Visualizzazione post con etichetta Richard Dawkins. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Richard Dawkins. Mostra tutti i post

venerdì 27 giugno 2008

Postulare un essere intelligente è una spiegazione?


Che cosa è una buona spiegazione per un fenomeno? Dipende dal contesto, da cosa sei disposto ad assumere. A volte una buona spiegazione per un fenomeno è quella che lo spiega in termini di intenzioni di esseri intelligenti. Ad esempio, l'economia è una scienza che spiega alcuni fenomeni (come l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, la disoccupazione) in termini dell'azione intenzionale di esseri umani; essa per scontato l'esistenza di esseri umani dotati di certe caratteristiche (come obiettivi, preferenza temporale, tendenza all'egoismo, avversione al rischio, utilità marginale decrescente, ecc.). Dà per scontato l'esistenza di intenzioni e spiega tutto il resto in termini di queste ultime. Perché questa è una buona spiegazione? Perché riduce un fenomeno complesso ad un fenomeno più semplice; così semplice che siamo disposti, in quel contesto, a darlo per scontato. Ad esempio, se spieghi che le leggi sul minimo salariale aumentano la disoccupazione, assumendo come ipotesi soltanto uomini razionali che seguono i propri obiettivi, quella è decisamente una buona spiegazione. Hai ridotto il fenomeno del salario a un fenomeno (il comportamento umano) che siamo disposti a dare per scontato, perché sappiamo bene che gli uomini si comportano tendenzialmente in un certo modo e non un altro. E' questo il motivo per cui le spiegazioni offerte dagli economisti sono buone spiegazioni (quando i comportamenti umani che postulano sono realistici).

Un altro esempio di buona spiegazione è quella che spiega l'esistenza di un orologio postulando l'esistenza di un orologiaio: un artefice intelligente, dotato di mente, che aveva l'intenzione di costruire l'orologio in quel modo, e che aveva progettato l'orologio, cioè anticipato nella propria mente le sue caratteristiche. Questa è una buona spiegazione perché, in questo contesto, siamo disposti a dare per scontato l'esistenza di un orologiaio dotato di mente, intenzioni, capacità di previsione.

Ma se il fenomeno da spiegare è proprio l'esistenza di esseri umani dotati di mente ed intenzioni, è chiaro che questo tipo di spiegazione non è più accettabile. In questo contesto non siamo più disposti a postulare l'esistenza di esseri con intenzioni e intelligenza. Se lo facessimo, il nostro ragionamento sarebbe circolare. (O quantomeno lo sarebbe se il livello di intelligenza e complessità dell'essere che postuliamo fosse pari a quello dell'essere che cerchiamo di spiegare.) E' chiaro quindi che in linea di principio l'unica spiegazione accettabile per l'esistenza di oggetti complicati, intelligenti, e dotati di intenzioni, come gli umani, è quella che li spiega in termini di oggetti meno intelligenti, meno dotati di intenzioni, arrivando alla fine ad oggetti privi di intelligenza e di intenzioni. (Abbiamo già visto che ogni buona teoria della mente deve spiegare l'intelligenza in termini di interazione tra automi meccanici privi di intelligenza.) Alla fine bisogna far vedere come un oggetto complesso può essere prodotto da meccanismi semplici, non dotati di mente, né di intenzioni, né di capacità di prevedere il futuro, o altre caratteristiche mentalistiche; meccanismi come ad esempio le leggi della fisica. Solo questa sarebbe una buona spiegazione per l'esistenza degli esseri umani. Al contrario, qualunque approccio di tipo "orologiaio", che spieghi la nostra esistenza in termini di un "creatore intelligente", è già in partenza una spiegazione cattiva. (Il che non significa che sia falsa; molta gente non capisce la differenza.) E' cattiva perché non soddisfa la condizione di base di una buona spiegazione: ridurre un fenomeno complesso ad un altro più semplice, così semplice che in quel contesto siamo disposti a darlo per scontato. (riduzionismo gerarchico.)

Un altro modo di dire la stessa cosa è che una cattiva spiegazione postula l'esistenza di cose troppo complesse per essere nate per caso. Cioè, assume cose troppo improbabili. Ad esempio, se l'economia spiegasse l'aumento della disoccupazione in termini di una combutta tra i lavoratori per confondere gli economisti, questa sarebbe una cattiva spiegazione, perché la probabilità che avvenga una simile cospirazione tra milioni di persone è troppo piccola (dato il resto di ciò che sappiamo sul mondo e la natura umana).

Riporto su questo argomento un brano di Dawkins, tratto da l'Orologiaio Cieco, che a suo tempo avevo saltato.
Un altro tipo di problema è in che modo quella cosa complicata abbia avuto origine. E' questo il problema alla cui soluzione è dedicato l'intero libro, cosicché non è il caso che io mi dilunghi su questo adesso. ... [Ricordo solo che definisco] una cosa "complicata" come una cosa così "improbabile" che non ci sentiamo inclini a darne per scontata l'esistenza. Essa non avrebbe potuto venire all'esistenza in conseguenza di un singolo evento causale. Noi spiegheremo il suo venire all'essere come una conseguenza di trasformazioni graduali, cumulative, passo-passo, a partire da cose più semplici, da oggetti primordiali abbastanza semplici da poter aver avuto origine per caso. Esattamente come il "riduzionismo a grandi passi" non è una buona spiegazione per un meccanismo, e dev'essere quindi sostituito da una serie di piccoli passi graduali da un livello all'altro di una gerarchia [di spiegazioni], così non possiamo spiegare una cosa complessa come se avesse avuto origine in un singolo passo. Dobbiamo di nuovo far ricorso a una serie di piccoli passi, questa volta disposti in sequenza nel tempo.

Nel suo libro, scritto splendidamente, "La creazione", il chimico e fisico di Oxford Peter Atkins [...] sostiene che l'evoluzione di cose complesse sia inevitabile una volta che si siano affermate le condizioni fisiche appropriate. Egli si chiede quali siano le minime condizioni fisiche necessarie, quale sia la quantità minima di lavoro che un Creatore pigro dovrebbe fare per essere certo che l'universo, e in seguito elefanti e altre cose complesse, venissero un giorno all'esistenza. La risposta, dal punto di vista dello scienziato fisico, è che il Creatore in questione potrebbe essere infinitamente pigro. Le unità fondamentali originarie che abbiamo bisogno di postulare per comprendere il venire all'esistenza di qualcosa, o consistono letteralmente in nulla (secondo alcuni fisici) o (secondo altri fisici) sono unità di una semplicità estrema, troppo semplici per aver bisogno di qualcosa come una Creazione deliberata.


