una casa che ne vale solo 80.000$. Quindi, nel mercato dei mutui, le stesse circostanze che rendono probabile che io non paghi il mio mutuo rendono probabile che anche tu non paghi il tuo mutuo.
Questo solleva un ovvio problema per Fanny Mae: se un numero abbastanza grande di debitori non paga il mutuo, ciò che Fanny Mae dovrà pagare a coloro che hanno acquistato le azioni sarà più di quello che Fanny Mae possiede. [Quindi Fanny Mae non potrà pagare, e fallirà, NdM.] Se Fanny Mae fosse una normale compagnia privata, chi acquista quelle azioni terrebbe conto di questo rischio --- c'è la possibilità che la compagnia fallisca e non riesca a soddisfare le garanzie. Quindi il prezzo delle azioni di Fanny Mae rifletterebbe questo rischio. [Cioè sarebbe più basso a causa dell'alto rischio, NdM].
Ma Fanny Mae non è una normale compagnia privata: fu fondata dal governo, e tutti hanno dato per scontato che il governo, pur non avendo alcun obbligo legale di pagare i suoi debiti, non l'avrebbe lasciata fallire senza rifondere i suoi creditori. Questo ha dato a Fanny Mae un vantaggio sulle normali compagnie private che competevano nello stesso mercato. Il risultato fu che Fanny Mae ha potuto vendere le sue azioni ad un prezzo più alto rispetto ai suoi concorrenti. Questo spiega la sua posizione dominante nel mercato dei mutui. E spiega anche perché prima ho messo tra virgolette la parola "privatizzata".
[In altre parole, agli occhi degli investitori Fanny Mae non è una compagnia normale: è una compagnia che, se perde, ha il potere di colmare la perdita attingendo ai soldi dei contribuenti. Cioè, è una compagnia che può compensare le proprie perdite usando la forza. Nessuna compagnia sul libero mercato può fare una cosa simile. E' chiaro che, per un investitore, una compagnia che può ricorrere a mezzi di questo genere è un investimento molto più attraente di una compagnia normale. NdM.]
Ora i prezzi delle case stanno scendendo; molte persone che hanno contratto un mutuo sono diventate insolventi; e Fanny Mae non è in grado di coprire ciò che ha garantito. Cosa sarebbe giusto che succedesse ora? Molte compagnie hanno acquistato le azioni rischiose di Fanny Mae sulla teoria che, se le azioni fossero salite, avrebbero guadagnato soldi, e, se fossero scese, il governo sarebbe subentrato per limitare le loro perdite. La mia opinione è che queste compagnie adesso dovrebbero sopportare i costi della loro scommessa persa. L'alternativa è un salvataggio massiccio di fanny Mae mediante iniezione di denaro pubblico da parte del governo: questo semplicemente incoraggerebbe coloro che acquisteranno azioni domani a correre rischi che vale la pena di correre solo perché, se perderanno, qualcun altro pagherà per loro. Questo ragionamento distorcerà il comportamento sia delle compagnie che hanno a che fare con entità create dal governo come Fanny Mae, sia delle compagnie che credono ragionevolmente di essere "troppo grandi per crollare", come appunto Fanny Mae, Freddie Mac, ecc.
Una caratteristica sgradevole di questa situazione è l'opinione diffusa che questo collasso sia un fallimento del capitalismo deregolamentato. Fanny Mae è stato creato dal governo federale con lo scopo esplicito di prestare soldi alle persone che volevano comprare una casa ma non riuscivano ad ottenere un prestito sul mercato privato. [Cioè, il libero mercato non avrebbe dato un prestito a queste persone, perché era alto il rischio che non potessero pagare; ora queste persone non riescono a pagare, c'è il crollo, e si dà la colpa al libero mercato. NdM]. Ha continuato a perseguire questo obiettivo con il supporto del governo, prima esplicito poi implicito; ha mietuto i benefici di ciò e si è ripetutamente glorificata di questo; ed ora come risultato è finita in bancarotta. Questo è sì un fallimento, ma non è un fallimento del capitalismo deregolamentato.
[Ho semplificato la storia concentrandomi solo su Fanny Mae, ma credo di aver descritto le caratteristiche essenziali della situazione.] [Vedere anche Freddie Mac, NdM.]
[Vedi anche qui per una esposizione più chiara dell'argomento di Friedman.]
___
[Friedman continua poi il discorso in un altro articolo:]
Ho sostenuto recentemente che il problema non è dovuto alla deregolamentazione dei mercati, ma è un problema della regolamentazione; più precisamente, è un problema dell'intervento dello Stato nel mercato immobiliare, intervento finalizzato a permettere a più persone di prendere soldi in prestito per comprare una casa.
Però c'è un germe di verità nella critica alla deregolamentazione. Sebbene non sia un esperto in materia, mi dicono che una delle fonti dei problemi attuali sia stata il rilassamento, durante l'amministrazione Clinton, delle regole sui prestiti a cui era soggetta Fanny Mae. Questo ha permesso di prestare soldi a persone meno qualificate di prima, che offrivano meno garanzie. Questo a sua volta ha aumentato la quantità di affari fatti da Fanny Mae; ha soddisfatto la domanda politica di aumentare il numero di persone che possiedono una casa; ed ha aiutato a condurre al disastro attuale.
Vale la pena di trarre una morale. A mio avviso la situazione ideale, nel mercato immobiliare e per molte altre cose, sarebbe un mercato interamente libero in cui il governo non giocasse alcun ruolo. Ma una volta che il governo interviene, avere meno regolamentazione non è necessariamente meglio che averne di più. Se (come nel caso attuale e nel caso precedente dell'S&L) l'intervento governativo rende il governo il responsabile ultimo delle perdite delle compagnie soggette a regolamentazione, in questo caso meno regolamentazione significa che le compagnie hanno più opportunità di correre rischi col ragionamento "testa vinco io, croce perdi tu" (dove il "tu" sono i contribuenti). Una volta che il governo risponde delle perdite, può essere prudente che il governo emetta regole progettate per limitare questi rischi. [Ma perché il governo dovrebbe avere incentivo a far ciò? Se il problema è stato prodotto dal governo stesso, perché poi dovrebbe volerne limitare gli effetti? Sembra più probabile che quegli stessi incentivi politici che hanno portato il governo a produrre il problema gli impediranno anche di risolverlo. NdM.]
martedì 29 luglio 2008
Lo Stato come monopolio. Il voto democratico come non-soluzione. Cenni ad una possibile soluzione.
Proseguo la risposta a Luigi Corvaglia iniziata nel post precedente.
In questa sezione si parla di monopolio; di democrazia; di società senza stato; del concetto di sfruttamento; della vicenda Ravasin-Radicali. Traduco inoltre due brani di David Friedman.
3. Monopolio di Stato e monopolio privato
Scrivi:
Mi fa piacere che tu noti l'ironia. Lo stato non è altro che un monopolio forzoso di alcuni servizi. Per la precisione, è un monopolio dell'uso della forza (polizia); un monopolio dell'arbitraggio delle dispute (giudici); un monopolio della produzione delle leggi (parlamento).
Quindi, il sostenitore dello Stato sostanzialmente sta dicendo che un monopolio è una cosa desiderabile. Molti sostenitori dello Stato sono ostili ai monopoli (e spesso invocano l'antitrust per combatterli), ma non sembrano rendersi conto che, sostenendo la necessità dello Stato, stanno sostenendo la necessità di un monopolio. Converrai che questo è ironico.
A questo punto occorre una precisazione. Ciò che è indesiderabile non è il monopolio di per sé, bensì il monopolio coercitivo. Cioè il monopolio che è mantenuto tale con l'uso della violenza. (Cioè il monopolio di Stato.) Mi spiego. Se un monopolio è coercitivo, cioè riesce a impedire con la violenza ai concorrenti di entrare nel mercato, allora la qualità del suo servizio può scendere a piacimento e il prezzo può salire a piacimento. Ciò vale anche per lo Stato: dato che lo Stato impedisce la concorrenza nei settori delle forze dell’ordine, dei giudici, e della produzione delle leggi, ne segue che la qualità dell’arbitrato, della protezione, e della legge possono scendere praticamente senza limite. Non temendo di perdere clienti, questi organi inizieranno a seguire altri obiettivi che non quello di soddisfare i clienti, divenendo meno efficienti e più corruttibili. Come si vede, l'intero problema deriva dal fatto che gli organi di Stato non temono di perdere clienti e vedere così le proprie entrate diminuire. In altre parole, il problema è che le entrate dello Stato non dipendono dalla qualità del servizio. Se i servizi dello Stato sono inefficienti, lo Stato non fallisce: continua a ricevere entrate sotto forma di tasse, in quantità invariata o addirittura maggiore. Ma tutto ciò è possibile solo in quanto lo Stato è un monopolio forzoso. Può fare cose che un normale privato non può fare, cioè riscuotere il pagamento con la forza, indipendentemente dalla qualità del servizio.
Al contrario, un monopolio privato non può diminuire a piacimento la qualità del servizio. Un monopolio privato può continuare ad esistere solo fintanto che la qualità del suo servizio è abbastanza alta, ed i suoi prezzi sono abbastanza bassi, che nessuno trova conveniente inserirsi nel mercato e competere. Ma non appena il monopolio privato (chiamiamolo A) alza i prezzi oltre una certa soglia, o diminuisce la qualità oltre una certa soglia, qualche altro imprenditore B si accorge che può inserirsi in quel settore, vendere a meno, ed avere un profitto. Quindi l'imprenditore B uscirà dal settore in cui si trovava prima ed entrerà nel nuovo settore, facendo concorrenza ad A, che smetterà di essere un monopolista; ed A sarà costretto a tornare efficiente, oppure perderà tutti i clienti e scomparirà.
Quindi, nel monopolio privato, non è vero che la qualità del servizio può scendere a piacimento e il prezzo salire a piacimento; questo vale solo per il monopolio di Stato, che è mantenuto tale dall’uso della violenza.
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Esaminiamo una possibile obiezione: il voto democratico non serve proprio ad evitare questo problema? In parole povere: se il servizio dello Stato scade troppo in qualità, io voto l'altro partito. Perché questo non dovrebbe funzionare?
E' vero che in teoria il meccanismo del voto democratico dovrebbe introdurre un elemento di concorrenza all'interno dello Stato, che dovrebbe impedire ai prezzi dei servizi di Stato di salire a piacimento e alla qualità di scadere a piacimento. Ma questo sistema ha dei problemi, esaminati in parte qui da David Friedman, che ne minano il funzionamento. In breve:
1. Prima di tutto, il cittadino votante ha problemi di informazione: tende a non comprendere le cause dello scadimento della qualità dei servizi e dell'aumento di prezzo. (Per fare un esempio classico, la maggioranza degli italiani sembra credere che i dazi possano aumentare il loro benessere, e che il cittadino che compra merce dalla Cina faccia il proprio interesse individuale alle spese dell'Italia). Quindi, in parole povere, il cittadino "non sa chi votare".
2. Inoltre, il cittadino ha problemi di incentivo ad informarsi. Dato che il mio voto ha solo una probabilità piccolissima di influire sull'esito delle elezioni, e che informarmi mi costa molto in termini di tempo, allora i costi dell'informazione sono per me molto superiori ai benefici. Ci sono per me modi molto più utili di usare quel tempo. Quindi razionalmente sceglierò di restare ignorante (ignoranza razionale).
3. Terzo, c'è il problema delle lobby. Consideriamo una legge che complessivamente danneggia il paese, ma che dà un beneficio ad alcuni gruppi di interessi particolari (lobby). Ad esempio, l'introduzione di un dazio sulle importazioni. Il problema è che ciascun cittadino, preso singolarmente, ha pochissimo da perdere dall'introduzione di questa legge; mentre ciascun membro della lobby ha moltissimo da guadagnare dall'introduzione della stessa. Quindi ogni membro della lobby sarà disposto ad investire una parte molto consistente delle sue risorse per far approvare quella legge; al contrario del cittadino. (Inoltre i membri della lobby, essendo numericamente molti meno, avranno minori costi di coordinamento rispetto ai cittadini.) Quindi, sommando i contributi di entrambe le parti, la quantità che la lobby sarà disposta ad offrire ai politici per approvare quella legge sarà maggiore della quantità che i cittadini saranno disposti a offrire per non farla approvare. Quindi quella legge inefficiente sarà approvata.
Questi problemi sono matematici, perché risiedono nella teoria dei giochi; e sono intrinseci nel sistema democratico. L'unico modo di eliminare questi problemi sembra essere di ridurre la quantità di informazione che il cittadino deve conoscere per scegliere. Cioè, occorre un sistema in cui il cittadino non abbia bisogno di capire il motivo dello scadimento del servizio; tutto ciò che deve fare è acquistare il servizio dove costa meno. Con questo sistema, ciascun cittadino acquisterebbe la protezione personale e l'applicazione delle leggi da agenzie private, sul libero mercato, tenendo conto del prezzo di ciascun pacchetto. Potrebbe ad esempio rinunciare a una certa legge se non ritiene che valga ciò che costa, o scegliere il sistema di protezione più adatto alle sue esigenze, valutando i costi e i benefici.
La prima conseguenza di un tale sistema sarebbe che le leggi più invasive della libertà altrui sarebbero automaticamente più costose (perché applicarle costerebbe di più: invadere gli altri ha un costo; lasciarli in pace è gratis). La seconda conseguenza è che diventerebbe immediatamente evidente quando una legge è inefficiente: costa di più. Non servirebbe quindi al cittadino avere una laurea in economia per capire quando una legge fa bene o male al Paese. Questo risolverebbe i problemi 1 e 2, quelli relativi all'informazione del cittadino.
Anche il terzo problema, quello delle lobby, sarebbe risolto. Ad esempio, nel caso dei dazi, la lobby che decidesse di introdurre i dazi si troverebbe a pagare per quella legge un prezzo altissimo, che compensa esattamente il danno che fa al paese. In un post successivo intendo descrivere il sistema in questione e dimostrare le proprietà di cui sopra (se Friedman mi aiuta).
Cambiamo discorso.
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4. Sul funzionamento di una società senza Stato
Dici:
Se per "proprietario di un intero paese" intendi "unico proprietario dei servizi di protezione, di arbitrato ecc", allora costui non potrebbe imporre leggi liberticide a persone non consenzienti. Un'agenzia di protezione che facesse ciò diventerebbe immediatamente criminale secondo la teoria libertaria. Il tuo esempio quindi non sarebbe valido: non è vero che il libertarismo permetterebbe ciò.
Se invece intendi "proprietario della terra", allora è vero che potrebbe stabilire a piacimento le leggi: a casa propria ognuno è sovrano. Chi non apprezzasse le sue leggi sarebbe libero di andare a vivere altrove, dove le condizioni di vita sono migliori. I proprietari delle terre confinanti, naturalmente, farebbero a gara per convincere le persone a migrare nel loro territorio, offrendo loro condizioni di vita più vantaggiose. In tal caso nessuno avrebbe più rapporti con il proprietario in questione, che dovrebbe cambiare atteggiamento oppure perderebbe la sua enorme proprietà più rapidamente di quanto l'ha acquisita. Ciò è ovvio: se non ti piacciono le leggi in un dato territorio, tu non ci entri e vai altrove. Quindi il proprietario di quel territorio perderà clienti e scomparirà dal mercato.