Commenti?

giovedì 24 gennaio 2008

Dawkins: non uccidete Bush



Richard Dawkins (tratto da un articolo più lungo, di qualche anno fa):
Ora che tutte le giustificazioni per la guerra [in Iraq] si sono rivelate menzogne, i guerrafondai si rifugiano in un'ultima giustificazione, ripetuta ossessivamente: il mondo è un posto migliore senza Saddam. Senza dubbio lo è. [..] Ma non è così che si comportano i Paesi civili, che seguono lo stato di diritto. Il mondo potrebbe essere migliore senza George Bush, ma questo non è una giustificazione per assassinarlo. Il modo giusto di liberarsi di questo armaiolo autocompiaciuto è mediante il voto.

venerdì 28 dicembre 2007

Dawkins: "quale Dio sei?"


E se un giorno moriste e vi accorgeste che, dopo tutto, Dio esiste?

Questa prospettiva ha portato alcuni, come Pascal, a concludere che conviene credere in Dio piuttosto che non credere. Infatti, se Dio non esiste, poco male: credendo non hai perso niente rispetto al non credente. Se invece Dio esiste, hai soltanto da guadagnare: il non credente brucerà all'inferno mentre tu hai qualche probabilità di non bruciare. Quindi, economicamente parlando, credere in Dio sarebbe la cosa giusta da fare.

L'argomento di Pascal, naturalmente, è sbagliato per molti motivi. Prima di tutto, l'argomento assume che si possa credere qualcosa a comando, semplicemente perché conviene. Secondo, l'argomento assume che Dio apprezzi chi crede in lui. Perché mai Dio dovrebbe dar valore all'atto di credere in lui, piuttosto che, diciamo, all'atto di fare 100 flessioni al giorno su un braccio solo? Con la logica di Pascal, potremmo anche dire che conviene fare 100 flessioni al giorno perché, se Dio non esiste, non hai perso niente, ma se Dio esiste (e gli piacciono i pettorali tonici) hai soltanto da guadagnare.

Terzo, Pascal assume che credere in Dio non abbia conseguenze negative sul mondo (non è così, vedi qui). Quarto, assume che il Dio "giusto" in cui credere sia quello cristiano. Cioè, assume che le uniche due alternative siano "Non esiste alcun dio" ed "Esiste il dio cristiano". E perché non Allah, o il Dio-Lucertola samoano?

Supponiamo che Dio esista. Salite al cielo e vi trovate davanti a Dio, che vi fissa, con le braccia incrociate e lo sguardo torvo, e una vena gonfia sulla fronte. Che cosa fate? Che cosa dite? La domanda è stata posta a Richard Dawkins, che ha risposto così:
Prima di tutto gli chiederei: quale Dio sei? Sei Zeus, Thor, Apollo, Baal?

E subito dopo gli chiederei perché abbia nascosto la sua presenza in un modo così meticoloso. Hai deliberatamente deciso di far sembrare che tu non esistessi?

E la terza cosa che chiederei sarebbe ogni sorta di domande sulla scienza. Perché se esistesse un Dio, egli avrebbe molte risposte affascinanti a queste domande affascinanti e misteriose, e tutto il tempo per rispondere.

sabato 15 dicembre 2007

I quattro moschettieri


Cosa c'è di meglio che svegliarsi un sabato mattina e trovare, seduti a un tavolo sorseggiando cocktail, Richard Dawkins, Sam Harris, Daniel Dennett e Christopher Hitchens che discutono di religione? Il video, in inglese, è qui.

Ed ora mi verso anch'io un bicchiere di whisky, anche se sono le 9.35 di mattina, e mi metto ad ascoltare.

venerdì 9 novembre 2007

Basta parlare di laicità

Da un po' di tempo divento idrofobo quando sento un politico usare la parola "laicità". Laicità è una parola che non dovrebbe neppure esistere.

"Laicità dello Stato" significa "separazione tra leggi dello Stato e credenze religiose". Uno stato "laico" è uno stato le cui leggi non sono fondate su credenze religiose. Ma cosa sono le credenze religiose? Sono semplicemente credenze prive di evidenza che riguardano un essere soprannaturale. E perché mai dovremmo distinguerle da altre credenze prive di evidenza? Perché distinguere le credenze religiose prive di evidenza dalle credenze, ad esempio, economiche prive di evidenza? O da quelle negli oroscopi?

Ciò che conta non è se una credenza è religiosa o meno, ma se è supportata da evidenza. Ed in che misura è supportata da evidenza. Cioè, che grado di probabilità ha di essere vera. Quando dici che Gesù è resuscitato dalla morte, sei dogmatico tanto quanto chi dice che una guerra può aiutare l'economia di un Paese. Perché le due affermazioni prive di evidenza dovrebbero contare in modo diverso per lo Stato?

Quindi perché usare la parola "laicità"? Basta la parola "evidenza". Basta dire che le leggi dello Stato non possono essere fondate su proposizioni non supportate da buona evidenza. Basta dire che lo Stato è razionale, se volete. Che è contro la follia.

Se invece usi la parola laicità, vuol dire che stai discriminando tra alcune credenze prive di evidenza ed altre credenze ugualmente prive di evidenza. Perché dovresti farlo?

( Si potrebbe rispondere che la distinzione è giustificata dal fatto che le credenze religiose non sono supportate da alcuna evidenza, cioè sono "dogma puro", mentre le altre credenze sono sempre supportate da un minimo di evidenza. Ma non è vero. Anche le credenze religiose sono fondate su un minimo di evidenza. Per esempio, alcuni credenti percepiscono le sacre scritture come evidenza. Quindi il punto non è che nella religione non c'è evidenza: è che l'evidenza è cattiva. Quindi non è vero che c'è un gap intrinseco ed incolmabile tra le credenze religiose e le altre. Non sono intrinsecamente diverse dalle altre. Per usare le parole di Richard Dawkins, "le credenze religiose sono vere e proprie ipotesi scientifiche. Esse possono essere vere o false, come tutte le altre. E come tutte le altre sono soggette al metodo scientifico di indagine". Ad esempio, le seguenti sono tutte ipotesi scientifiche: "Cristo è nato da una vergine" ; "Cristo è risorto dalla morte" ; "Maometto ha incontrato l'angelo gabriele in una caverna"; "Esiste una vita dopo la morte" ; "Gli uomini sono stati progettati da una mente intelligente". Sono tutte ipotesi scientifiche. I metodi che useremmo per validare o confutare queste affermazioni sono i metodi della scienza. Anzi, la scienza ha già dato risposta negativa a due delle domande di cui sopra: non esiste una coscienza dopo la morte, e non esiste un essere intelligente che ha progettato gli esseri viventi. )

Magari qualcuno troverà un buon motivo per continuare a usarla, ma resta il fatto che la parola "laicità" è fuorviante e causa divisioni tra le persone. Divisioni che potrebbero essere evitate.