In ogni modo, è un’ipotesi molto improbabile che qualcuno possa diventare “proprietario di un intero paese” senza fare uso di violenza. (Anzi, ironicamente, la tua è un’ottima descrizione dello Stato.) Chiediamoci che cosa davvero ciò significhi. Se davvero qualcuno riesce a estendere molto le sue proprietà con mezzi legittimi, cioè senza usare la violenza, significa che ha dato ai cittadini qualcosa che per loro ha un grande valore (altrimenti perché lo avrebbero pagato così tanto?); cioè significa che ha fatto del bene in gran quantità. Ma può conservare la sua proprietà solo fino a che continua a far ciò. (Ricorda quanto detto prima sul monopolio in un regime di libero mercato: tale monopolio può esistere solo finché offre un buon servizio a prezzi bassi).
Quindi costui, smettendo di colpo di soddisfare le esigenze dei cittadini, perderebbe la sua posizione e la sua proprietà molto più rapidamente di quanto l'ha acquisita. A meno che, per conservare la sua posizione, non decidesse improvvisamente di cominciare a usare la violenza, nel qual caso diventerebbe uno Stato. Ma questa eventualità è molto improbabile, perché nel mercato dei servizi di protezione non sembra esistere un monopolio naturale; quindi una singola compagnia di protezione non raggiungerebbe la dimensione critica che le renderebbe conveniente richiedere pagamenti obbligatori e diventare così uno Stato.
Sempre su questo argomento cito David Friedman, un pezzo che credo tu abbia letto:
Suggerisco che anche il Duce che tu descrivi si ritroverebbe improvvisamente un re senza regno.
Continui poi:
Mi viene da chiedere: la tua proprietà come l’hai ottenuta? Probabilmente rendendo un servizio agli altri. (Oppure usando la violenza). Se tu hai ottenuto un grande profitto senza usare la violenza, vuol dire che hai fornito un servizio di grande valore. Quindi la tua proprietà non è una cosa “statica”; è una misura del bene che hai fatto agli altri.
1. In pratica stai dicendo che un monopolio forzoso può tutelare i diritti delle persone meglio di agenzie private in concorrenza tra loro. Detto così suona meno convincente.
2. Si osserva che lo Stato viola i diritti delle persone su base quotidiana, mediante istituzioni come proibizioni, guerre, leva, tasse, ecc. Ho difficoltà a capire come una violazione dei diritti possa essere considerata una difesa dei diritti.
A proposito, ti consiglio la lettura di due testi liberamente scaricabili in inglese: “Chaos Theory” di Murphy e l’articolo “responses to ten objections” di Roderick T. Long.
Non capisco: tu stai descrivendo una dittatura, non il libertarismo. E non vedo in che modo questo supporti la tua tesi che lo stato sia necessario per difendere i diritti.
5. Sullo sfruttamento
Dici:
Non è vero. Secondo i libertari lo sfruttamento esiste, ma non è quello che pensi tu :). Per loro, sfruttare una persona significa farle qualcosa contro la sua volontà. Se io ti faccio qualcosa contro la tua volontà, cioè ti costringo a fare qualcosa, allora ottengo un beneficio alle tue spese. Cioè ti “sfrutto”.
Un esempio di sfruttamento è la schiavitù. Questa è sfruttamento _non_ perché il padrone ne trae beneficio, ma perché lo schiavo agisce sotto coercizione del padrone; lo schiavo non ha mai accettato liberamente, con un contratto, di subire quel trattamento. Un altro esempio di vero sfruttamento è l'estorsione, come quella effettuata dallo Stato, dalla Mafia, dal Vaticano, ecc.
Affinché io ti sfrutti, non basta che io tragga beneficio; è necessario che io ti stia costringendo con la forza, o minacciando di usare la forza. Se invece tu hai accettato la transazione libero da coercizione, allora entrambi traiamo un beneficio. Se vogliamo chiamarlo sfruttamento, allora ci stiamo sfruttando a vicenda.
Se il semplice fatto di trarre beneficio da una collaborazione si chiama sfruttamento, allora tutti sfruttano tutti: lo scolaro che impara la matematica sta sfruttando il professore; il professore che dà lezioni a pagamento sta sfruttando l’alunno (perché non impartisce lezioni gratis). Ma in questo caso la parola perde senso. Per questo l’unica definizione sensata della parola “sfruttamento” mi pare quella in cui io ti costringo a fare qualcosa contro la tua volontà; mediante la violenza o la minaccia di violenza. Solo in questo caso io ottengo un guadagno e tu una perdita.
Il bisogno non è stato interrogato? Non capisco. Come si fa a interrogare un bisogno?
Comunque, il bisogno non ti conferisce dei diritti aggiuntivi. Ad esempio, se io sto morendo di fame, e per sopravvivere scassino la tua casa e rubo un televisore, devo comunque rifonderti il danno. Non posso cavarmela dicendo “ma io avevo molto bisogno di entrare in casa tua”. Mi pare intuitivo.
Altri due esempi:
1.
Tua moglie sta morendo e devi portarla all’ospedale. Hai bisogno assoluto di arrivarci entro dieci minuti. Se tu, nella foga di portare tua moglie all'ospedale, investi qualcuno con la macchina, o danneggi la proprietà di qualcuno, il fatto che stavi cercando di salvare tua moglie _non_ ti esime dal dovere di risarcire il danno. Il giudice ti condannerà al risarcimento. Questo significa che non avevi il _diritto_ di farlo. Questo dimostra che la necessità non ti dà diritti ulteriori. Se la necessità di salvare tua moglie ti desse qualche diritto aggiuntivo, il giudice non ti condannerebbe.
2.
Tu torni a casa, la trovi scassinata, segui le tracce, arrivi a casa di un tizio, e vedi che ha il tuo televisore. Gli chiedi la restituzione, e lui risponde: "No, _tu_ non hai alcun diritto a riavere la tua proprietà, perché _io_ avevo un enorme bisogno di essa." Qual è l'aggettivo adatto per descrivere questo pensiero? Io lo definirei marxista.
In questi casi, tutto ciò che il libertario dice è che, se tu violi la proprietà altrui, allora devi rifondere la vittima. Cioè, anche se hai agito spinto dal bisogno, sei responsabile lo stesso per i danni. Ad esempio, se hai fame e rubi un pezzo di pane, poi devi restituire un pezzo di pane. Questo è in parole povere ciò che dicono i libertari. E non è un problema, se ci pensi. Voglio dire: se davvero in quel momento avevi un gran bisogno di quel pezzo di pane, allora ne hai tratto un gran beneficio. Ma allora, anche dopo aver risarcito il proprietario, ti resta un beneficio maggiore di zero! Cioè, anche dopo aver scontato la pena, ti resta un guadagno. Ma allora dov’è il problema?
(In realtà la questione è un po' più complessa; il libertario sostiene che la vittima ha il diritto di infliggere su di te qualunque sofferenza tu abbia inflitto su di lei. Questa condizione è più generale del semplice risarcimento, ma in questa sede non è il caso di distinguere.)
Temo di non capire; avrei preferito un esempio più concreto.
Sempre in tema di sfruttamento, ecco una citazione del nostro David Friedman:
In un’altra parte del libro, se ben ricordo, Friedman sostiene che denunciare lo sfruttamento in una transazione volontaria equivale a sostenere che una delle due parti dovrebbe prendersi tutto il beneficio. Questo, se ci rifletti, non è molto ragionevole.
A questo proposito, recentemente mi sono trovato a difendere i Radicali e L’Associazione Coscioni. Un mio amico sosteneva, a proposito della vicenda di Paolo Ravasin e del testamento biologico, che i radicali si stessero “approfittando” di quella persona sfortunata; cioè che lo stessero sfruttando. Specialmente perché chiedevano soldi usando la sua immagine. Gli ho risposto che quello non si può chiamare sfruttamento, perché presumibilmente c’era la volontà di Ravasin di essere trattato così. Questo dimostra che lui stesso ne ha tratto un beneficio. Quindi i radicali tecnicamente stanno facendo del bene a Ravasin; che è il contrario esatto dello sfruttamento. Se poi i radicali, oltre a fare del bene a Ravasin, stanno avendo anche un profitto, questo non cambia il fatto che stanno facendo del bene. Non è necessario che una delle due parti (Ravasin) si prenda tutto il beneficio, affinché un’azione possa essere classificata come “fare del bene”.
Ricordo che Coscioni disse: se quello dei Radicali verso di me è sfruttamento, benissimo, voglio essere sfruttato ancora.
6. Sul conservatorismo culturale dei libertari
Su questo condivido il tuo sconforto, specialmente verso l’atteggiamento antiscientifico di molti libertari.
Qualche piccolo appunto: per quanto riguarda la laicità, è un concetto che si applica allo stato, quindi per i libertari la parola ha ben poco senso. Io prima di considerarmi libertario già sostenevo che la parola laicità è una parola superflua: basta la parola ragione.
Nella mia esperienza, la maggioranza dei libertari sembra essere atea. Una buona parte (non so se la maggioranza) è culturalmente conservatrice, nel senso che tu dici e che io trovo molto sgradevole (ad es. sono specisti; Block addirittura è contro la RU-486, ecc). L’antievoluzionismo c’è, ma è una corrente di minoranza, per quanto ne so. Il clericalismo c’è. Forse dal loro punto di vista ha più senso, visto che negli USA le confessioni religiose, per quanto ne so, non ricevono fondi pubblici e sono quindi vere associazioni volontarie (nel senso di finanziate volontariamente); e quindi forse i libertari le considerano ottimi alleati contro lo Stato: più potere alle confessioni significa più potere a un’associazione volontaria, quindi meno potere allo Stato. Ti ricordo che per i libertari tutto ciò che conta è che un’associazione sia finanziata volontariamente. Sostengono persino il comunismo volontario!
Un piccolo test di personalità: cosa rispondete alla domanda “Qual è l’organizzazione criminale più grande? la Chiesa o lo Stato?”. Io mi unirei ai libertari nel rispondere “lo Stato”. Sono forse clericale per questo? Spero di no. :)
Commenti?
In questa sezione si parla di monopolio; di democrazia; di società senza stato; del concetto di sfruttamento; della vicenda Ravasin-Radicali. Traduco inoltre due brani di David Friedman.
3. Monopolio di Stato e monopolio privato
Scrivi:
chiaro che l’esistenza di un ente centrale e monopolistico di produzione di norme e/o di beni comporta una forte riduzione della libertà.
Mi fa piacere che tu noti l'ironia. Lo stato non è altro che un monopolio forzoso di alcuni servizi. Per la precisione, è un monopolio dell'uso della forza (polizia); un monopolio dell'arbitraggio delle dispute (giudici); un monopolio della produzione delle leggi (parlamento).
Quindi, il sostenitore dello Stato sostanzialmente sta dicendo che un monopolio è una cosa desiderabile. Molti sostenitori dello Stato sono ostili ai monopoli (e spesso invocano l'antitrust per combatterli), ma non sembrano rendersi conto che, sostenendo la necessità dello Stato, stanno sostenendo la necessità di un monopolio. Converrai che questo è ironico.
A questo punto occorre una precisazione. Ciò che è indesiderabile non è il monopolio di per sé, bensì il monopolio coercitivo. Cioè il monopolio che è mantenuto tale con l'uso della violenza. (Cioè il monopolio di Stato.) Mi spiego. Se un monopolio è coercitivo, cioè riesce a impedire con la violenza ai concorrenti di entrare nel mercato, allora la qualità del suo servizio può scendere a piacimento e il prezzo può salire a piacimento. Ciò vale anche per lo Stato: dato che lo Stato impedisce la concorrenza nei settori delle forze dell’ordine, dei giudici, e della produzione delle leggi, ne segue che la qualità dell’arbitrato, della protezione, e della legge possono scendere praticamente senza limite. Non temendo di perdere clienti, questi organi inizieranno a seguire altri obiettivi che non quello di soddisfare i clienti, divenendo meno efficienti e più corruttibili. Come si vede, l'intero problema deriva dal fatto che gli organi di Stato non temono di perdere clienti e vedere così le proprie entrate diminuire. In altre parole, il problema è che le entrate dello Stato non dipendono dalla qualità del servizio. Se i servizi dello Stato sono inefficienti, lo Stato non fallisce: continua a ricevere entrate sotto forma di tasse, in quantità invariata o addirittura maggiore. Ma tutto ciò è possibile solo in quanto lo Stato è un monopolio forzoso. Può fare cose che un normale privato non può fare, cioè riscuotere il pagamento con la forza, indipendentemente dalla qualità del servizio.
Al contrario, un monopolio privato non può diminuire a piacimento la qualità del servizio. Un monopolio privato può continuare ad esistere solo fintanto che la qualità del suo servizio è abbastanza alta, ed i suoi prezzi sono abbastanza bassi, che nessuno trova conveniente inserirsi nel mercato e competere. Ma non appena il monopolio privato (chiamiamolo A) alza i prezzi oltre una certa soglia, o diminuisce la qualità oltre una certa soglia, qualche altro imprenditore B si accorge che può inserirsi in quel settore, vendere a meno, ed avere un profitto. Quindi l'imprenditore B uscirà dal settore in cui si trovava prima ed entrerà nel nuovo settore, facendo concorrenza ad A, che smetterà di essere un monopolista; ed A sarà costretto a tornare efficiente, oppure perderà tutti i clienti e scomparirà.
Quindi, nel monopolio privato, non è vero che la qualità del servizio può scendere a piacimento e il prezzo salire a piacimento; questo vale solo per il monopolio di Stato, che è mantenuto tale dall’uso della violenza.
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Esaminiamo una possibile obiezione: il voto democratico non serve proprio ad evitare questo problema? In parole povere: se il servizio dello Stato scade troppo in qualità, io voto l'altro partito. Perché questo non dovrebbe funzionare?
E' vero che in teoria il meccanismo del voto democratico dovrebbe introdurre un elemento di concorrenza all'interno dello Stato, che dovrebbe impedire ai prezzi dei servizi di Stato di salire a piacimento e alla qualità di scadere a piacimento. Ma questo sistema ha dei problemi, esaminati in parte qui da David Friedman, che ne minano il funzionamento. In breve:
1. Prima di tutto, il cittadino votante ha problemi di informazione: tende a non comprendere le cause dello scadimento della qualità dei servizi e dell'aumento di prezzo. (Per fare un esempio classico, la maggioranza degli italiani sembra credere che i dazi possano aumentare il loro benessere, e che il cittadino che compra merce dalla Cina faccia il proprio interesse individuale alle spese dell'Italia). Quindi, in parole povere, il cittadino "non sa chi votare".
2. Inoltre, il cittadino ha problemi di incentivo ad informarsi. Dato che il mio voto ha solo una probabilità piccolissima di influire sull'esito delle elezioni, e che informarmi mi costa molto in termini di tempo, allora i costi dell'informazione sono per me molto superiori ai benefici. Ci sono per me modi molto più utili di usare quel tempo. Quindi razionalmente sceglierò di restare ignorante (ignoranza razionale).
3. Terzo, c'è il problema delle lobby. Consideriamo una legge che complessivamente danneggia il paese, ma che dà un beneficio ad alcuni gruppi di interessi particolari (lobby). Ad esempio, l'introduzione di un dazio sulle importazioni. Il problema è che ciascun cittadino, preso singolarmente, ha pochissimo da perdere dall'introduzione di questa legge; mentre ciascun membro della lobby ha moltissimo da guadagnare dall'introduzione della stessa. Quindi ogni membro della lobby sarà disposto ad investire una parte molto consistente delle sue risorse per far approvare quella legge; al contrario del cittadino. (Inoltre i membri della lobby, essendo numericamente molti meno, avranno minori costi di coordinamento rispetto ai cittadini.) Quindi, sommando i contributi di entrambe le parti, la quantità che la lobby sarà disposta ad offrire ai politici per approvare quella legge sarà maggiore della quantità che i cittadini saranno disposti a offrire per non farla approvare. Quindi quella legge inefficiente sarà approvata.
Questi problemi sono matematici, perché risiedono nella teoria dei giochi; e sono intrinseci nel sistema democratico. L'unico modo di eliminare questi problemi sembra essere di ridurre la quantità di informazione che il cittadino deve conoscere per scegliere. Cioè, occorre un sistema in cui il cittadino non abbia bisogno di capire il motivo dello scadimento del servizio; tutto ciò che deve fare è acquistare il servizio dove costa meno. Con questo sistema, ciascun cittadino acquisterebbe la protezione personale e l'applicazione delle leggi da agenzie private, sul libero mercato, tenendo conto del prezzo di ciascun pacchetto. Potrebbe ad esempio rinunciare a una certa legge se non ritiene che valga ciò che costa, o scegliere il sistema di protezione più adatto alle sue esigenze, valutando i costi e i benefici.
La prima conseguenza di un tale sistema sarebbe che le leggi più invasive della libertà altrui sarebbero automaticamente più costose (perché applicarle costerebbe di più: invadere gli altri ha un costo; lasciarli in pace è gratis). La seconda conseguenza è che diventerebbe immediatamente evidente quando una legge è inefficiente: costa di più. Non servirebbe quindi al cittadino avere una laurea in economia per capire quando una legge fa bene o male al Paese. Questo risolverebbe i problemi 1 e 2, quelli relativi all'informazione del cittadino.
Anche il terzo problema, quello delle lobby, sarebbe risolto. Ad esempio, nel caso dei dazi, la lobby che decidesse di introdurre i dazi si troverebbe a pagare per quella legge un prezzo altissimo, che compensa esattamente il danno che fa al paese. In un post successivo intendo descrivere il sistema in questione e dimostrare le proprietà di cui sopra (se Friedman mi aiuta).
Cambiamo discorso.
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4. Sul funzionamento di una società senza Stato
Dici:
Fra gli esiti più grotteschi e paradossali di una logica simile c’è il fatto che, se un individuo riuscisse, con sistemi validi, a divenire proprietario di un intero paese in cui imponesse leggi liberticide e razziste, e chiudesse anche le frontiere agli immigrati, essendo il diritto di proprietà anche quello di disporne a piacimento, tale situazione potrebbe dirsi libertaria...
Se per "proprietario di un intero paese" intendi "unico proprietario dei servizi di protezione, di arbitrato ecc", allora costui non potrebbe imporre leggi liberticide a persone non consenzienti. Un'agenzia di protezione che facesse ciò diventerebbe immediatamente criminale secondo la teoria libertaria. Il tuo esempio quindi non sarebbe valido: non è vero che il libertarismo permetterebbe ciò.
Se invece intendi "proprietario della terra", allora è vero che potrebbe stabilire a piacimento le leggi: a casa propria ognuno è sovrano. Chi non apprezzasse le sue leggi sarebbe libero di andare a vivere altrove, dove le condizioni di vita sono migliori. I proprietari delle terre confinanti, naturalmente, farebbero a gara per convincere le persone a migrare nel loro territorio, offrendo loro condizioni di vita più vantaggiose. In tal caso nessuno avrebbe più rapporti con il proprietario in questione, che dovrebbe cambiare atteggiamento oppure perderebbe la sua enorme proprietà più rapidamente di quanto l'ha acquisita. Ciò è ovvio: se non ti piacciono le leggi in un dato territorio, tu non ci entri e vai altrove. Quindi il proprietario di quel territorio perderà clienti e scomparirà dal mercato.
In ogni modo, è un’ipotesi molto improbabile che qualcuno possa diventare “proprietario di un intero paese” senza fare uso di violenza. (Anzi, ironicamente, la tua è un’ottima descrizione dello Stato.) Chiediamoci che cosa davvero ciò significhi. Se davvero qualcuno riesce a estendere molto le sue proprietà con mezzi legittimi, cioè senza usare la violenza, significa che ha dato ai cittadini qualcosa che per loro ha un grande valore (altrimenti perché lo avrebbero pagato così tanto?); cioè significa che ha fatto del bene in gran quantità. Ma può conservare la sua proprietà solo fino a che continua a far ciò. (Ricorda quanto detto prima sul monopolio in un regime di libero mercato: tale monopolio può esistere solo finché offre un buon servizio a prezzi bassi).
Quindi costui, smettendo di colpo di soddisfare le esigenze dei cittadini, perderebbe la sua posizione e la sua proprietà molto più rapidamente di quanto l'ha acquisita. A meno che, per conservare la sua posizione, non decidesse improvvisamente di cominciare a usare la violenza, nel qual caso diventerebbe uno Stato. Ma questa eventualità è molto improbabile, perché nel mercato dei servizi di protezione non sembra esistere un monopolio naturale; quindi una singola compagnia di protezione non raggiungerebbe la dimensione critica che le renderebbe conveniente richiedere pagamenti obbligatori e diventare così uno Stato.
Sempre su questo argomento cito David Friedman, un pezzo che credo tu abbia letto:
“Immaginiamo come sarebbe il nostro mondo se il costo per andare da un paese a un altro fosse zero. ... Un giorno il presidente francese annuncia che, a causa di problemi con le nazioni confinanti, verranno introdotte nuove tasse per le spese militari e che presto inizierà il reclutamento di nuove truppe. Il mattino seguente il Presidente francese si ritrova a governare un territorio pacifico, ma completamente vuoto, perché la popolazione si è ridotta, oltre a lui, a tre generali e ventisette corrispondenti di guerra.
Noi non viviamo in una roulotte; ma se potessimo comprare la nostra protezione personale da una società privata, invece che dallo Stato, potremmo cambiare compagnia non appena ne trovassimo un’altra in grado di offrire un servizio migliore. Possiamo cambiare il nostro protettore senza cambiare nazione.”(L'ingranaggio della libertà)
Suggerisco che anche il Duce che tu descrivi si ritroverebbe improvvisamente un re senza regno.
Continui poi:
Si ha, insomma, la netta sensazione che, più che tutelare il dinamico ed autopoietico mercato, si finisca per difendere la statica proprietà,
Mi viene da chiedere: la tua proprietà come l’hai ottenuta? Probabilmente rendendo un servizio agli altri. (Oppure usando la violenza). Se tu hai ottenuto un grande profitto senza usare la violenza, vuol dire che hai fornito un servizio di grande valore. Quindi la tua proprietà non è una cosa “statica”; è una misura del bene che hai fatto agli altri.
Credo che la difesa di diritti naturali non possa fare a meno dello stato.
1. In pratica stai dicendo che un monopolio forzoso può tutelare i diritti delle persone meglio di agenzie private in concorrenza tra loro. Detto così suona meno convincente.
2. Si osserva che lo Stato viola i diritti delle persone su base quotidiana, mediante istituzioni come proibizioni, guerre, leva, tasse, ecc. Ho difficoltà a capire come una violazione dei diritti possa essere considerata una difesa dei diritti.
A proposito, ti consiglio la lettura di due testi liberamente scaricabili in inglese: “Chaos Theory” di Murphy e l’articolo “responses to ten objections” di Roderick T. Long.
Nel nostro esempio precedente, ad esempio, il proprietario avrebbe potuto mantenere il suo ruolo di dittatore, solo facendo intervenire la soldataglia del paese a massacrare gli insorti,
Non capisco: tu stai descrivendo una dittatura, non il libertarismo. E non vedo in che modo questo supporti la tua tesi che lo stato sia necessario per difendere i diritti.
5. Sullo sfruttamento
Dici:
Credo che lo sfruttamento esista. Secondo gli anarco-capitalisti il concetto di sfruttamento non ha senso.
Non è vero. Secondo i libertari lo sfruttamento esiste, ma non è quello che pensi tu :). Per loro, sfruttare una persona significa farle qualcosa contro la sua volontà. Se io ti faccio qualcosa contro la tua volontà, cioè ti costringo a fare qualcosa, allora ottengo un beneficio alle tue spese. Cioè ti “sfrutto”.
Un esempio di sfruttamento è la schiavitù. Questa è sfruttamento _non_ perché il padrone ne trae beneficio, ma perché lo schiavo agisce sotto coercizione del padrone; lo schiavo non ha mai accettato liberamente, con un contratto, di subire quel trattamento. Un altro esempio di vero sfruttamento è l'estorsione, come quella effettuata dallo Stato, dalla Mafia, dal Vaticano, ecc.
Affinché io ti sfrutti, non basta che io tragga beneficio; è necessario che io ti stia costringendo con la forza, o minacciando di usare la forza. Se invece tu hai accettato la transazione libero da coercizione, allora entrambi traiamo un beneficio. Se vogliamo chiamarlo sfruttamento, allora ci stiamo sfruttando a vicenda.
Se il semplice fatto di trarre beneficio da una collaborazione si chiama sfruttamento, allora tutti sfruttano tutti: lo scolaro che impara la matematica sta sfruttando il professore; il professore che dà lezioni a pagamento sta sfruttando l’alunno (perché non impartisce lezioni gratis). Ma in questo caso la parola perde senso. Per questo l’unica definizione sensata della parola “sfruttamento” mi pare quella in cui io ti costringo a fare qualcosa contro la tua volontà; mediante la violenza o la minaccia di violenza. Solo in questo caso io ottengo un guadagno e tu una perdita.
Infatti, secondo la logica delle “preferenze dimostrate”, un operaio che accetta una paga misera preferisce, dimostrandolo con atto concludente, tale paga a nessuna paga. Certo. La cosa non tiene conto che, oltre all’offerente ed all’accettante, esiste un terzo elemento, definito bisogno, che fa si da rendere preferibile e dimostrata la scelta accettante, ma il bisogno non è stato, a sua volta interrogato.
Il bisogno non è stato interrogato? Non capisco. Come si fa a interrogare un bisogno?
Comunque, il bisogno non ti conferisce dei diritti aggiuntivi. Ad esempio, se io sto morendo di fame, e per sopravvivere scassino la tua casa e rubo un televisore, devo comunque rifonderti il danno. Non posso cavarmela dicendo “ma io avevo molto bisogno di entrare in casa tua”. Mi pare intuitivo.
Altri due esempi:
1.
Tua moglie sta morendo e devi portarla all’ospedale. Hai bisogno assoluto di arrivarci entro dieci minuti. Se tu, nella foga di portare tua moglie all'ospedale, investi qualcuno con la macchina, o danneggi la proprietà di qualcuno, il fatto che stavi cercando di salvare tua moglie _non_ ti esime dal dovere di risarcire il danno. Il giudice ti condannerà al risarcimento. Questo significa che non avevi il _diritto_ di farlo. Questo dimostra che la necessità non ti dà diritti ulteriori. Se la necessità di salvare tua moglie ti desse qualche diritto aggiuntivo, il giudice non ti condannerebbe.
2.
Tu torni a casa, la trovi scassinata, segui le tracce, arrivi a casa di un tizio, e vedi che ha il tuo televisore. Gli chiedi la restituzione, e lui risponde: "No, _tu_ non hai alcun diritto a riavere la tua proprietà, perché _io_ avevo un enorme bisogno di essa." Qual è l'aggettivo adatto per descrivere questo pensiero? Io lo definirei marxista.
In questi casi, tutto ciò che il libertario dice è che, se tu violi la proprietà altrui, allora devi rifondere la vittima. Cioè, anche se hai agito spinto dal bisogno, sei responsabile lo stesso per i danni. Ad esempio, se hai fame e rubi un pezzo di pane, poi devi restituire un pezzo di pane. Questo è in parole povere ciò che dicono i libertari. E non è un problema, se ci pensi. Voglio dire: se davvero in quel momento avevi un gran bisogno di quel pezzo di pane, allora ne hai tratto un gran beneficio. Ma allora, anche dopo aver risarcito il proprietario, ti resta un beneficio maggiore di zero! Cioè, anche dopo aver scontato la pena, ti resta un guadagno. Ma allora dov’è il problema?
(In realtà la questione è un po' più complessa; il libertario sostiene che la vittima ha il diritto di infliggere su di te qualunque sofferenza tu abbia inflitto su di lei. Questa condizione è più generale del semplice risarcimento, ma in questa sede non è il caso di distinguere.)
Il più delle volte, però, i bravi “offerenti” si impegnano a mantenere ben pasciuto il comodo terzo incomodo per poterlo poi sempre ospitare quale convitato di pietra alle loro trattative. Beh, io lo chiamo sfruttamento.
Temo di non capire; avrei preferito un esempio più concreto.
Sempre in tema di sfruttamento, ecco una citazione del nostro David Friedman:
“Spesso si dice che alcuni partecipanti dell’economia ne sfruttano altri. La cosa più comune è sentir dire che i datori di lavoro sfruttano i dipendenti. In simili discussioni, ci sono implicitamente due definizioni diverse di sfruttamento. La prima è che io sfrutto te se io traggo un beneficio dalla tua esistenza. In questo senso, io spero di sfruttare mia moglie e lei spera di sfruttare me; finora entrambi siamo riusciti nel nostro intento. Se è questo che significa sfruttare, allora lo sfruttamento è la ragione per cui gli umani sono animali sociali e non solitari, come i gatti.
Gli amici che hanno affittato il nostro terzo piano sono giardinieri entusiasti; noi non lo siamo. Noi otteniamo un servizio di giardinaggio gratis; loro ottengono l’uso gratuito di un giardino da curare. Chi sta sfruttando chi?
La seconda definizione è quella che dice che io sfrutto te se io guadagno e tu perdi dalla nostra associazione. Le due definizioni possono essere identificate in due modi: o sostenendo che il mondo è un gioco a somma zero, in cui una persona può guadagnare solo alle spese di un’altra, oppure sostenendo che se io ottengo un beneficio dalla nostra associazione devo darlo a te, quindi il mio rifiuto di dartelo ti danneggia. Il primo argomento non è plausibile. Il secondo ha una curiosa asimmetria. Se io do a te tutto il beneficio, adesso tu hai tratto un beneficio dalla nostra associazione, e quindi dovresti darlo a me. Potrebbe essere più sensato tenere la parola “sfuttamento” fuori dalle discussioni economiche e riservarla per l’invettiva politica.”(Hidden Order: the economics of everyday life)
In un’altra parte del libro, se ben ricordo, Friedman sostiene che denunciare lo sfruttamento in una transazione volontaria equivale a sostenere che una delle due parti dovrebbe prendersi tutto il beneficio. Questo, se ci rifletti, non è molto ragionevole.
A questo proposito, recentemente mi sono trovato a difendere i Radicali e L’Associazione Coscioni. Un mio amico sosteneva, a proposito della vicenda di Paolo Ravasin e del testamento biologico, che i radicali si stessero “approfittando” di quella persona sfortunata; cioè che lo stessero sfruttando. Specialmente perché chiedevano soldi usando la sua immagine. Gli ho risposto che quello non si può chiamare sfruttamento, perché presumibilmente c’era la volontà di Ravasin di essere trattato così. Questo dimostra che lui stesso ne ha tratto un beneficio. Quindi i radicali tecnicamente stanno facendo del bene a Ravasin; che è il contrario esatto dello sfruttamento. Se poi i radicali, oltre a fare del bene a Ravasin, stanno avendo anche un profitto, questo non cambia il fatto che stanno facendo del bene. Non è necessario che una delle due parti (Ravasin) si prenda tutto il beneficio, affinché un’azione possa essere classificata come “fare del bene”.