E' fuorviante perché distoglie l'attenzione dalla questione importante (cioè se la credenza è supportata da evidenza o meno) e concentra l'attenzione su quella meno importante (cioè se la credenza è religiosa o meno). A tutt'oggi molti hanno difficoltà a capire la differenza tra credenze scientifiche e religiose. Pensano che le credenze siano tutte sullo stesso piano, perché "tanto non puoi dimostrare che siano false". Non capiscono che la differenza è che quelle scientifiche si fondano su evidenza, quelle religiose no, o addirittura sono contrarie all'evidenza. E quindi le due credenze hanno un diverso grado di probabilità di essere vere. Smettere di parlare di laicità e cominciare a parlare di evidenza aiuterebbe molto.

E' causa di divisioni perché, se tu parli di laicità, crei automaticamente una contrapposizione tra laici e non laici, contrapposizione che non creeresti se parlassi semplicemente di ragione ed evidenza, perché quasi nessuno ritiene di essere nemico della ragione e dell'evidenza.

Ed è inutile perché, ripeto, basta dire "evidenza".

sabato 27 ottobre 2007

Perché l'evoluzione non può fare salti


Questo post è il sesto di una serie, iniziata su "Novissimo blog", dedicata alla teoria dell'evoluzione e al libro di Richard Dawkins "L'orologiaio cieco". (Episodi precedenti: 1. Perchè Dio non esiste; 2. Perché l'evoluzione non è casuale; 3. Come si evolve un organo complesso; 4. Il paradosso del mimetismo; 5. Progettazione non intelligente.)



Oggi ci soffermiamo sulla gradualità dell'evoluzione. La gradualità è una condizione assolutamente essenziale nella teoria dell'evoluzione. La teoria dell'evoluzione afferma che gli individui si evolvono gradualmente, cioè con una sequenza di mutazioni ciascuna delle quali è piccolissima. I "grandi salti" non possono mai giocare un ruolo importante nell'evoluzione di una specie. Perché? La ragione è che, secondo la teoria dell'evoluzione, le mutazioni sono del tutto casuali. Non c'è una "mente superiore" che le decide. Sono frutto del caso. E questo implica che non possono essere grandi. Infatti, che cosa succederebbe se ci fosse una mutazione casuale molto grande? Se applichiamo una mutazione casuale molto grande ad un organismo, la probabilità che l'organismo risultante sia ancora capace di sopravvivere è molto piccola. Quindi l'individuo morirebbe senza lasciare discendenti. In generale, più una mutazione casuale è grande, minore è la probabilità che produca un miglioramento nella capacità di sopravvivenza dell'organismo.

La parola a Dawkins.


Perché l'evoluzione deve essere graduale

Macromutazioni -- mutazioni che esercitano grandi effetti -- esistono senza dubbio. Quello che è in discussione non è se esistano, ma se svolgano un ruolo nell' evoluzione; se, in altri termini, vengano incluse nel pool genico di una specie o se, al contrario, vengano invariabilmente eliminate dalla selezione naturale. Un famoso esempio di macromutazione è l' «antennapedia» nella Drosophila. In un individuo normale le antenne hanno qualcosa in comune con le zampe, e si sviluppano nell'embrione in modo simile. Ma anche le differenze sono molto vistose e i due tipi di appendici vengono usati per fini molto diversi: le zampe per camminare, le antenne per la percezione tattile, per l'olfatto e per altri compiti connessi alla percezione. Le drosofile affette da antennapedia sono capricci della natura in cui le antenne si sviluppano esattamente come le zampe. O, per esprimerci in modo diverso, sono drosofile che, in luogo delle antenne, hanno un paio di zampe extra, cresciute nella stessa posizione in cui dovrebbero trovarsi le antenne. Questa è una vera mutazione, risultando da un errore nella copiatura del DNA, e si trasmette alla prole se le drosofile affette da questa malformazione vengono curate nell'ambiente protetto del laboratorio in modo da soopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi. In natura esse non sopravviverebbero molto a lungo, poiché i loro movimenti sono goffi e i loro sensi vitali menomati.

Le macromutazioni, quindi, si verificano veramente. Ma svolgono un ruolo nell'evoluzione?

[Le teorie che dicono che le macromutazioni svolgono un ruolo rilevante si chiamano "saltazionistiche".]

[...]

Ci sono ottime ragioni per rifiutare tutte le teorie saltazionistiche dell'evoluzione. Una ragione piuttosto banale è che, se una nuova specie potesse avere veramente origine da una singola mutazione, i membri della nuova specie potrebbero avere difficoltà a trovare i propri partner sessuali. Io considero però questa ragione meno efficace e interessante delle altre due [..]. La prima di queste ragioni fu esposta dal grande statistico e biologo R.A. Fisher, che abbiamo incontrato in capitoli precedenti in altri contesti. Fisher fu un deciso oppositore di ogni forma di macroevoluzione [...] e usò la seguente analogia. Pensiamo, egli scrisse, a un microscopio che sia quasi, ma non del tutto, perfettamente a fuoco e altrimenti ben regolato per una visione nitida. Quali probabilità ci sono che, apportando allo stato del microscopio qualche mutamento a caso (corrispondente a una mutazione), miglioriamo la messa a fuoco e la qualità generale dell immagine? Fisher scrisse:

È abbastanza ovvio che qualsiasi intervento di grandi proporzioni avrà ben poche probabilità di migliorare la regolazione, mentre, nel caso di alterazioni molto minori di quelle che vengono apportate intenzionalmente dal costruttore o dall'operatore, la probabilità di un miglioramento dovrebbe essere quasi esattamente del 50 per cento.