Ricordo che Coscioni disse: se quello dei Radicali verso di me è sfruttamento, benissimo, voglio essere sfruttato ancora.
6. Sul conservatorismo culturale dei libertari
La predominante cultura anarco-capitalista è conservatrice. ... Non si capisce per quale motivo ... questi autori si lanciano in, per me inammissibili, tirate filo-cattoliche preconciliari, anti-evoluzionistiche, teo-con e contrarie ad ogni forma di laicità.
Su questo condivido il tuo sconforto, specialmente verso l’atteggiamento antiscientifico di molti libertari.
Qualche piccolo appunto: per quanto riguarda la laicità, è un concetto che si applica allo stato, quindi per i libertari la parola ha ben poco senso. Io prima di considerarmi libertario già sostenevo che la parola laicità è una parola superflua: basta la parola ragione.
Nella mia esperienza, la maggioranza dei libertari sembra essere atea. Una buona parte (non so se la maggioranza) è culturalmente conservatrice, nel senso che tu dici e che io trovo molto sgradevole (ad es. sono specisti; Block addirittura è contro la RU-486, ecc). L’antievoluzionismo c’è, ma è una corrente di minoranza, per quanto ne so. Il clericalismo c’è. Forse dal loro punto di vista ha più senso, visto che negli USA le confessioni religiose, per quanto ne so, non ricevono fondi pubblici e sono quindi vere associazioni volontarie (nel senso di finanziate volontariamente); e quindi forse i libertari le considerano ottimi alleati contro lo Stato: più potere alle confessioni significa più potere a un’associazione volontaria, quindi meno potere allo Stato. Ti ricordo che per i libertari tutto ciò che conta è che un’associazione sia finanziata volontariamente. Sostengono persino il comunismo volontario!
Un piccolo test di personalità: cosa rispondete alla domanda “Qual è l’organizzazione criminale più grande? la Chiesa o lo Stato?”. Io mi unirei ai libertari nel rispondere “lo Stato”. Sono forse clericale per questo? Spero di no. :)
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domenica 27 luglio 2008
Diritto e potere. Utilitarismo, libertarismo, Friedman, Rothbard
Pubblico un mio commento ad un post di Luigi Corvaglia che critica il libertarismo americano. In questa parte del commento parlo del diritto naturale in relazione all'evoluzione; nella seconda parte tocco temi disparati come: il monopolio, lo sfruttamento dei lavoratori, il caso Ravasin e i Radicali, il funzionamento di una società senza Stato.
Cominciamo.
1. Distinzione tra diritto e potere
Dici di "non credere nei diritti naturali”, su cui molti libertari americani fondano la propria filosofia.
L'unica cosa che mi preme notare è che, in un certo senso, la dottrina del "diritto naturale" è banalmente vera. Il senso è il seguente. Lo studio della biologia, e in particolare della psicologia evoluzionistica, rivela che la selezione naturale ha programmato i nostri cervelli, dotandoli di alcune regole morali di base; (regole piuttosto vaghe e generiche, come ad esempio "non utilizzare un tuo simile come mezzo non consenziente per uno scopo", o “è sbagliato aggredire un innocente”. Vedi il libro “Menti Morali” di Marc Hauser per ulteriori dettagli e per l'evidenza che queste regole non dipendono dalla cultura.)
Gli umani alla nascita non sarebbero dunque una tabula rasa, ma possiederebbero già alcune regole morali innate, pre-inserite nel cervello, pre-programmate, che definiscono cosa è "giusto". (Incidentalmente, una di queste regole sembra essere il rispetto dei diritti di proprietà: sembra che i bambini molto piccoli possiedano già il senso della proprietà.)
Queste regole innate sono comunque abbastanza generiche e possono essere “istanziate”, o “specializzate”, dalla cultura, o dalla scelta personale. Ad esempio, una regola innata sembra essere che “è sbagliato aggredire un tuo simile innocente”, mentre è probabilmente la cultura a definire chi è il “tuo simile”. (Ad esempio la cultura può stabilire che "tuo simile" è ogni individuo della tua religione, o ogni essere umano, o ogni essere umano maschio, o ogni essere senziente compresi gli animali, ecc.)
Queste regole generiche, che per natura sono presenti nei nostri cervelli, si possono chiamare "diritto naturale". Quindi, almeno in questo senso, il diritto naturale esiste.
Un altro modo di dimostrare l'esistenza del diritto naturale è questo. Supponi che uno Stato promulgasse una legge che dice che è consentito uccidere tutti quelli che hanno i capelli rossi. Questo renderebbe forse legittimo uccidere le persone dai capelli rossi? Darebbe forse a me il diritto di uccidere quegli innocenti? Certo che no. Ma allora il diritto non coincide con la legge dello Stato. Deve esistere qualche altro diritto, preesistente al diritto positivo, che ha per noi la precedenza. Questo diritto, questo insieme di regole di cui abbiamo dimostrato l'esistenza, che preesiste alle leggi dello Stato, si può chiamare diritto "naturale".
E “dove si trova” questo diritto? Forse in qualche platonico iperuranio? No. Lo studio della psicologia suggerisce che quelle regole si trovano semplicemente nel nostro cervello, proprio come un software si trova dentro un computer, sotto forma di configurazioni di simboli. Le regole del diritto sono il software, il cervello è l’hardware; il programmatore è l'evoluzione. E’ questa quindi la natura fisica di quelle regole: sono simboli scritti nel cervello, dotati di una natura materiale, come delle scritte in rilievo su un muro; sono simboli con proprietà causali sul mondo materiale; esistono nel mondo e non soltanto in un mistico iperuranio.
Quindi il diritto naturale esiste, sotto forma di regole scritte nel cervello sin dalla nascita. Cosa interessante, a quanto pare noi non abbiamo la capacità di modificare queste regole; cioè non possiamo ridefinire il concetto di “giusto” mediante la logica o la volontà. Ad esempio, anche se razionalmente mi rendo conto che, uccidendo Tizio, posso salvare la vita di mille persone, ciò non farà mai diventare giusta l’uccisione di Tizio. Non sono in grado di considerare “giusta” quella violenza su un innocente, anche se dal punto di vista utilitaristico sembra essere la cosa migliore da fare. (Attenzione: non sto dicendo che non sono in grado di fare quella cosa, ma solo che non sono in grado di percepirla come giusta.)
E perché non sono in grado di considerarla giusta? Per lo stesso motivo per cui non posso considerare verde una cosa che mi sembra gialla. In breve, perché è l'evoluzione che ha stabilito cosa il mio cervello può considerare giusto. Per dirla in modo teatrale, alla Dawkins, io sono una macchina fatta per considerare ingiusta quella cosa; e non sembro capace di riprogrammarmi e considerarla giusta. Il diritto naturale non sembra modificabile dall’uomo fino a tal punto.
(Sebbene l'informatica insegni che, entro certi limiti, una macchina potrebbe essere capace di riprogrammarsi, tuttavia, nel caso del senso di giustizia, l’evoluzione non sembra averci dotato di questa capacità. La cultura o la logica o la volontà possono solo specializzare entro certi limiti le regole innate, non reinventarle. La manipolazione diretta del cervello o del DNA potrebbe forse modificare il diritto in modo più radicale, ma non abbiamo ancora conoscenza sufficiente per far ciò.)
Riassumendo: il diritto naturale esiste, non è solo un'invenzione di Ratzinger; è un insieme di regole scritte nel cervello, che definiscono cosa noi consideriamo giusto, e sulle quali abbiamo relativamente poco controllo. Questo diritto naturale è indipendente dalle leggi dello stato (diritto positivo). Le leggi dello stato sono espressione del potere, non del diritto.
Ma tutto questo non dovrebbe far esultare i giusnaturalisti, perché, sebbene il diritto naturale esista, per quanto ne so nessuno ha ancora dimostrato che bisogna rispettarlo. (Anzi nessuno ha mai dimostrato alcuna proposizione contenente la parola "dovere".) Siamo perfettamente in grado di ignorare il diritto naturale, cioè di fare cose che percepiamo come ingiuste; e nessuno ha dimostrato che non "dovremmo" farlo. Perché dovrei rispettare il senso di giustizia che l'evoluzione (o Dio) mi ha dato? Nessuno, che io sappia, è riuscito a colmare il "buco" tra "ciò che è" e "ciò che dovrebbe essere"; tra normativo e positivo. (Rothbard e Hoppe sembrano credere di averlo colmato, ma secondo me si sbagliano.)
Un altro motivo per cui il libertario non dovrebbe esultare è che il diritto naturale non sembra coincidere del tutto con la teoria libertaria (vedi articolo di Pinker).
Prosegui:
E’ vero, c’è un che di mistico. Ma, per quanto mistica, questa sembra essere la regola che l’evoluzione ha scritto nei cervelli. Ad esempio, un bambino di 4 anni dice “Questa conchiglia è mia, perché l’ho trovata io”. Oppure dice “Questa macchinina è mia, perché me l’ha data lui”. I bambini sono libertari innati --- e non solo sotto questo aspetto.
Del resto, la regola di "transustanziazione della terra" non è stata certo inventata da Locke, il quale si è limitato a formalizzare una regola che già conosceva intuitivamente. Il vero inventore della regola è l'evoluzione. Probabilmente quella regola aumenta la probabilità di sopravvivenza dei geni che la producono, ed è per questo che esiste nei cervelli umani.
In altre parole: io semplicemente sento che una cosa è mia di diritto perché l’ho trovata per primo. Il fatto che tutto ciò mi sembri “mistico” non cambia le cose: per quanto ciò mi sembri mistico, non potrò mai smettere di considerare legittimo proprietario colui che trova una cosa per primo. Non ho la capacità di ridefinire ciò che ritengo legittimo; non potrò mai cambiare idea su ciò che ritengo giusto (come su ciò che ritengo verde).
Poi dici:
A me pare impossibile rispondere di sì. Questo dimostra, a mio avviso, che il diritto non è il risultato di una convenzione o del consenso; è un insieme di regole preesistente a qualunque convenzione.
Oggi la scienza permette di spiegare come possa esistere qualcosa di "preesistente" alle convenzioni umane: il diritto naturale è preesistente alle convenzioni umane semplicemente perché è stato scritto nei nostri cervelli molto prima di qualunque convenzione; è stato scritto dall'evoluzione in tempi antichissimi. Le convenzioni umane, a quanto pare, se vanno contro quel diritto preesistente, vengono percepite come ingiuste. Il diritto è preesistente alla legge, e non può essere abrogato o modificato da alcuna convenzione. (Cioè, qualunque convenzione che provasse ad abrogarlo sarebbe immediatamente percepita come ingiusta.)
Esiste anche altra evidenza che il diritto preesiste alla legge o al consenso. Se il diritto non fosse preesistente alla legge, perché ci scalderemmo tanto quando viene promulgata una legge che ci sembra ingiusta? Come potremmo mai dire che una legge dello Stato è ingiusta, se fosse davvero lo Stato a definire il diritto, a definire cosa è giusto? Evidentemente il diritto deve essere già dentro di noi.
Mi pare che tu confonda il potere col diritto. Il consenso degli altri ci dà il potere di continuare a possedere; ma non ci dà il diritto di continuare a possedere. Quel diritto ce l’abbiamo in ogni caso, è scritto nei cervelli, e nessuno ce lo può togliere (almeno fino a che costui non riprogramma il mio cervello in modo da cambiare la mia percezione di cosa è giusto e cosa no, di cosa è mio diritto e cosa no).
Ma, Luigi, il diritto non è qualcosa che tu puoi “definire”, come fossi un burattinaio che sta inventando le regole con cui devono muoversi i pupazzi. Infatti, qualunque cosa tu “definisca”, se non è compatibile con le regole di giustizia che sono già presenti nel mio cervello, io la percepirò come ingiusta. Ma allora, tu non avresti “definito” il diritto; avresti definito solo il potere (che cosa io posso fare senza essere aggredito).
Ad esempio, se tu e un altro milione di persone stabilite che io non posso farmi una canna, non è che improvvisamente io non ho più il diritto di drogarmi, o che magicamente drogarsi diventa “illegittimo” o "ingiusto". Non è che Pannella che mi ha dato la canna diventa improvvisamente un criminale; i criminali restate tu e quel milione di persone che avete deciso di applicare quella regola ed impedire con la forza uno scambio volontario tra persone consenzienti.
Per fare un altro esempio: se domani la gente si mette d’accordo che non si può cantare “o sole mio” dopo le 20, non è che magicamente tu non hai più il diritto di farlo. E’ vero al più che tu non hai più il potere di farlo (perché se lo fai vieni aggredito) ma il diritto ce l’hai comunque.
Insomma, diritto e legge sono due cose diverse. La legge è espressione del potere, non del diritto. I diritti non possono essere “stabiliti” o “ridefiniti” da nessuno: sono regole praticamente immutabili programmate dall’evoluzione nel cervello (come “è sbagliato aggredire un innocente”, ecc), che entro certi limiti possono essere specializzate dalla cultura. Il tuo consenso può darmi, al massimo, il potere materiale di fare qualcosa, non il diritto di farla.
Questo “ridisegnamento” del mondo, che tu vedi come l’atto di definire i diritti, è solo una definizione dei poteri; cioè è la definizione di che cosa ciascuno di noi può fare senza essere aggredito.
Per quanto riguarda l’utilitarismo: questa dottrina (che io una volta sostenevo con convinzione) ha evidenti problemi. Ad esempio, prendi lo scenario seguente: un medico ha 5 pazienti in punto di morte. Ognuno di essi, per vivere, ha bisogno di un organo differente. Il medico si accorge che in sala d’aspetto c’è una persona perfettamente sana. Se la uccidesse e prendesse i suoi organi, potrebbe salvare 5 vite. Cinque al prezzo di uno. Domanda: è giusto uccidere la persona per salvarne 5? Secondo la dottrina utilitaristica, la risposta sembrerebbe essere sì. Ne segue che non siamo utilitaristi. Evidentemente nel nostro cervello c’è una regola che non risponde ai criteri utilitaristici (lascio a te il compito di scoprire quale sia questa regola).
David Friedman, ne L’Ingranaggio della Libertà, fa un esempio simile: lo sceriffo che condanna a morte un innocente per salvare la vita di molti cittadini. Friedman stesso nota i problemi dell’utilitarismo e dichiara di non essere filosoficamente un utilitarista. (Eppure quasi tutti lo chiamano utilitarista, cosa che lo fa innervosire.)
Noto che poni di frequente un’alternativa tra utilitarismo e “sacralità”. Per te, o i diritti di proprietà sono fondati sull’utilità, oppure sono “sacri”. Beh, io non vedo nulla di sacro o di mistico nel dire che le regole di funzionamento di una macchina sono fissate, e non si possono cambiare a piacimento. Io, in quanto macchina, non sono in grado di considerare “giusta” una cosa che ritengo ingiusta, indipendentemente da cosa è utile o da cosa la maggioranza ha stabilito lecito. E’ al di là delle mie capacità così come stabilite dal mio programmatore (la selezione naturale), proprio come non riesco a considerare verde una cosa che mi pare gialla. La selezione naturale mi ha dato la capacità di fare qualcosa che ritengo ingiusto, ma non la capacità di considerare giusta quella cosa. Questo non significa che per me il diritto sia qualcosa di “sacro”. Significa solo che è una cosa che non posso cambiare. Una cosa può essere immutabile senza essere sacra. Voglio dire, le macchine hanno dei limiti.
Forse Friedman non va escluso, perché è dichiaratamente libertario e non utilitarista, presumibilmente giusnaturalista.
Ma tutti gli assiomi sono indimostrati. Se provi a dimostrarli, necessariamente li dimostri in termini di altri assiomi, i quali resteranno a loro volta indimostrati. Quindi tutti noi abbiamo degli assiomi etici indimostrati --- te compreso, immagino. Nessuno (neppure gli utilitaristi, ammesso che esistano) sono in grado di dimostrare i propri assiomi.
Un esercizio interessante è fare introspezione su se stessi per scoprire quali siano i propri assiomi etici. Uno dei miei assiomi è che l’aggressione contro un non-aggressore è sempre sbagliata, indipendentemente dalla ragione e dalle conseguenze; e quindi è giusto che l’aggressore risarcisca la vittima in proporzione, se essa lo richiede. Considero questo un assioma non perché lo posso dimostrare (nessuno può dimostrare i propri assiomi) ma semplicemente perché questa regola emerge nella mia coscienza; cioè, io sono una macchina programmata per considerare ingiusta quella cosa.
__
2. Sui vari significati della parola "libertà"
Scrivi:
Per notare la differenza con l'altra definizione, basta notare che, per un libertario, Robinson Crusoe su un'isola deserta è perfettamente libero. Anche se sta morendo di fame ed ha pochissime opportunità o scelte. Ad esempio, Robinson è perfettamente libero di andare sulla luna (sebbene non sia capace di farlo) in quanto nessuno glielo impedisce.
Il caso vuole che questa definizione di libertà (“libertà negativa”) si sia rivelata a posteriori l’unica compatibile con le scoperte scientifiche. Infatti, ciò che abbiamo scoperto sul funzionamento della mente sembra indicare che noi non siamo liberi dai nostri stessi processi mentali. Le nostre decisioni (il cosiddetto “arbitrio”) sono il risultato finale di una computazione che avviene nel nostro cervello, sulla quale non abbiamo controllo. Cioè, non siamo liberi di cambiare l’algoritmo con cui il cervello decide cosa fare. Non siamo liberi dalla nostra stessa mente. Come disse Einstein in forma succinta ma efficace, “non posso volere ciò che non voglio”.
Insomma nessuno è libero da se stesso; dai propri limiti mentali e fisici. Questo suggerisce che l'unico significato della parola libertà che potrebbe avere senso è quello che definisce la libertà come libertà dagli altri (e non dalla sorte o dalle proprie capacità). Che è appunto la definizione libertaria. Chiusa parentesi.
__
(Continua nel post successivo)
Cominciamo.
1. Distinzione tra diritto e potere
Dici di "non credere nei diritti naturali”, su cui molti libertari americani fondano la propria filosofia.
L'unica cosa che mi preme notare è che, in un certo senso, la dottrina del "diritto naturale" è banalmente vera. Il senso è il seguente. Lo studio della biologia, e in particolare della psicologia evoluzionistica, rivela che la selezione naturale ha programmato i nostri cervelli, dotandoli di alcune regole morali di base; (regole piuttosto vaghe e generiche, come ad esempio "non utilizzare un tuo simile come mezzo non consenziente per uno scopo", o “è sbagliato aggredire un innocente”. Vedi il libro “Menti Morali” di Marc Hauser per ulteriori dettagli e per l'evidenza che queste regole non dipendono dalla cultura.)
Gli umani alla nascita non sarebbero dunque una tabula rasa, ma possiederebbero già alcune regole morali innate, pre-inserite nel cervello, pre-programmate, che definiscono cosa è "giusto". (Incidentalmente, una di queste regole sembra essere il rispetto dei diritti di proprietà: sembra che i bambini molto piccoli possiedano già il senso della proprietà.)
Queste regole innate sono comunque abbastanza generiche e possono essere “istanziate”, o “specializzate”, dalla cultura, o dalla scelta personale. Ad esempio, una regola innata sembra essere che “è sbagliato aggredire un tuo simile innocente”, mentre è probabilmente la cultura a definire chi è il “tuo simile”. (Ad esempio la cultura può stabilire che "tuo simile" è ogni individuo della tua religione, o ogni essere umano, o ogni essere umano maschio, o ogni essere senziente compresi gli animali, ecc.)
Queste regole generiche, che per natura sono presenti nei nostri cervelli, si possono chiamare "diritto naturale". Quindi, almeno in questo senso, il diritto naturale esiste.
Un altro modo di dimostrare l'esistenza del diritto naturale è questo. Supponi che uno Stato promulgasse una legge che dice che è consentito uccidere tutti quelli che hanno i capelli rossi. Questo renderebbe forse legittimo uccidere le persone dai capelli rossi? Darebbe forse a me il diritto di uccidere quegli innocenti? Certo che no. Ma allora il diritto non coincide con la legge dello Stato. Deve esistere qualche altro diritto, preesistente al diritto positivo, che ha per noi la precedenza. Questo diritto, questo insieme di regole di cui abbiamo dimostrato l'esistenza, che preesiste alle leggi dello Stato, si può chiamare diritto "naturale".
E “dove si trova” questo diritto? Forse in qualche platonico iperuranio? No. Lo studio della psicologia suggerisce che quelle regole si trovano semplicemente nel nostro cervello, proprio come un software si trova dentro un computer, sotto forma di configurazioni di simboli. Le regole del diritto sono il software, il cervello è l’hardware; il programmatore è l'evoluzione. E’ questa quindi la natura fisica di quelle regole: sono simboli scritti nel cervello, dotati di una natura materiale, come delle scritte in rilievo su un muro; sono simboli con proprietà causali sul mondo materiale; esistono nel mondo e non soltanto in un mistico iperuranio.
Quindi il diritto naturale esiste, sotto forma di regole scritte nel cervello sin dalla nascita. Cosa interessante, a quanto pare noi non abbiamo la capacità di modificare queste regole; cioè non possiamo ridefinire il concetto di “giusto” mediante la logica o la volontà. Ad esempio, anche se razionalmente mi rendo conto che, uccidendo Tizio, posso salvare la vita di mille persone, ciò non farà mai diventare giusta l’uccisione di Tizio. Non sono in grado di considerare “giusta” quella violenza su un innocente, anche se dal punto di vista utilitaristico sembra essere la cosa migliore da fare. (Attenzione: non sto dicendo che non sono in grado di fare quella cosa, ma solo che non sono in grado di percepirla come giusta.)
E perché non sono in grado di considerarla giusta? Per lo stesso motivo per cui non posso considerare verde una cosa che mi sembra gialla. In breve, perché è l'evoluzione che ha stabilito cosa il mio cervello può considerare giusto. Per dirla in modo teatrale, alla Dawkins, io sono una macchina fatta per considerare ingiusta quella cosa; e non sembro capace di riprogrammarmi e considerarla giusta. Il diritto naturale non sembra modificabile dall’uomo fino a tal punto.
(Sebbene l'informatica insegni che, entro certi limiti, una macchina potrebbe essere capace di riprogrammarsi, tuttavia, nel caso del senso di giustizia, l’evoluzione non sembra averci dotato di questa capacità. La cultura o la logica o la volontà possono solo specializzare entro certi limiti le regole innate, non reinventarle. La manipolazione diretta del cervello o del DNA potrebbe forse modificare il diritto in modo più radicale, ma non abbiamo ancora conoscenza sufficiente per far ciò.)
Riassumendo: il diritto naturale esiste, non è solo un'invenzione di Ratzinger; è un insieme di regole scritte nel cervello, che definiscono cosa noi consideriamo giusto, e sulle quali abbiamo relativamente poco controllo. Questo diritto naturale è indipendente dalle leggi dello stato (diritto positivo). Le leggi dello stato sono espressione del potere, non del diritto.
Ma tutto questo non dovrebbe far esultare i giusnaturalisti, perché, sebbene il diritto naturale esista, per quanto ne so nessuno ha ancora dimostrato che bisogna rispettarlo. (Anzi nessuno ha mai dimostrato alcuna proposizione contenente la parola "dovere".) Siamo perfettamente in grado di ignorare il diritto naturale, cioè di fare cose che percepiamo come ingiuste; e nessuno ha dimostrato che non "dovremmo" farlo. Perché dovrei rispettare il senso di giustizia che l'evoluzione (o Dio) mi ha dato? Nessuno, che io sappia, è riuscito a colmare il "buco" tra "ciò che è" e "ciò che dovrebbe essere"; tra normativo e positivo. (Rothbard e Hoppe sembrano credere di averlo colmato, ma secondo me si sbagliano.)
Un altro motivo per cui il libertario non dovrebbe esultare è che il diritto naturale non sembra coincidere del tutto con la teoria libertaria (vedi articolo di Pinker).
Prosegui:
C’è un che di mistico nel processo di transustanziazione della terra che, mescolandosi lockianamente al mio lavoro, diviene mia.
E’ vero, c’è un che di mistico. Ma, per quanto mistica, questa sembra essere la regola che l’evoluzione ha scritto nei cervelli. Ad esempio, un bambino di 4 anni dice “Questa conchiglia è mia, perché l’ho trovata io”. Oppure dice “Questa macchinina è mia, perché me l’ha data lui”. I bambini sono libertari innati --- e non solo sotto questo aspetto.
Del resto, la regola di "transustanziazione della terra" non è stata certo inventata da Locke, il quale si è limitato a formalizzare una regola che già conosceva intuitivamente. Il vero inventore della regola è l'evoluzione. Probabilmente quella regola aumenta la probabilità di sopravvivenza dei geni che la producono, ed è per questo che esiste nei cervelli umani.
In altre parole: io semplicemente sento che una cosa è mia di diritto perché l’ho trovata per primo. Il fatto che tutto ciò mi sembri “mistico” non cambia le cose: per quanto ciò mi sembri mistico, non potrò mai smettere di considerare legittimo proprietario colui che trova una cosa per primo. Non ho la capacità di ridefinire ciò che ritengo legittimo; non potrò mai cambiare idea su ciò che ritengo giusto (come su ciò che ritengo verde).
Poi dici:
Non esiste diritto se non riconosciuto.Questo somiglia al positivismo giuridico, dottrina che ha dei problemi, messi in luce dal paradosso dei capelli rossi precedentemente citato, oppure dalla seguente domanda:
"Se la maggioranza smette di riconoscere il diritto alla vita degli ebrei, improvvisamente gli ebrei non hanno più il diritto alla vita? Improvvisamente colui che li uccide non sta più commettendo alcun crimine o ledendo alcun diritto?
E che dire della schiavitù? Il diritto dei neri non esisteva prima di essere "riconosciuto"? Gli schiavisti non stavano ledendo alcun diritto?"
A me pare impossibile rispondere di sì. Questo dimostra, a mio avviso, che il diritto non è il risultato di una convenzione o del consenso; è un insieme di regole preesistente a qualunque convenzione.
Oggi la scienza permette di spiegare come possa esistere qualcosa di "preesistente" alle convenzioni umane: il diritto naturale è preesistente alle convenzioni umane semplicemente perché è stato scritto nei nostri cervelli molto prima di qualunque convenzione; è stato scritto dall'evoluzione in tempi antichissimi. Le convenzioni umane, a quanto pare, se vanno contro quel diritto preesistente, vengono percepite come ingiuste. Il diritto è preesistente alla legge, e non può essere abrogato o modificato da alcuna convenzione. (Cioè, qualunque convenzione che provasse ad abrogarlo sarebbe immediatamente percepita come ingiusta.)
Esiste anche altra evidenza che il diritto preesiste alla legge o al consenso. Se il diritto non fosse preesistente alla legge, perché ci scalderemmo tanto quando viene promulgata una legge che ci sembra ingiusta? Come potremmo mai dire che una legge dello Stato è ingiusta, se fosse davvero lo Stato a definire il diritto, a definire cosa è giusto? Evidentemente il diritto deve essere già dentro di noi.
come diceva Stirner, la proprietà, più che un furto è “un dono”, perché è l’acquiescenza degli altri che ci permette di continuare a possedere.
Mi pare che tu confonda il potere col diritto. Il consenso degli altri ci dà il potere di continuare a possedere; ma non ci dà il diritto di continuare a possedere. Quel diritto ce l’abbiamo in ogni caso, è scritto nei cervelli, e nessuno ce lo può togliere (almeno fino a che costui non riprogramma il mio cervello in modo da cambiare la mia percezione di cosa è giusto e cosa no, di cosa è mio diritto e cosa no).
è allora ovvio che tutti partecipano, attivamente o passivamente, a definire i diritti vigenti in un dato momento e luogo;
Ma, Luigi, il diritto non è qualcosa che tu puoi “definire”, come fossi un burattinaio che sta inventando le regole con cui devono muoversi i pupazzi. Infatti, qualunque cosa tu “definisca”, se non è compatibile con le regole di giustizia che sono già presenti nel mio cervello, io la percepirò come ingiusta. Ma allora, tu non avresti “definito” il diritto; avresti definito solo il potere (che cosa io posso fare senza essere aggredito).
Ad esempio, se tu e un altro milione di persone stabilite che io non posso farmi una canna, non è che improvvisamente io non ho più il diritto di drogarmi, o che magicamente drogarsi diventa “illegittimo” o "ingiusto". Non è che Pannella che mi ha dato la canna diventa improvvisamente un criminale; i criminali restate tu e quel milione di persone che avete deciso di applicare quella regola ed impedire con la forza uno scambio volontario tra persone consenzienti.
Per fare un altro esempio: se domani la gente si mette d’accordo che non si può cantare “o sole mio” dopo le 20, non è che magicamente tu non hai più il diritto di farlo. E’ vero al più che tu non hai più il potere di farlo (perché se lo fai vieni aggredito) ma il diritto ce l’hai comunque.
Insomma, diritto e legge sono due cose diverse. La legge è espressione del potere, non del diritto. I diritti non possono essere “stabiliti” o “ridefiniti” da nessuno: sono regole praticamente immutabili programmate dall’evoluzione nel cervello (come “è sbagliato aggredire un innocente”, ecc), che entro certi limiti possono essere specializzate dalla cultura. Il tuo consenso può darmi, al massimo, il potere materiale di fare qualcosa, non il diritto di farla.
ma questo continuo ridisegnamento del mondo esce dall’ambito della sacralità per entrare in quello dell’utilità. La proprietà non è sacra, è, al più, utile.
Questo “ridisegnamento” del mondo, che tu vedi come l’atto di definire i diritti, è solo una definizione dei poteri; cioè è la definizione di che cosa ciascuno di noi può fare senza essere aggredito.
Per quanto riguarda l’utilitarismo: questa dottrina (che io una volta sostenevo con convinzione) ha evidenti problemi. Ad esempio, prendi lo scenario seguente: un medico ha 5 pazienti in punto di morte. Ognuno di essi, per vivere, ha bisogno di un organo differente. Il medico si accorge che in sala d’aspetto c’è una persona perfettamente sana. Se la uccidesse e prendesse i suoi organi, potrebbe salvare 5 vite. Cinque al prezzo di uno. Domanda: è giusto uccidere la persona per salvarne 5? Secondo la dottrina utilitaristica, la risposta sembrerebbe essere sì. Ne segue che non siamo utilitaristi. Evidentemente nel nostro cervello c’è una regola che non risponde ai criteri utilitaristici (lascio a te il compito di scoprire quale sia questa regola).
David Friedman, ne L’Ingranaggio della Libertà, fa un esempio simile: lo sceriffo che condanna a morte un innocente per salvare la vita di molti cittadini. Friedman stesso nota i problemi dell’utilitarismo e dichiara di non essere filosoficamente un utilitarista. (Eppure quasi tutti lo chiamano utilitarista, cosa che lo fa innervosire.)
La proprietà non è sacra, è, al più, utile.