Ho già osservato che quel che sembrava a Fisher «facile vedere» potrebbe mettere in grossa difficoltà uno scienziato comune, e lo stesso vale anche per ciò che Fisher definisce «abbastanza ovvio». Nondimeno, [..] in questo caso possiamo dimostrarlo con nostra soddisfazione senza eccessiva difficoltà. Ricordiamo che stiamo supponendo che il microscopio sia quasi perfettamente a fuoco prima che diamo inizio ai nostri interventi. Supponiamo che l'obiettivo sia troppo in basso, ossia troppo vicino di un millimetro al vetrino, perché lo strumento possa essere perfettamente a fuoco. Ora, se spostiamo l'obiettivo di un intervallo piccolissimo, diciamo di un decimo di millimetro, in una direzione casuale, quali saranno le probabilità che la messa a fuoco migliori? Se lo abbassiamo verso il vetrino di un decimo di millimetro, la messa a fuoco pegggiorerà, mentre migliorerà se lo alziamo di un decimo di millimetro. Poiché stiamo intervenendo a caso, la probabilità per ciascuna di queste evenienze è un mezzo, ossia 50 per cento. Quanto più piccolo è il movimento di regolazione, in relazione all'errore iniziale, tanto più la probabilità di miglioramento si avvicinerà a un mezzo. Questa conclusione completa la giustificazione della seconda parte dell' affermazione di Fisher.

Supponiamo ora di spostare l'obiettivo del microscopio di una grande distanza - equivalente a una macromutazione -, anche questa volta in una direzione casuale. Supponiamo per esempio di muoverlo di un centimetro. Ora, non importa in quale direzione operiamo questo movimento, in alto o in basso, il risultato sarà comunque quello di peggiorare la messa a fuoco rispetto a quella che era prima. Se ci capita di spostare l'obiettivo verso il basso, esso si troverà a undici millimetri dalla sua posizione ideale (e sarà andato probabilmente a frantumare il vetrino). Se ci capita invece di spostarlo verso l'alto, esso si troverà ora a nove millimetri dalla sua posizione ideale. Prima dei nostri interventi, esso si trovava a un solo millimetro dalla sua posizione ideale, cosicché, in un modo come nell'altro, la nostra «macromutazione» ha avuto effetto dannoso.

Abbiamo fatto il calcolo per una mossa grandissima (macromutazione) e per una mossa piccolissima (micromutazione). Potremmo fare ovviamente lo stesso calcolo per una varietà di mosse di grandezza intermedia, ma non caveremmo nulla di utile. Io penso che in realtà sia ora abbastanza ovvio che, quanto più piccolo sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo al caso estremo in cui le probabilità di un miglioramento saranno del 50 per cento; e quanto più grande sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo all'altro estremo, in cui le probabilità di un miglioramento saranno zero.

Questo ragionamento, come il lettore avrà notato, dipende dall'assunto iniziale che, prima che noi cominciassimo i nostri tentativi casuali di messa a punto, il microscopio fosse già abbastanza vicino a una messa a fuoco perfetta.
Se inizialmente l'obiettivo del microscopio è lontano 2 centimetri dalla posizione corrispondente alla messa a fuoco, un mutamento casuale di 1 centimetro avrà un 50 per cento di probabilità di essere un miglioramento, esattamente come un mutamento casuale di un centesimo di centimetro. In questo caso la «macromutazione» sembra presentare il vantaggio di muovere più rapidamente l'obiettivo verso una messa a fuoco ottimale. Il ragionamento di Fisher sul carattere dannoso delle macromutazioni si applicherà qui a «megamutazioni» costituite, per esempio, da un movimento di 6 centimetri in una direzione casuale.


Perché, allora, Fisher poté fare il suo assunto iniziale che il microscopio fosse quasi a fuoco? L'assunto deriva dal ruolo svolto nell'analogia dal microscopio. Il microscopio dopo il tentativo di regolazione casuale sta per un animale mutante. Il microscopio prima del tentativo di messa a fuoco casuale sta per il genitore normale, non mutante, del presunto animale mutante. Essendo un genitore, dev'essere sopravvissuto abbastanza a lungo per riprodursi, e perciò non può che essere abbastanza vicino a una buona messa a punto. [Non può che essere già molto adatto all'ambiente in cui vive, NdM]. Per la stessa ragione, il microscopio prima dell'intervento casuale non può essere molto lontano da una buona messa a fuoco, giacché in caso contrario l'animale da esso rappresentato nell'analogia non avrebbe potuto sopravvivere. Questa è solo un'analogia, e non ha senso stare a discutere se «abbastanza vicino» significhi un centimetro o un decimo di centimetro o un millesimo di centimetro. Il punto importante è che, se noi consideriamo mutazioni di grandezza sempre crescente, verrà un punto in cui, quanto più grande è la mutazione, tanto meno probabile è che essa sia benefica; mentre, se consideriamo mutazioni di grandezza sempre decrescente, verrà un momento in cui la probabilità che una mutazione sia benefica sarà del 5O per cento.

Il ragionamento sul problema se macromutazioni come l'antennapedia possano mai essere benefiche (o almeno se si possa evitare che siano dannose), e se possano quindi dare origine al mutamento evolutivo, ruota dunque attorno al problema di quanto sia «macro» la mutazione che stiamo, considerando. Quanto più «macro» essa è, tanto più probabile è che sia deleteria, e tanto meno probabile che venga incorporata nell'evoluzione di una specie. In effetti, praticamente tutte le mutazioni studiate nei laboratori di genetica -- le quali sono abbastanza macro, altrimenti i genetisti non le rileverebbero -- sono deleterie agli animali che le posseggono (per una curiosa ironia, ho conosciuto persone le quali pensano che questo sia un argomento contro il darwinismo!).

(fine dell'episodio)

[Ora che abbiamo capito che nella teoria dell'evoluzione le mutazioni devono essere graduali, e non possono avvenire grandi salti, siamo pronti per affrontare una obiezione dei creazionisti, che riguarda i "salti" e i "buchi" presenti nei fossili. Le vedremo sotto forma di quiz nel prossimo episodio. NdM]

martedì 16 ottobre 2007

La fede come parassita del cervello


Questo è il primo episodio di una mini-serie dedicata al recente discorso di Richard Dawkins di accettazione del premio Deschner. Per il video originale cliccate qui.

La fede come parassita del cervello

[..]