Noto che poni di frequente un’alternativa tra utilitarismo e “sacralità”. Per te, o i diritti di proprietà sono fondati sull’utilità, oppure sono “sacri”. Beh, io non vedo nulla di sacro o di mistico nel dire che le regole di funzionamento di una macchina sono fissate, e non si possono cambiare a piacimento. Io, in quanto macchina, non sono in grado di considerare “giusta” una cosa che ritengo ingiusta, indipendentemente da cosa è utile o da cosa la maggioranza ha stabilito lecito. E’ al di là delle mie capacità così come stabilite dal mio programmatore (la selezione naturale), proprio come non riesco a considerare verde una cosa che mi pare gialla. La selezione naturale mi ha dato la capacità di fare qualcosa che ritengo ingiusto, ma non la capacità di considerare giusta quella cosa. Questo non significa che per me il diritto sia qualcosa di “sacro”. Significa solo che è una cosa che non posso cambiare. Una cosa può essere immutabile senza essere sacra. Voglio dire, le macchine hanno dei limiti.
Gli anarco-capitalisti, con il loro giusnaturalismo (escludendo dal novero l’ottimo Friedman)
Forse Friedman non va escluso, perché è dichiaratamente libertario e non utilitarista, presumibilmente giusnaturalista.
possono, sulla base di indimostrabili assiomi sulla sacralità di taluni diritti calati dal cielo
Ma tutti gli assiomi sono indimostrati. Se provi a dimostrarli, necessariamente li dimostri in termini di altri assiomi, i quali resteranno a loro volta indimostrati. Quindi tutti noi abbiamo degli assiomi etici indimostrati --- te compreso, immagino. Nessuno (neppure gli utilitaristi, ammesso che esistano) sono in grado di dimostrare i propri assiomi.
Un esercizio interessante è fare introspezione su se stessi per scoprire quali siano i propri assiomi etici. Uno dei miei assiomi è che l’aggressione contro un non-aggressore è sempre sbagliata, indipendentemente dalla ragione e dalle conseguenze; e quindi è giusto che l’aggressore risarcisca la vittima in proporzione, se essa lo richiede. Considero questo un assioma non perché lo posso dimostrare (nessuno può dimostrare i propri assiomi) ma semplicemente perché questa regola emerge nella mia coscienza; cioè, io sono una macchina programmata per considerare ingiusta quella cosa.
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2. Sui vari significati della parola "libertà"
Scrivi:
indice relativo di libertà è la scelta (di oggetti, stili di vitaUna precisazione: per un libertario, la libertà non è la quantità di scelte o la quantità di opportunità di cui disponi, bensì è la condizione in cui tu non vieni aggredito da altri; la condizione in cui la tua persona e la tua proprietà legittima non subiscono l'aggressione o l'invasione di altre persone.
Per notare la differenza con l'altra definizione, basta notare che, per un libertario, Robinson Crusoe su un'isola deserta è perfettamente libero. Anche se sta morendo di fame ed ha pochissime opportunità o scelte. Ad esempio, Robinson è perfettamente libero di andare sulla luna (sebbene non sia capace di farlo) in quanto nessuno glielo impedisce.
Il caso vuole che questa definizione di libertà (“libertà negativa”) si sia rivelata a posteriori l’unica compatibile con le scoperte scientifiche. Infatti, ciò che abbiamo scoperto sul funzionamento della mente sembra indicare che noi non siamo liberi dai nostri stessi processi mentali. Le nostre decisioni (il cosiddetto “arbitrio”) sono il risultato finale di una computazione che avviene nel nostro cervello, sulla quale non abbiamo controllo. Cioè, non siamo liberi di cambiare l’algoritmo con cui il cervello decide cosa fare. Non siamo liberi dalla nostra stessa mente. Come disse Einstein in forma succinta ma efficace, “non posso volere ciò che non voglio”.
Insomma nessuno è libero da se stesso; dai propri limiti mentali e fisici. Questo suggerisce che l'unico significato della parola libertà che potrebbe avere senso è quello che definisce la libertà come libertà dagli altri (e non dalla sorte o dalle proprie capacità). Che è appunto la definizione libertaria. Chiusa parentesi.
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(Continua nel post successivo)
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giovedì 17 aprile 2008
La fallacia dell'altruismo
Terzo episodio della serie dedicata al socialismo (Episodi precedenti: primo, secondo).
In questo articolo David Friedman discute l'idea socialista di instaurare un sistema che enfatizzi la generosità e l'altruismo al posto dell'egoismo e della logica del profitto. Secondo Friedman questo argomento è fallace poiché, in un sistema capitalista, l'amore e l'altruismo sono già impiegati dove possibile. Quindi la proposta socialista si riduce a sostituire la cooperazione volontaria con la coercizione. Ed agire sotto coercizione mi priva della possibilità stessa di essere altruista o generoso.
3. L'amore non basta
Un'abituale critica mossa alla proprietà privata è che essa sia un sistema immorale, perché basato sull'egoismo. Il che è sbagliato. Comunemente viene definito egoismo un atteggiamento in base al quale una persona pensa solo a se stessa e non si cura del benessere degli altri. L'essere a favore della proprietà privata non significa sostenere tale atteggiamento; significa solamente essere coscienti del fatto che individui differenti hanno fini differenti e li perseguono. Ogni persona è egoista solamente perché accetta e segue la propria percezione della realtà, la propria visione di ciò che è bene.
Un'obiezione simile è sbagliata anche perché pone false alternative. Sotto qualsiasi istituzione, ci sono essenzialmente solo tre metodi per convincere qualcuno ad aiutare gli altri a realizzare i propri obiettivi: l'amore, lo scambio volontario e la forza.
L'amore trasforma il mio obiettivo nel tuo. Chi mi ama vuole che io ottenga ciò che desidero (a meno che non pensi che io non sia in grado di capire ciò che è giusto per me). Quindi mi aiuta volontariamente, disinteressatamente. Ma la parola "amore" è un termine troppo limitato. Tu potresti anche condividere il mio scopo, non tanto perché è il mio scopo, ma perché in un certo senso tu e io abbiamo la stessa percezione di ciò che è bene. Potresti offrirti di lavorare per la mia campagna politica, non per amore, ma perché convinto che la mia elezione possa essere un bene. Naturalmente, potremmo condividere uguali interessi per ragioni totalmente diverse. Io potrei pensare di essere proprio quello di cui il paese ha bisogno, e tu che io sia proprio quello che la nazione "merita".
Il secondo metodo di collaborazione è il commercio. Io acconsento ad aiutare te a realizzare il tuo scopo se tu mi aiuti a realizzare il mio.
Il terzo metodo è la forza. Tu fai ciò che voglio, o ti sparo.
L'amore (o più in generale il condividere uno scopo comune) funziona bene, ma solo per una gamma limitata di problemi. È difficile conoscere tanta gente così bene da amarla. L'amore può essere fonte di cooperazione per questioni complesse fra piccoli gruppi, come la famiglia. Esso funziona anche tra gruppi numerosi, per obiettivi assai semplici --- tanto semplici che individui diversi possono trovarsi completamente d'accordo. Ma per un fine complesso che coinvolge un gran numero di persone -- la produzione di questo libro, ad esempio -- l'amore non potrà funzionare. Non posso pretendere che tutti coloro la cui collaborazione mi è necessaria (compositori, editori, librai, taglialegna, proprietari di cartiere, e mille altri ancora) mi conoscano e mi amino tanto da voler pubblicare questo libro per il mio bene. Tantomeno posso pretendere che tutti siano d'accordo con le mie convinzioni, così da vedere la pubblicazione del libro come un obiettivo in sé. Non posso neanche aspettarmi che siano desiderosi di leggere il libro e, di conseguenza, disposti ad aiutarmi a produrlo. Dovrò servirmi del commercio.
Io spendo tempo ed energia per produrre il manoscritto. Ottengo, in cambio, l'opportunità di diffondere la mia opinione, un po' di soddisfazione per il mio ego, e un po' di soldi. Chi vuole leggere il libro lo compra. In cambio, sborsa denaro. La casa editrice e i suoi dipendenti forniscono tempo, energia e talento necessari per coordinare il tutto; ottengono in cambio denaro e reputazione. I taglialegna, i tipografi e tutti gli altri apportano le loro energie e il proprio talento e in cambio guadagnano soldi. Migliaia di persone, forse milioni, cooperano a un unico scopo, e allo stesso tempo ognuno persegue il proprio obiettivo.
Dunque, in regime di proprietà privata, il primo metodo, l'amore, viene usato laddove è possibile. Altrimenti ci si serve del commercio.
L'accusa alla proprietà privata di essere egoista oppone il secondo metodo al primo. Implica che l'unica alternativa al commercio "egoista" sia l'amore "altruista". Ma, in un regime di proprietà privata, l'amore è già usato dove possibile. A nessuno viene impedito di operare gratuitamente, se lo desidera. Molte persone (genitori che aiutano i propri figli, volontari in ospedale, capi scout) fanno proprio questo. Per ciò che la gente non è disposta a fare gratuitamente, se non è permesso ricorrere al secondo metodo, il commercio, necessariamente si dovrà usare il terzo: la forza. Invece di avere "egoisti" che svolgono un'attività perché lo desiderano, avremo "generosi" che si daranno da fare sotto la minaccia della pistola.
Non è ingiusta questa accusa? L'unica alternativa offerta da coloro che deplorano il commercio come egoista è sempre lo Stato [che è inerentemente coercitivo, NdM]. In altre parole, per costoro è egoista fare qualcosa per soldi, quindi i ghetti dovrebbero essere ripuliti da "giovani delinquenti" reclutati attraverso un "servizio di riabilitazione". Il che, in altre parole, significa che il lavoro dovrebbe essere svolto da individui la cui alternativa è la galera.
Una seconda obiezione spesso sollevata contro un sistema di proprietà privata è che le risorse possono essere mal distribuite. Un uomo può morire di fame mentre un altro ha più cibo del necessario. Questo è vero, ma si verifica in qualsiasi sistema di distribuzione delle risorse. Chiunque prenda una decisione potrebbe stabilire una cosa che io ritengo sbagliata. Ma certo, si potrebbe istituire un apposito ministero e affidargli il compito di nutrire chi è affamato e vestire chi è nudo: ciò non significa che tutti i bisognosi saranno vestiti e nutriti. A un certo punto qualcuno dovrà decidere a chi andrà o non andrà l'aiuto. L'ingranaggio politico, ministeri e burocrazia, seguono i propri obiettivi, tanto quanto gli uomini d'affari seguono il proprio.
Se la grande maggioranza è d'accordo nel nutrire gli affamati, per l'uomo politico potrebbe essere conveniente perseguire tale obiettivo. Tuttavia, in una circostanza del genere, la politica non è necessaria: un'anima buona darà comunque da mangiare a chi è affamato. Se la grande maggioranza è contraria a nutrire l'affamato, l'anima caritatevole fra la minoranza continuerà a dargli da mangiare --- il politico non lo farà.
Non c'è modo di dare a un uomo politico un potere da usare esclusivamente per fare del bene. Se decide di dar da mangiare a qualcuno, deve negarlo a qualcun altro: il cibo non nasce dal nulla. Si può citare soltanto un'occasione, nel corso della storia moderna in tempo di pace, in cui molte persone sono morte di fame nonostante l'abbondanza di cibo. È successo in un sistema economico nel quale la decisione riguardante chi avesse bisogno di aiuti era in mano al governo. A Stalin spettava decidere quanto cibo fosse necessario agli abitanti dell'Ucraina. Ciò che "eccedeva" veniva requisito dal governo sovietico ed esportato. Nel corso degli anni 1932 e 1933 alcuni milioni di Ucraini sono morti di fame. Durante quei due anni, secondo dati sovietici, l'URSS ha esportato circa un milione e ottocentomila tonnellate di grano. Se supponiamo un numero elevato di affamati --- diciamo 8 milioni --- quel grano avrebbe fornito circa 2000 calorie al giorno a ciascuno di essi.
Tuttavia, c'è qualcosa nell' obiezione socialista alla "non corretta distribuzione delle risorse" capitalista, con cui posso simpatizzare sul piano estetico, ma non in termini economici.
La maggior parte di noi in fondo al cuore è convinta che esista un unico modo di intendere il bene che, idealmente, tutti dovremmo perseguire. In uno Stato socialista ideale, centralmente pianificato, tutti fanno parte di una gerarchia che persegue lo stesso obiettivo. Se tale obiettivo consistesse nel perseguire la "giustizia ideale", quella società sarebbe molto più perfetta di quanto potrebbe mai esserlo una società capitalista, dove ciascuno ha una propria differente ed imperfetta concezione di ciò che è giusto. Dal momento che la maggior parte dei socialisti pensa che un governo socialista sarà gestito da persone molto simili a loro, essi credono che quel governo perseguirà il vero bene --- quello che loro riescono a percepire soltanto in maniera imperfetta. Una soluzione del genere sarebbe sicuramente migliore di un sistema caotico in cui una varietà di persone diverse dai socialisti percepisce una varietà di altre forme di bene, e spreca risorse preziose per perseguirle. Chi sogna una società socialista raramente prende in considerazione la possibilità che altri, con fini diversi da quelli dei socialisti, possano riuscire a imporre le proprie idee, ma piuttosto il contrario. George Orwell è l'unica eccezione che mi viene in mente.
Una terza obiezione sollevata alla proprietà privata è che gli uomini non sono veramente liberi se hanno bisogno di usare la proprietà altrui, ad esempio per stampare le loro opinioni o persino per mangiare e bere. Se per non morire di fame devo fare quello che mi dici tu, una tale concezione dellla libertà potrebbe essere utile per un filosofo della politica, ma non è molto utile per me.
Questa osservazione è abbastanza giusta, ma è ugualmente vera, e molto più rilevante, per qualunque sistema dove vige la proprietà pubblica. È estremamente più probabile che ci sarà un solo proprietario di cibo se lo Stato detiene tutta la proprietà, piuttosto che se la stessa è in mano di una molteplicità di individui: ci sono senz'altro meno governi. Quando è diviso, il potere diminuisce. Se una persona possiede tutto ciò che serve per il mio nutrimento, essa può costringermi a fare qualsiasi cosa. Se il potere viene diviso fra cento uomini, nessuno può costringermi a lavorare troppo per mangiare; se qualcuno ci prova, posso trovare altrove ciò che voglio.
In questo articolo David Friedman discute l'idea socialista di instaurare un sistema che enfatizzi la generosità e l'altruismo al posto dell'egoismo e della logica del profitto. Secondo Friedman questo argomento è fallace poiché, in un sistema capitalista, l'amore e l'altruismo sono già impiegati dove possibile. Quindi la proposta socialista si riduce a sostituire la cooperazione volontaria con la coercizione. Ed agire sotto coercizione mi priva della possibilità stessa di essere altruista o generoso.
3. L'amore non basta
Un'abituale critica mossa alla proprietà privata è che essa sia un sistema immorale, perché basato sull'egoismo. Il che è sbagliato. Comunemente viene definito egoismo un atteggiamento in base al quale una persona pensa solo a se stessa e non si cura del benessere degli altri. L'essere a favore della proprietà privata non significa sostenere tale atteggiamento; significa solamente essere coscienti del fatto che individui differenti hanno fini differenti e li perseguono. Ogni persona è egoista solamente perché accetta e segue la propria percezione della realtà, la propria visione di ciò che è bene.
Un'obiezione simile è sbagliata anche perché pone false alternative. Sotto qualsiasi istituzione, ci sono essenzialmente solo tre metodi per convincere qualcuno ad aiutare gli altri a realizzare i propri obiettivi: l'amore, lo scambio volontario e la forza.
L'amore trasforma il mio obiettivo nel tuo. Chi mi ama vuole che io ottenga ciò che desidero (a meno che non pensi che io non sia in grado di capire ciò che è giusto per me). Quindi mi aiuta volontariamente, disinteressatamente. Ma la parola "amore" è un termine troppo limitato. Tu potresti anche condividere il mio scopo, non tanto perché è il mio scopo, ma perché in un certo senso tu e io abbiamo la stessa percezione di ciò che è bene. Potresti offrirti di lavorare per la mia campagna politica, non per amore, ma perché convinto che la mia elezione possa essere un bene. Naturalmente, potremmo condividere uguali interessi per ragioni totalmente diverse. Io potrei pensare di essere proprio quello di cui il paese ha bisogno, e tu che io sia proprio quello che la nazione "merita".
Il secondo metodo di collaborazione è il commercio. Io acconsento ad aiutare te a realizzare il tuo scopo se tu mi aiuti a realizzare il mio.
Il terzo metodo è la forza. Tu fai ciò che voglio, o ti sparo.
L'amore (o più in generale il condividere uno scopo comune) funziona bene, ma solo per una gamma limitata di problemi. È difficile conoscere tanta gente così bene da amarla. L'amore può essere fonte di cooperazione per questioni complesse fra piccoli gruppi, come la famiglia. Esso funziona anche tra gruppi numerosi, per obiettivi assai semplici --- tanto semplici che individui diversi possono trovarsi completamente d'accordo. Ma per un fine complesso che coinvolge un gran numero di persone -- la produzione di questo libro, ad esempio -- l'amore non potrà funzionare. Non posso pretendere che tutti coloro la cui collaborazione mi è necessaria (compositori, editori, librai, taglialegna, proprietari di cartiere, e mille altri ancora) mi conoscano e mi amino tanto da voler pubblicare questo libro per il mio bene. Tantomeno posso pretendere che tutti siano d'accordo con le mie convinzioni, così da vedere la pubblicazione del libro come un obiettivo in sé. Non posso neanche aspettarmi che siano desiderosi di leggere il libro e, di conseguenza, disposti ad aiutarmi a produrlo. Dovrò servirmi del commercio.
Io spendo tempo ed energia per produrre il manoscritto. Ottengo, in cambio, l'opportunità di diffondere la mia opinione, un po' di soddisfazione per il mio ego, e un po' di soldi. Chi vuole leggere il libro lo compra. In cambio, sborsa denaro. La casa editrice e i suoi dipendenti forniscono tempo, energia e talento necessari per coordinare il tutto; ottengono in cambio denaro e reputazione. I taglialegna, i tipografi e tutti gli altri apportano le loro energie e il proprio talento e in cambio guadagnano soldi. Migliaia di persone, forse milioni, cooperano a un unico scopo, e allo stesso tempo ognuno persegue il proprio obiettivo.
Dunque, in regime di proprietà privata, il primo metodo, l'amore, viene usato laddove è possibile. Altrimenti ci si serve del commercio.
L'accusa alla proprietà privata di essere egoista oppone il secondo metodo al primo. Implica che l'unica alternativa al commercio "egoista" sia l'amore "altruista". Ma, in un regime di proprietà privata, l'amore è già usato dove possibile. A nessuno viene impedito di operare gratuitamente, se lo desidera. Molte persone (genitori che aiutano i propri figli, volontari in ospedale, capi scout) fanno proprio questo. Per ciò che la gente non è disposta a fare gratuitamente, se non è permesso ricorrere al secondo metodo, il commercio, necessariamente si dovrà usare il terzo: la forza. Invece di avere "egoisti" che svolgono un'attività perché lo desiderano, avremo "generosi" che si daranno da fare sotto la minaccia della pistola.
Non è ingiusta questa accusa? L'unica alternativa offerta da coloro che deplorano il commercio come egoista è sempre lo Stato [che è inerentemente coercitivo, NdM]. In altre parole, per costoro è egoista fare qualcosa per soldi, quindi i ghetti dovrebbero essere ripuliti da "giovani delinquenti" reclutati attraverso un "servizio di riabilitazione". Il che, in altre parole, significa che il lavoro dovrebbe essere svolto da individui la cui alternativa è la galera.
Una seconda obiezione spesso sollevata contro un sistema di proprietà privata è che le risorse possono essere mal distribuite. Un uomo può morire di fame mentre un altro ha più cibo del necessario. Questo è vero, ma si verifica in qualsiasi sistema di distribuzione delle risorse. Chiunque prenda una decisione potrebbe stabilire una cosa che io ritengo sbagliata. Ma certo, si potrebbe istituire un apposito ministero e affidargli il compito di nutrire chi è affamato e vestire chi è nudo: ciò non significa che tutti i bisognosi saranno vestiti e nutriti. A un certo punto qualcuno dovrà decidere a chi andrà o non andrà l'aiuto. L'ingranaggio politico, ministeri e burocrazia, seguono i propri obiettivi, tanto quanto gli uomini d'affari seguono il proprio.
Se la grande maggioranza è d'accordo nel nutrire gli affamati, per l'uomo politico potrebbe essere conveniente perseguire tale obiettivo. Tuttavia, in una circostanza del genere, la politica non è necessaria: un'anima buona darà comunque da mangiare a chi è affamato. Se la grande maggioranza è contraria a nutrire l'affamato, l'anima caritatevole fra la minoranza continuerà a dargli da mangiare --- il politico non lo farà.
Non c'è modo di dare a un uomo politico un potere da usare esclusivamente per fare del bene. Se decide di dar da mangiare a qualcuno, deve negarlo a qualcun altro: il cibo non nasce dal nulla. Si può citare soltanto un'occasione, nel corso della storia moderna in tempo di pace, in cui molte persone sono morte di fame nonostante l'abbondanza di cibo. È successo in un sistema economico nel quale la decisione riguardante chi avesse bisogno di aiuti era in mano al governo. A Stalin spettava decidere quanto cibo fosse necessario agli abitanti dell'Ucraina. Ciò che "eccedeva" veniva requisito dal governo sovietico ed esportato. Nel corso degli anni 1932 e 1933 alcuni milioni di Ucraini sono morti di fame. Durante quei due anni, secondo dati sovietici, l'URSS ha esportato circa un milione e ottocentomila tonnellate di grano. Se supponiamo un numero elevato di affamati --- diciamo 8 milioni --- quel grano avrebbe fornito circa 2000 calorie al giorno a ciascuno di essi.
Tuttavia, c'è qualcosa nell' obiezione socialista alla "non corretta distribuzione delle risorse" capitalista, con cui posso simpatizzare sul piano estetico, ma non in termini economici.
La maggior parte di noi in fondo al cuore è convinta che esista un unico modo di intendere il bene che, idealmente, tutti dovremmo perseguire. In uno Stato socialista ideale, centralmente pianificato, tutti fanno parte di una gerarchia che persegue lo stesso obiettivo. Se tale obiettivo consistesse nel perseguire la "giustizia ideale", quella società sarebbe molto più perfetta di quanto potrebbe mai esserlo una società capitalista, dove ciascuno ha una propria differente ed imperfetta concezione di ciò che è giusto. Dal momento che la maggior parte dei socialisti pensa che un governo socialista sarà gestito da persone molto simili a loro, essi credono che quel governo perseguirà il vero bene --- quello che loro riescono a percepire soltanto in maniera imperfetta. Una soluzione del genere sarebbe sicuramente migliore di un sistema caotico in cui una varietà di persone diverse dai socialisti percepisce una varietà di altre forme di bene, e spreca risorse preziose per perseguirle. Chi sogna una società socialista raramente prende in considerazione la possibilità che altri, con fini diversi da quelli dei socialisti, possano riuscire a imporre le proprie idee, ma piuttosto il contrario. George Orwell è l'unica eccezione che mi viene in mente.
Una terza obiezione sollevata alla proprietà privata è che gli uomini non sono veramente liberi se hanno bisogno di usare la proprietà altrui, ad esempio per stampare le loro opinioni o persino per mangiare e bere. Se per non morire di fame devo fare quello che mi dici tu, una tale concezione dellla libertà potrebbe essere utile per un filosofo della politica, ma non è molto utile per me.
Questa osservazione è abbastanza giusta, ma è ugualmente vera, e molto più rilevante, per qualunque sistema dove vige la proprietà pubblica. È estremamente più probabile che ci sarà un solo proprietario di cibo se lo Stato detiene tutta la proprietà, piuttosto che se la stessa è in mano di una molteplicità di individui: ci sono senz'altro meno governi. Quando è diviso, il potere diminuisce. Se una persona possiede tutto ciò che serve per il mio nutrimento, essa può costringermi a fare qualsiasi cosa. Se il potere viene diviso fra cento uomini, nessuno può costringermi a lavorare troppo per mangiare; se qualcuno ci prova, posso trovare altrove ciò che voglio.
mercoledì 16 aprile 2008
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri
Secondo episodio della serie dedicata a Marx e al socialismo. In questo episodio David D. Friedman analizza l'idea marxista che il capitalismo produca una sempre maggiore diseguaglianza (ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri).
5. Il ricco diventa più ricco e il povero diventa più ricco
L'opposizione alle istituzioni della proprietà privata deriva in buona parte dalla credenza popolare circa gli effetti prodotti in passato. Tuttavia, la maggior parte di queste convinzioni non trova riscontro nelle risultanze storiche. Marx era abbastanza scientifico da fare previsioni per il futuro che si sarebbero potute avverare o meno. Purtroppo, i marxisti continuano a credere nelle sue teorie, anche se esse si sono rivelate sbagliate.
Una delle predizioni di Marx era che i ricchi avrebbero accumulato ricchezze sempre maggiori e i poveri si sarebbero sempre più impoveriti, mentre la borghesia sarebbe stata gradualmente eliminata e il ceto dei lavoratori sarebbe caduto in miseria. Nelle società capitaliste, gli eventi verificatisi sono quasi esattamente l'opposto. I poveri si sono arricchiti. La borghesia si è considerevolmente estesa, e ora ne fanno parte diverse professioni che nel passato venivano classificate come appartenenti alla classe operaia. In termini assoluti, anche i capitalisti hanno visto aumentare il proprio benessere, ma sembra che il divario fra i ricchi e i poveri, stando alle imperfette statistiche in nostro possesso, vada lentamente restringendosi.
Molte persone di sinistra dei nostri giorni sostengono che le previsioni di Marx erano abbastanza precise per un capitalismo lassez-faire [non regolamentato, NdM], ma che grazie all'introduzione di politiche riformiste (ad esempio la creazione di forti sindacati, l'emanazione di leggi che hanno fissato uno stipendio minimo e una tassazione del reddito progressiva) si è riusciti a impedire il verificarsi di dette previsioni.
È difficile confutare un'affermazione che riguarda qualcosa che si sarebbe potuta verificare, ma non si è verificata. Comunque, si può notare che sia l'aumento generale del livello di vita, sia la diminuzione delle diseguaglianze sembrano esssersi verificati attraverso un lento e regolare processo, svoltosi durante un lungo arco temporale, in differenti società più o meno capitaliste. La tassazione progressiva del reddito produce entrate molto basse e non provoca quasi nessun effetto sull'accumulazione di ricchezza per mezzo dell'incremento di capitale. Il risultato principale della legislazione sullo stipendio minimo sembra essere che i lavoratori non specializzati, che spesso per il datore di lavoro non valgono una tale retribuzione, vengono privati della possibilità di lavorare. (Questo effetto è verificabile nel drammatico aumento del tasso di disoccupazione giovanile di colore, che segue sempre l'aumento degli stipendi minimi.) Nel capitolo precedente ho sostenuto che la legislazione "di sinistra" tende a colpire i ceti meno abbienti, invece di arrecar loro beneficio, e ad aumentare, anziché ridurre, la diseguaglianza. Se questa è sempre esistita, allora la sua riduzione, di cui siamo stati testimoni negli ultimi tempi, si è verificata non grazie, ma nonostante le misure progressiste.
Un'altra versione della stessa idea marxista è che la Grande depressione sia stata l'ineluttabile esito del capitalismo laissez-faire, dal quale ci siamo salvati grazie alle politiche keynesiane. Questo punto controverso ha dato vita a un'abbondante letteratura, e per alcuni decenni è stato argomento centrale di dibattito fra gli economisti. Chi desidera leggere opinioni "anti-keynesiane" ne può trovare una versione in The Great Contraction di M. Friedman e A. J. Schwartz. Gli autori sostengono che la Grande depressione sia stata causata non dal liberismo ma dall'intervento del governo nell'attività bancaria e che senza tale intervento non si sarebbe verificata.
Oggi sono in pochi a credere che il capitalismo conduca inesorabilmente all'impoverimento delle masse; esistono prove troppo evidenti che le cose non stanno così. Ma la diseguaglianza è una questione molto più ardua da giudicare, e molti temono che il capitalismo, abbandonato a se stesso, possa produrre una crescente disparità di redditi. Perché? Un'opinione del genere si basa, essenzialmente, sul fatto che il ricco capitalista investe i suoi capitali per incrementarli sempre più. I suoi figli ereditano la fortuna e il processo continua; di conseguenza i capitalisti diventano sempre più ricchi. Essi devono in qualche modo attingere il loro alto reddito dai lavoratori che "veramente producono" i beni consumati dai ricchi, e che pertanto si impoveriscono sempre più. Questa idea sembra implicare che i lavoratori diventino più poveri in senso assoluto, ma chi la sostiene crede, di solito, che il progresso economico, in generale, renda tutti più ricchi, e che perciò l'impoverimento sia solo relativo.
Affermare che il capitalista accresce il suo reddito a spese dei lavoratori vuol dire ignorare il fatto che il capitale è in sé un qualcosa di produttivo (vedi Capitolo 8). L'incremento di produttività risultante dall'accumulo di capitale è una delle ragioni del generale progresso economico.
Anche se il capitalista dovesse investire tutto il reddito proveniente dal suo capitale senza consumarne nulla, la sua riccchezza crescerebbe solo al tasso di rendita del capitale -- ovvero al tasso di interesse generato. Se quest'ultimo fosse minore del tasso d'aumento degli stipendi dei lavoratori, la ricchezza relativa dei capitalisti si ridurrebbe. Nel corso degli anni gli stipendi sono aumentati dal 5 al 10 per cento annuo, il che è approssimativamente comparabile al tasso di interesse generato dal capitale degli imprenditori. Inoltre, i capitalisti consumano parte del loro reddito; se non fosse così, non avrebbe senso essere capitalisti. Negli USA, l'ammontare globale del reddito nazionale che viene trasformato in capitale va progressivamente diminuendo.
Naturalmente, un capitalista di successo guadagna molto di più del normale tasso di interesse generato dal capitale --- è questo il modo in cui accumula la sua fortuna. Inoltre, se proviene da una famiglia con un reddito molto più basso, potrebbe essere incapace di consumare una porzione significativa del suo guadagno. Ma i suoi figli sono una cosa ben diversa; non hanno nessun particolare talento nell'accumulare ricchezza, ma sanno molto bene come spenderla. Lo stesso vale per i figli dei loro figli. I Rockefeller rappresentano un interessante esempio di declino di una grande dinastia. Il suo fondatore, John D. Rockefeller, era un uomo d'affari estremamente abile. I suoi figli erano filantropi. I suoi nipoti sono dei politici. [...]