Dr Sullivan mi ha mandato una bozza del suo discorso [..]. Nella bozza egli metteva in contrasto la visione del mondo scientifica, che soggiace alla progettazione e costruzione di un moderno aereo di linea, e la visione del mondo barbara, degna dell'età del bronzo, ed infantile, degli uomini che hanno dirottato quegli aerei di linea, quelle meraviglie della scienza, e le hanno fatte schiantare su alcuni degli edifici più alti del mondo, anch'essi a loro volta meraviglie prodotte dalla tecnologia scientifica.

Potremmo essere tentati dal pensare che quei 19 uomini, gli assassini dell'11 settembre, fossero dei barbari malvagi, mossi dal male. E' questa la posizione presa da Bush. (Anche oggi non riesco a chiamarlo "presidente Bush"). [il pubblico ride ed applaude.] Un'immaginazione fertile potrebbe credere di vedere il volto del diavolo nell'infernale cortina di fumo e polvere di quel giorno terribile --- la personificazione del male. Su internet si diffuse questo rumore.

Ma spero di non offendere nessuno quando dico che quei 19 uomini non erano malvagi. Nell'ottica della loro particolare religione, erano uomini giusti. Buoni. Sferrando dei colpi per Allah, essi guadagnavano per sé stessi una strada veloce verso il paradiso. Martirizzando se stessi per Allah.

Una percentuale spaventosamente alta di giovani musulmani che vivono in Gran Bretagna è d'accordo con loro. [...] Ci sono i sondaggi ben noti. Guardando questi sondaggi sembra molto probabile che decine di milioni, forse persino centinaia di milioni di persone in questo mondo credano questo: credono che dalla loro amata fede religiosa segua logicamente che assassinare 3000 impiegati d'ufficio di New York è stata la cosa giusta da fare. La cosa buona, la cosa doverosa da fare. Essi credono che i 19 uomini, che noi consideriamo come imperdonabili bruti e barbari, in questo preciso istante se ne stiano beati presso freschi ruscelli in paradiso, e siano serviti e riveriti da ragazze dagli occhi scuri.

Questi 19 uomini, durante la loro vita, non sono stati affatto privi di istruzione ed educazione. Alcuni di loro erano divenuti ingegneri. Conoscevano la matematica, la fisica. Il metodo scientifico. Gli uomini che hanno progettato la più recente missione suicida in Gran Bretagna erano medici. La loro testa era piena di nozioni dettagliate di anatomia, fisiologia, biochimica cellulare. Conoscevano i dettagli anatomici precisi di quelle braccia e gambe che speravano di amputare dai corpi altrui, e dai propri. Avevano dei buoni cervelli, capaci di superare difficili esami di medicina.

Ma quei buoni cervelli erano stati dirottati dalla fede. Proprio come un aereo di linea è dirottato dei terroristi. [il pubblico applaude.]

Non erano stupidi. Erano persone piacevoli per chi li conosceva. Dopo i bombardamenti di luglio 2005, i giornali britannici si riempirono di articoli che riportavano lo stupore dei loro conoscenti e vicini. Questi erano uomini per bene. Amichevoli. Iscritti ai club. Amavano giocare a cricket. Non erano reietti sociali. Proprio il tipo di persone con cui è piacevole passare la serata. Ma per quanto persone per bene, un terribile parassita si era impadronito dei loro cervelli. Un virus chiamato fede religiosa.

Daniel Dennett, mio collega, [...] ha fatto un'analogia che non mi faccio scrupoli a rubare, anche perché lui l'ha rubata a me in primo luogo... [il pubblico ride.] E' l'analogia con il cosiddetto "verme del cervello", chiamato "lancet fluke", che abita nelle formiche. Quando questo verme/virus entra nel cervello di una formica, fa delle piccolissime lesioni. Come sapete, se fate una lesione nel cervello di un animale, potete modificare il suo comportamento. E questo parassita fa una lesione nel cervello della formica che altera il comportamento della formica in questo modo: la formica, invece di starsene nascosta in basso nell'erba a svolgere la sua mansione normale, comincia a salire verso la cima di una montagnetta di erba, e così ha un'alta probabilità di essere mangiata da una pecora. E questo è esattamente ciò che il verme "vuole", perché la pecora è l'ambiente finale in cui il verme ha bisogno di arrivare per completare il suo ciclo di vita.

La letteratura della biologia è piena di questi "affascinanti" esempi di parassiti che dirottano l'organismo ospitante. Manipolano l'organismo ospitante per i propri fini. Il cervello umano, sfortunatamente, è enormemente vulnerabile ad essere dirottato in questo modo. Le religioni sono bravissime nell'arte di dirottare. Sinceramente non so se la religioni siano così perché sono state progettate consapevolmente per questo scopo, da preti ingegnosi, o se abbiano evoluto questa capacità per selezione naturale. [Ricordate che anche le idee si evolvono per selezione naturale. Il primo a farlo notare fu proprio Dawkins ne "Il gene egoista". NdM.] E' una domanda interessante che lascerò per dopo. Resta il fatto che dei cervelli, che sono perfettamente capaci di vivere la vita nella tecnologia del ventunesimo secolo, cervelli che possono fare matematica, anatomia, ingegneria e fisiologia, cervelli che possono emettere un comportamento gentile e amichevole quando si trovano in un club giovanile e giocano a cricket, possono essere dirottati da un virus mentale degno dell'età del bronzo, che li spinge a commettere gli atti più orribili, resi ancora più orribili dalla tecnologia moderna.

C'è qualcosa di bizzarro e di intrinsecamente pericoloso nella fede. Significa credere qualcosa senza evidenza. E non venitemi a dire che la vostra fede si basa su evidenza. Perché se così fosse non avreste bisogno di chiamarla fede. Basterebbe "evidenza". [il pubblico applaude.]

Naturalmente, io credo in molte cose che qualcuno chiamerebbe "atti di fede", come ad esempio l'amore di mia moglie. Ma in realtà anche questo si basa su evidenza. Evidenza sottile. Indizi. Piccoli sguardi. Il tono di voce. Vedi l'evidenza ogni giorno della tua vita, e lentamente ti convinci. Insomma, questa non è fede. Se hai evidenza, non ti serve la fede.

Quando nel mondo scientifico due persone non sono d'accordo su qualcosa -- e succede spesso -- questo dipende da una diversa interpretazione dell'evidenza. E' perché non c'è ancora abbastanza evidenza. Non udite mai uno scienziato dire una cosa del genere: "Io credo in X perché faccio parte dei sostenitori del big bang, e tutti i sostenitori del big bang credono in X". Nel mio campo, la biologia, non sentite mai nessuno dire "Io credo Y perché sono un selezionista di gruppo, e noi selezionisti di gruppo crediamo Y". Lo scienziato dice "Io credo così e così, perché è questo che l'evidenza indica." "Sono un sostenitore del big bang perché l'evidenza supporta la teoria del big bang." "Sono contrario alla selezione di gruppo perché l'evidenza va contro la selezione di gruppo.". A proposito, non pensate neppure per un attimo che gli scienziati siano completamente certi di sapere tutto. Scienza non vuol dire scientismo. C'è molto disaccordo tra gli scienziati, e c'è molto che gli scienziati ammettono di non sapere. E ci sono molte cose che la scienza non potrà mai sapere.

Ma non lasciate mai che qualcuno dica che, visto che la scienza non può rispondere a qualche domanda profonda e misteriosa, "allora" la religione può. [scrosci di applausi.]

(continua)

mercoledì 3 ottobre 2007

L'illusione del Fascismo, il nuovo libro di Dawkins


Traduco questa brillante recensione del nuovo libro di Dawkins.

L'illusione del Fascismo

Forse solo Dawkins, o magari il suo psichiatra, può spiegare perché questo argomento lo fa arrabbiare tanto; ma qualcuno lo avverta che l'ostilità che lui esibisce verso il fascismo è controproducente. Mi mangerò il cappello se il suo libro convincerà anche un mezzo fascista ad abbandonare le sue convinzioni.

La concezione che Dawkins ha del fascismo è piena di errori. Dawkins ha una conoscenza solo superficiale del Mein Kampf, o della poesia di Marinetti. E sembra del tutto ignorare l'opera molto più sottile ed intellettualmente stimolante di filosofi fascisti come Hermann Graf Keyserling, Alfred Baeumlet, Martin Heidegger, Giovanni Gentile, Rafael Sánchez Mazas, Alain de Benoist e molti altri. Solo chi conosca completamente le opere di tutti questi pensatori può essere nella posizione di criticare il fascismo. La mancanza di queste conoscenze necessarie mina alla radice il diritto di Dawkins di criticare il fascismo.

Sin dall'inizio Dawkins commette l'errore di parlare del "fascismo" come se fosse una entità unica. Naturalmente la verità è che ci sono molte varietà, e molte correnti, di fascismo. La sua generalizzazione si riferisce forse al fascismo italiano? Al fascismo hitleriano? All'islamofascismo? Al falangismo? Al criptofascismo? All'integralismo brasiliano? Non ha senso estrarre un fascismo idealizzato, monolitico, da questa miriade di pratiche umane eterogenee, seppure con obiettivi polemici. Né è giusto chiamare il fascismo "di destra" (che dire della carriera di Otto Johann Maximilian Strasser?) o "militarista" (molti fascisti sono persone del tutto pacifiche).

Dawkins confronta regolarmente la parte migliore del non-fascismo con la parte peggiore del fascismo. E regolarmente accusa il fascismo di essere un "estremismo". Naturalmente ci sono stati dei fascisti che erano estremisti. Ma questo non vuol dire che il fascismo sia in sé estremista. Di certo io non mi riconosco, né riconosco alcuna organizzazione locale del Partito, nel ritratto pieno di odio che Dawkins dipinge.

Ancora peggio, egli non sembra capire che la sua posizione, il cosiddetto non-fascismo, è in realtà una forma di fascismo: un sistema di credenze determinato dal fascismo, che deve molte delle sue idee centrali alle tradizioni fasciste.

Prendete ad esempio la sua osservazione faziosa: "il fascismo cerca di imporre il controllo totale dello Stato su tutti gli aspetti della vita, dai diritti politici e culturali fino alle questioni di etica individuale e scelta sessuale. Dà valore alla forza, ed esalta lo Stato come un'entità superiore agli individui che lo compongono". Neppure il segretario dei Giovani Nazisti che mi ha introdotto al fascismo credeva tutto ciò!

Quasi tutte le tesi di Dawkins si possono liquidare facilmente. La sua tesi principale è che "la mentalità fascista" (qualunque cosa sia) "fa commettere alle persone atti orribili di barbarie e violenza", che "incoraggia la tendenza a classificare gli esseri umani in pecore e capre, e in tal modo non solo permette ma incoraggia attivamente la persecuzione delle capre". Poi tira fuori il vecchio e noiosissimo esempio dell'Olocausto. Ho una notizia per il professor Dawkins: sì, è vero che i fascisti hanno ucciso 6 milioni di ebrei negli anni 40. Ma non hanno fatto questo perché erano fascisti; lo hanno fatto perché erano esseri umani. Gli ebrei sono stati sempre uccisi, in ogni epoca. Uccidere gli ebrei è qualcosa che gli uomini hanno sempre fatto; deplorevole, forse, ma è un fatto della vita. Poiché uccidere gli ebrei è un atto cronologicamente più antico del fascismo hitleriano, e poiché si è continuato a verificare anche dopo il declino del fascismo hitleriano, mi sembra del tutto ovvio che questa particolare strage in massa di ebrei ha poco a che fare con il fascismo hitleriano, e molto a che fare con l'innata tendenza delle persone al male -- tendenza per la quale, tra parentesi, il fascismo non solo ha una spiegazione, ma per la quale il fascismo offre anche un rimedio; il che è molto più di quanto faccia Dawkins.

Sebbene egli accusi il fascismo di estremismo, allo stesso tempo si rifiuta di ammettere l'estremismo della sua stessa posizione non-fascista.

E' anche cieco verso il fatto che i suoi amati non-fascisti hanno ucciso tante persone quante i fascisti -- anzi di più. Perché Dawkins non concentra su di loro la sua invettiva? La ragione è che è accecato da un'ostilità isterica e ideologica verso l'idea stessa di fascismo. (Risponde ad esempio: "i non-fascisti non commettono malvagità in nome del loro non-fascismo", il che è ironico se si pensa a tutti i capi fascisti che furono impiccati nei processi antifascisti di Norimberga).

La verità è che tutti gli ideali -- politici, trascendenti, umani, o inventati -- possono essere usati in modo improprio. E, sapendo questo, dobbiamo cercare di risolvere il problema, anziché accanirci in modo superficiale contro il fascismo. Ma Dawkins questo non lo capisce.