Marx aveva non solo previsto la crescente rovina delle classi lavoratrici, ma aveva anche sostenuto che quella rovina si stava già verificando. Come molti suoi contemporanei, era convinto che il diffondersi delle istituzioni capitaliste e dei metodi di produzione industriale avrebbe causato, all'inizio del diciannovesimo secolo, una miseria diffusa. Questa opinione, ancora comune, è basata su una discutibile interpretazione storica e su una logica ancora più dubbia.
Per molti è sufficiente aver conosciuto, tramite la lettura, i lunghi orari di lavoro e i bassi salari dell'Inghilterra e dell'America dell'Ottocento, per pensare di avere già prove suffficienti contro il capitalismo e l'industrializzazione. Costoro dimenticano che queste condizioni ci appaiono intollerabili solo perché viviamo in una società enormemente più ricca, e che la nostra società è diventata così produttiva grazie al progresso economico dell'Ottocento, verificatosi in un capitalismo laissez-faire relativamente libero da controlli.
Stanti le condizioni economiche del diciannovesimo secolo, nessuna istituzione, socialista, capitalista o anarco-capitalista, avrebbe potuto produrre rapidamente quello che possiamo considerare un livello di benessere decente. La ricchezza, semplicemente, non c'era. Se un socialista avesse confiscato il reddito di tutti i miliardari capitalisti, per darlo ai lavoratori, questi ultimi non avrebbero visto migliorare di molto la propria condizione. I miliardari guadagnavano molto più dei lavoratori, ma questi ultimi erano in numero di gran lunga superiore.
È stato necessario un lungo periodo di progresso per veder realizzata una società abbastanza ricca da considerare miserrime le condizioni di vita nell'Ottocento.
Persone con vedute un po' più ampie pensano che il modo in cui viveva la gente durante la Rivoluzione industriale, soprattutto in Inghilterra, sia da condannare, non in relazione al nostro attuale benessere, ma se comparato al modo di vivere precedente l'industrializzazione stessa. Questa era la convinzione di tanti scrittori di quel periodo. Purtroppo, pochi di loro conoscevano abbastanza approfonditamente la vita dell'Inghilterra del secolo precedente; il loro atteggiamento può essere esemplificato dall'idilliaca descrizione fatta da Engels della classe lavoratrice inglese del Settecento:
L'evidenza storica che a noi risulta, benché imperfetta, sembra indicare che durante il diciannovesimo secolo la condizione dei lavoratori sia migliorata rispetto al diciottesimo: è caduto il tasso di mortalità; è aumentato il risparmio; è aumentato il consumo, da parte dei lavoratori, di prodotti di "lusso" tipo tè e zucchero; sono diminuite le ore di lavoro. Chi è interessato a un approfondimento di questa realtà storica può leggere The Industrial Revolution di T. S. Ashton, o Capitalism and the Historians curato da F. A. Hayek.
Durante la Rivoluzione industriale, buona parte dell'opposizione proveniva dai conservatori --- proprietari terrieri e piccola nobiltà --- che si opponevano al progresso. Essi protestavano perché il lusso e l'indipendenza corrompevano le classi lavoratrici. È una curiosa ironia che col passar del tempo questi gentlemen siano diventati gli alleati intellettuali (spesso direttamente citati come autorità in materia) della sinistra moderna e dei socialisti, che attaccano il capitalismo del diciannovesimo secolo per ragioni molto diverse. La moderna persona di sinistra sostiene che è grazie alla legislazione introdotta dallo Stato se si è ridotto il numero delle ore lavorative, si è proibito il lavoro minorile, si è imposto un regolamento sulla sicurezza, e che è grazie alla violazione dei principi del liberismo che si è raggiunto il progresso. Ma l'evidenza dei fatti indica che la legislazione ha costantemente seguìto il progresso, non lo ha preceduto. Solo quando la maggior parte dei lavoratori già lavorava un massimo di dieci ore al giorno è diventato politicamente possibile pensare a una legislazione che imponesse un tale traguardo.
5. Il ricco diventa più ricco e il povero diventa più ricco
... di pari passo con l'incremento della meccanizzazione e la divisione del lavoro, cresce il peso della fatica dovuto al prolungarsi delle ore lavorative, all'aumento del lavoro richiesto, al più veloce funzionamento delle macchine, etc .
... Gli strati inferiori della borghesia .,. sprofonderanno poco a poco nel proletariato ... poiché la meccanizzazione ... riduce quasi ovunque i salari allo stesso basso livello .
... Il lavoratore moderno, paradossalmente, invece di veder migliorata la propria condizione con il progresso apportato dall'industrializzazione, sprofonda sempre più al di sotto delle condizioni di vita della sua stessa classe.Marx-Engels, Il Manifesto Comunista
L'opposizione alle istituzioni della proprietà privata deriva in buona parte dalla credenza popolare circa gli effetti prodotti in passato. Tuttavia, la maggior parte di queste convinzioni non trova riscontro nelle risultanze storiche. Marx era abbastanza scientifico da fare previsioni per il futuro che si sarebbero potute avverare o meno. Purtroppo, i marxisti continuano a credere nelle sue teorie, anche se esse si sono rivelate sbagliate.
Una delle predizioni di Marx era che i ricchi avrebbero accumulato ricchezze sempre maggiori e i poveri si sarebbero sempre più impoveriti, mentre la borghesia sarebbe stata gradualmente eliminata e il ceto dei lavoratori sarebbe caduto in miseria. Nelle società capitaliste, gli eventi verificatisi sono quasi esattamente l'opposto. I poveri si sono arricchiti. La borghesia si è considerevolmente estesa, e ora ne fanno parte diverse professioni che nel passato venivano classificate come appartenenti alla classe operaia. In termini assoluti, anche i capitalisti hanno visto aumentare il proprio benessere, ma sembra che il divario fra i ricchi e i poveri, stando alle imperfette statistiche in nostro possesso, vada lentamente restringendosi.
Molte persone di sinistra dei nostri giorni sostengono che le previsioni di Marx erano abbastanza precise per un capitalismo lassez-faire [non regolamentato, NdM], ma che grazie all'introduzione di politiche riformiste (ad esempio la creazione di forti sindacati, l'emanazione di leggi che hanno fissato uno stipendio minimo e una tassazione del reddito progressiva) si è riusciti a impedire il verificarsi di dette previsioni.
È difficile confutare un'affermazione che riguarda qualcosa che si sarebbe potuta verificare, ma non si è verificata. Comunque, si può notare che sia l'aumento generale del livello di vita, sia la diminuzione delle diseguaglianze sembrano esssersi verificati attraverso un lento e regolare processo, svoltosi durante un lungo arco temporale, in differenti società più o meno capitaliste. La tassazione progressiva del reddito produce entrate molto basse e non provoca quasi nessun effetto sull'accumulazione di ricchezza per mezzo dell'incremento di capitale. Il risultato principale della legislazione sullo stipendio minimo sembra essere che i lavoratori non specializzati, che spesso per il datore di lavoro non valgono una tale retribuzione, vengono privati della possibilità di lavorare. (Questo effetto è verificabile nel drammatico aumento del tasso di disoccupazione giovanile di colore, che segue sempre l'aumento degli stipendi minimi.) Nel capitolo precedente ho sostenuto che la legislazione "di sinistra" tende a colpire i ceti meno abbienti, invece di arrecar loro beneficio, e ad aumentare, anziché ridurre, la diseguaglianza. Se questa è sempre esistita, allora la sua riduzione, di cui siamo stati testimoni negli ultimi tempi, si è verificata non grazie, ma nonostante le misure progressiste.
Un'altra versione della stessa idea marxista è che la Grande depressione sia stata l'ineluttabile esito del capitalismo laissez-faire, dal quale ci siamo salvati grazie alle politiche keynesiane. Questo punto controverso ha dato vita a un'abbondante letteratura, e per alcuni decenni è stato argomento centrale di dibattito fra gli economisti. Chi desidera leggere opinioni "anti-keynesiane" ne può trovare una versione in The Great Contraction di M. Friedman e A. J. Schwartz. Gli autori sostengono che la Grande depressione sia stata causata non dal liberismo ma dall'intervento del governo nell'attività bancaria e che senza tale intervento non si sarebbe verificata.
Oggi sono in pochi a credere che il capitalismo conduca inesorabilmente all'impoverimento delle masse; esistono prove troppo evidenti che le cose non stanno così. Ma la diseguaglianza è una questione molto più ardua da giudicare, e molti temono che il capitalismo, abbandonato a se stesso, possa produrre una crescente disparità di redditi. Perché? Un'opinione del genere si basa, essenzialmente, sul fatto che il ricco capitalista investe i suoi capitali per incrementarli sempre più. I suoi figli ereditano la fortuna e il processo continua; di conseguenza i capitalisti diventano sempre più ricchi. Essi devono in qualche modo attingere il loro alto reddito dai lavoratori che "veramente producono" i beni consumati dai ricchi, e che pertanto si impoveriscono sempre più. Questa idea sembra implicare che i lavoratori diventino più poveri in senso assoluto, ma chi la sostiene crede, di solito, che il progresso economico, in generale, renda tutti più ricchi, e che perciò l'impoverimento sia solo relativo.
Affermare che il capitalista accresce il suo reddito a spese dei lavoratori vuol dire ignorare il fatto che il capitale è in sé un qualcosa di produttivo (vedi Capitolo 8). L'incremento di produttività risultante dall'accumulo di capitale è una delle ragioni del generale progresso economico.
Anche se il capitalista dovesse investire tutto il reddito proveniente dal suo capitale senza consumarne nulla, la sua riccchezza crescerebbe solo al tasso di rendita del capitale -- ovvero al tasso di interesse generato. Se quest'ultimo fosse minore del tasso d'aumento degli stipendi dei lavoratori, la ricchezza relativa dei capitalisti si ridurrebbe. Nel corso degli anni gli stipendi sono aumentati dal 5 al 10 per cento annuo, il che è approssimativamente comparabile al tasso di interesse generato dal capitale degli imprenditori. Inoltre, i capitalisti consumano parte del loro reddito; se non fosse così, non avrebbe senso essere capitalisti. Negli USA, l'ammontare globale del reddito nazionale che viene trasformato in capitale va progressivamente diminuendo.
Naturalmente, un capitalista di successo guadagna molto di più del normale tasso di interesse generato dal capitale --- è questo il modo in cui accumula la sua fortuna. Inoltre, se proviene da una famiglia con un reddito molto più basso, potrebbe essere incapace di consumare una porzione significativa del suo guadagno. Ma i suoi figli sono una cosa ben diversa; non hanno nessun particolare talento nell'accumulare ricchezza, ma sanno molto bene come spenderla. Lo stesso vale per i figli dei loro figli. I Rockefeller rappresentano un interessante esempio di declino di una grande dinastia. Il suo fondatore, John D. Rockefeller, era un uomo d'affari estremamente abile. I suoi figli erano filantropi. I suoi nipoti sono dei politici. [...]
Marx aveva non solo previsto la crescente rovina delle classi lavoratrici, ma aveva anche sostenuto che quella rovina si stava già verificando. Come molti suoi contemporanei, era convinto che il diffondersi delle istituzioni capitaliste e dei metodi di produzione industriale avrebbe causato, all'inizio del diciannovesimo secolo, una miseria diffusa. Questa opinione, ancora comune, è basata su una discutibile interpretazione storica e su una logica ancora più dubbia.
Per molti è sufficiente aver conosciuto, tramite la lettura, i lunghi orari di lavoro e i bassi salari dell'Inghilterra e dell'America dell'Ottocento, per pensare di avere già prove suffficienti contro il capitalismo e l'industrializzazione. Costoro dimenticano che queste condizioni ci appaiono intollerabili solo perché viviamo in una società enormemente più ricca, e che la nostra società è diventata così produttiva grazie al progresso economico dell'Ottocento, verificatosi in un capitalismo laissez-faire relativamente libero da controlli.
Stanti le condizioni economiche del diciannovesimo secolo, nessuna istituzione, socialista, capitalista o anarco-capitalista, avrebbe potuto produrre rapidamente quello che possiamo considerare un livello di benessere decente. La ricchezza, semplicemente, non c'era. Se un socialista avesse confiscato il reddito di tutti i miliardari capitalisti, per darlo ai lavoratori, questi ultimi non avrebbero visto migliorare di molto la propria condizione. I miliardari guadagnavano molto più dei lavoratori, ma questi ultimi erano in numero di gran lunga superiore.
È stato necessario un lungo periodo di progresso per veder realizzata una società abbastanza ricca da considerare miserrime le condizioni di vita nell'Ottocento.
Persone con vedute un po' più ampie pensano che il modo in cui viveva la gente durante la Rivoluzione industriale, soprattutto in Inghilterra, sia da condannare, non in relazione al nostro attuale benessere, ma se comparato al modo di vivere precedente l'industrializzazione stessa. Questa era la convinzione di tanti scrittori di quel periodo. Purtroppo, pochi di loro conoscevano abbastanza approfonditamente la vita dell'Inghilterra del secolo precedente; il loro atteggiamento può essere esemplificato dall'idilliaca descrizione fatta da Engels della classe lavoratrice inglese del Settecento:
Non avevano bisogno di lavorare troppo; facevano non più di ciò che volevano fare, e tuttavia guadagnavano quello di cui avevano bisogno. Avevano tempo libero per lavori sani nel giardino o nel campo, che di per sé erano una distensione ... Erano persone "perbene'; bravi mariti e padri, conducevano vite oneste perché non c'era la tentazione di comportarsi in modo disonesto, non c'era nessuna taverna o bordello nelle loro vicinanze, e il proprietario dell'osteria, dove soddisfacevano la loro sete, era anche lui un uomo perbene, di solito un fittavolo locale, orgoglioso del buon ordine, della buona birra, e di andare a dormire presto. I loro bambini stavano a casa tutto il giorno, ed erano allevati nelll'ubbidienza e nel timor di Dio. I giovani crescevano in semplicità e familiarità idilliache con i propri compagni di gioco, fino al momento di sposarsi.
L'evidenza storica che a noi risulta, benché imperfetta, sembra indicare che durante il diciannovesimo secolo la condizione dei lavoratori sia migliorata rispetto al diciottesimo: è caduto il tasso di mortalità; è aumentato il risparmio; è aumentato il consumo, da parte dei lavoratori, di prodotti di "lusso" tipo tè e zucchero; sono diminuite le ore di lavoro. Chi è interessato a un approfondimento di questa realtà storica può leggere The Industrial Revolution di T. S. Ashton, o Capitalism and the Historians curato da F. A. Hayek.
Durante la Rivoluzione industriale, buona parte dell'opposizione proveniva dai conservatori --- proprietari terrieri e piccola nobiltà --- che si opponevano al progresso. Essi protestavano perché il lusso e l'indipendenza corrompevano le classi lavoratrici. È una curiosa ironia che col passar del tempo questi gentlemen siano diventati gli alleati intellettuali (spesso direttamente citati come autorità in materia) della sinistra moderna e dei socialisti, che attaccano il capitalismo del diciannovesimo secolo per ragioni molto diverse. La moderna persona di sinistra sostiene che è grazie alla legislazione introdotta dallo Stato se si è ridotto il numero delle ore lavorative, si è proibito il lavoro minorile, si è imposto un regolamento sulla sicurezza, e che è grazie alla violazione dei principi del liberismo che si è raggiunto il progresso. Ma l'evidenza dei fatti indica che la legislazione ha costantemente seguìto il progresso, non lo ha preceduto. Solo quando la maggior parte dei lavoratori già lavorava un massimo di dieci ore al giorno è diventato politicamente possibile pensare a una legislazione che imponesse un tale traguardo.
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