Non sto ovviamente sostenendo che il fascismo è stato perfetto; nessun fascista ragionevole lo direbbe. Sebbene sia vero che il Duce è la personificazione infallibile del volere del Popolo, ciononostante i fascisti sono esseri fallibili, soggetti alla fallibilità della condizione umana. Il fascismo non ha mai affermato il contrario. Ma mentre Dawkins evidenzia volentieri le occasionali conseguenze negative del fascismo, ignora di proposito il bene che il fascismo ha fatto al mondo. Nel suo libro non c'è menzione dei prodigiosi trionfi architetturali, le autostrade, i miracoli economici, ma soprattutto il meraviglioso senso di fare parte di qualcosa di grande, il senso di scopo e di significato che si prova quando si fa parte di una comunità fascista. Tutte gioie che il fascismo regala agli uomini comuni. Tutte le prove indicano che i fascisti hanno maggiore probabilità di dedicarsi altruisticamente ad un ideale elevato, e di rinunciare alla propria gratificazione individuale; in verità per molte persone questo è il senso stesso del fascismo.

Lungi dall'essere un libro serio di filosofia, questa invettiva mal scritta e superficiale contiene qualunque cosa passi per la testa dell'autore: pagina dopo pagina di attacchi sarcastici a quegli aspetti del fascismo che Dawkins ritiene bersagli facili. Dawkins evita la questione vera, cioè se la comprensione politica delle persone debba risolversi in un'aggregazione sociale priva di struttura, anarchica e priva di significato, oppure con un'autorità che fornisca ordine, stabilità e una ragione per vivere.

In conclusione, Dawkins non dovrebbe ignorare la possibilità che il fascismo soddisfi una necessità profonda e radicata dell'uomo. Ma c'è forte evidenza che sia proprio così. Altrimenti il fascismo non avrebbe potuto essere così popolare per così tanto tempo.

(fine della recensione)

Nota di Maurizio: a scanso di equivoci, questa parodia non sta paragonando la religione al fascismo. Sta paragonando la difesa della religione alla difesa del fascismo. Cioè, sta dicendo: tutte le argomentazioni usate per criticare Dawkins si possono usare anche per difendere il fascismo, QUINDI sono sbagliate. (Se un argomento implica l’assurdo, allora l’argomento è sbagliato).

venerdì 7 settembre 2007

L'Illusione di Dio è in libreria !


Il bestseller di Richard Dawkins è disponibile da qualche giorno nelle librerie italiane. Ne ho ordinate 5 copie qui. (Che ci faccio con le altre quattro? Le regalo :) )

venerdì 31 agosto 2007

Perché esiste la superstizione


Questo è il quarto ed ultimo episodio di una serie dedicata alla superstizione e al libro di Richard Dawkins "Unweaving the rainbow: a darwinian view of life" (L'arcobaleno della vita). Episodi precedenti: primo, secondo, terzo.

Il concetto centrale di questo lungo episodio è che la ragione per cui gli esseri umani (ed altri animali, come vedremo) sono superstiziosi è che sono prodotti dalla selezione naturale. Infatti, confrontiamo le probabilità di sopravvivenza di un individuo "superstizioso" e di uno "scettico" nell'ambiente ancestrale in cui ci siamo evoluti. L'individuo "superstizioso" tende a credere facilmente all'esistenza di nessi causali nel mondo, e quindi crederà a molti nessi reali ma anche a qualche nesso inesistente; invece l'individuo scettico non crede in un nesso fino ad avere avuto molte conferme sperimentali, e quindi non crederà ad alcuni nessi esistenti. Risulta che l'individuo "superstizioso" ha maggiori probabilità di sopravvivere, in quanto il costo di vedere un nesso che non esiste è relativamente basso, mentre il costo di non vedere un nesso esistente è spesso altissimo. Ad esempio, se credo che la danza della pioggia porti la pioggia, poco male: sprecherò energie inutilmente, ma non morirò per questo. Al contrario, non notare un nesso esistente può significare la morte.

Un altro concetto fondamentale è che i nostri cervelli sono ancora adattati all'ambiente ancestrale in cui ci siamo evoluti, fatto di piccoli villaggi con pochi abitanti. La nostra soglia di stupore per le coincidenze è calibrata per piccoli villaggi, non per un mondo dove esistono mezzi di comunicazione di massa. Questo spiega, ad esempio, perché alcune coincidenze che non dovrebbero essere sorprendenti ci appaiano spesso tali. La parola a Dawkins.

Capitolo 7. Scomporre l'arcano (seguito)


La tendenza a vedere significato e scopo nella coincidenza, sia questa dotata o priva di significato reale, rientra nella tendenza più generale a cercare un disegno nelle cose. Si tratta di una propensione utile e lodevole. Molti fatti ed eventi del mondo sono in effetti consequenziali, e sia agli esseri umani sia agli animali giova individuare i nessi. Ma a volte ci si trova tra due estremi entrambi negativi: si individua un disegno apparente là dove non c'è e non si riesce a individuarne uno là dove c'è. La scienza della statistica consiste in gran parte nel seguire la difficile rotta che ci mantiene lontani da questi due scogli. Certo, già da molto prima che fossero elaborati i metodi statistici, gli esseri umani e anche altri animali erano discreti statistici innati; tuttavia è facile commettere errori, sia in una direzione sia nell'altra.

Ecco alcune correlazioni statistiche che sono vere in natura, ma non del tutto ovvie, e di cui gli esseri umani non si sono sempre resi conto.

  • Correlazione vera. A circa 266 giorni dal rapporto sessuale, segue statisticamente il parto.

    Perché è difficile coglierla. 266 giorni rappresentano la media, rispetto alla quale l'intervallo varia. Sovente il rapporto sessuale non dà luogo al conceepimento. L'atto sessuale è comunque freequente, sicché non è evidentissimo che sia esso a causare il concepimento e non, per esempio, l'atto altrettanto frequente di mangiare.

  • Correlazione vera. Il concepimento è relativamente probabile a metà del ciclo mestruale, e relativamente improbabile in prossimità delle mestruazioni.

    Perché è difficile coglierla. Si veda sopra. Inoltre, le donne che non hanno mestruazioni non concepiscono: questa è una correlazione spuria che ostacola la comprensione o addirittura, a una mente ingenua, suggerisce il contrario della verità.

  • Correlazione vera. Il fumo provoca il cancro ai polmoni.

    Perché è difficile coglierla. Molti fumatori non si ammalano di cancro ai polmoni, mentre si ammalano di questa malattia molte persone che non hanno mai fumato.

  • Correlazione vera. Durante le epidemie di peste bubbonica, la vicinanza con i ratti, e soprattutto con le loro pulci, conduce spesso all'infezione.

    Perché è difficile coglierla. Vi sono sempre in giro molti ratti e molte pulci. I ratti e le pulci sono talmente associati a cose come l'immondizia e l' «aria cattiva» che è difficile capire quale delle molte correlazioni sia quella importante. Anche in questo caso vi sono falsi nessi che ostacolano la comprensione.
Ecco alcune correlazioni che gli esseri umani hanno creduto di individuare, e che invece sono false.
  • Falsa correlazione. Si può porre fine alla siccità eseguendo una danza della pioggia (o compiendo un sacrificio umano o versando sangue di capra sui reni di un furetto, o in qualunque altro modo la teologia del luogo abbia decretato).

    Perché è facile cadere in errore. Ogni tanto capita che a una danza della pioggia (o agli altri riti) segua la pioggia, e questi rari colpi di fortuna si imprimono nella memoria. Quando la danza della pioggia non è seguita dalla pioggia, si ipotizza che qualche dettaglio della cerimoonia non sia andato bene o che gli dèi siano irati per un altro motivo; è piuttosto facile trovare una giustificazione abbastanza plausibile.

  • Falsa correlazione. L'apparizione delle comete e altri fenomeni astronomici preannunciano crisi nelle vicende umane.

    Perché è facile cadere in errore. Si veda sopra. Inoltre, è interesse degli astrologi tenere viva questa credenza, così com'è indubbiamente interesse degli stregoni tenere viva la credenza delle danze della pioggia o dei reni dei furetti.

  • Falsa correlazione. Dopo un susseguirsi di eventi sfortunati, si ha più probabilità di avere fortuna.

    Perché è facile cadere in errore. Se la sfortuna continua, diciamo a noi stessi che la serie di eventi sfortunati evidentemente non è ancora finita, e più che mai agogniamo a vederla concludere. Se la sfortuna non continua, la profezia è considerata compiuta. Inconsciamente, definiamo gli eventi sfortunati come una serie destinata a terminare, sicché è evidente che quando «termina» seguirà la fortuna.

Non siamo gli unici animali a cercare correlazioni statistiche e consequenzialità in natura, e non siamo gli unici animali a commettere errori di tipo per così dire superstizioso. Che esistano questi due fenomeni è chiaramente dimostrato dalla gabbia di Skinner, così chiamata dal nome del famoso psicologo americano Burrhus F. Skinnner. Si tratta di un attrezzo semplice ma versatile, che serve a studiare la psicologia di cavie come ratti e piccioni. È una gabbia con una parete dotata di uno o più pulsanti che il piccione (per esempio) può premere con il becco per ottenere l'erogazione del cibo. Nell'esperimento più semplice, ogni volta che il pulsante viene premuto il becchime compare automaticamente. I piccioni imparano presto il compito e altrettanto fanno i ratti o, in gabbie ovviamente più grandi e rinforzate, i maiali.

Noi sappiamo che premere l'interruttore attiva l'apparato elettrico di emissione del cibo, ma il piccione lo ignora: per lui azionare col becco il pulsante potrebbe benissimo equivalere a una danza della pioggia. Inoltre, in certi esperimenti il collegamento è assai debole e statistico, ovvero la ricompensa in becchime non viene data ogni volta che l'animale preme il pulsante, ma solo una volta su dieci. Ciò significa che il cibo viene emesso letteralmente ogni decima beccata, oppure, se il congegno è regolato in maniera diversa, che in media è ricompensata una beccata su dieci, ma a ciascun turno il numero esatto di beccate necessarie dipende dal caso. Altre volte è un orologio a stabilire che il becchime uscirà in media per un decimo del tempo; ma è impossibile sapere per quale decimo.

I piccioni e i ratti imparano ad azionare i pulsanti anche quando verrebbe da pensare che solo un ottimo statistico possa individuare la correlazione; insomma stanno al gioco anche se è ricompensata solo una percentuale minima delle beccate. Un particolare interessante è che le abitudiini apprese quando le beccate sono seguite solo occasionalmente dalla ricompensa del cibo sono più durevoli delle abitudini apprese quando sono associate regolarmente alla ricompensa. Il piccione si scoraggia meno facilmente quando si trova con il meccanismo della ricompensa completamente disattivato; il che, se ci riflettiamo, ha senso sotto il profilo intuitivo.

I piccioni e i ratti, dunque, sanno il fatto loro, poiché sono capaci di cogliere sottili correlazioni statistiche nel loro ambiente. Trovano probabilmente utile questa capacità sia nella gabbia di Skinner sia in natura. La vita nel mondo fisico è ricca di correlazioni; il mondo è una grande, complessa gabbia di Skinner. Le azioni che compiono gli animali selvatici sono spesso seguite da ricompense, punizioni o altri eventi importanti. Sovente il rapporto tra causa ed effetto non è assoluto, ma statistico: se un chiurlo sonda il fango con il suo lungo becco curvo, ha una certa probabilità di infilzare un verme. Il rapporto tra sondare il terreno e trovare vermi è statistico, ma reale. Un'intera scuola di etologia si è sviluppata intorno alla cosiddetta «teoria dell'ottimizzazione della ricerca del cibo». Gli uccelli selvatici mostrano una notevole abilità statistica nel valutare la ricchezza relativa di un'area in termini di cibo e, in base a questa stima, passano periodi ora in una zona ora nell'altra.

In laboratorio, Skinner fondò una grande scuola di ricerca che utiilizzava la sua gabbia per diversi scopi. Poi, nel 1948, apportò un'ingegnosa variante alla tecnica standard: eliminò del tutto il nesso causale tra comportamento e ricompensa. Regolò il congegno in maniera che «ricompensasse» ogni tanto il piccione indipendentemente da ciò che questo faceva. Ora gli uccelli dovevano solo aspettare il becchime; ma di fatto non se ne stavano lì passivamente. In sei casi su otto si comportarono come se stessero apprendendo un'abitudine atta a determinare una ricompensa; mostrarono, cioè, quello che Skinner chiamò comportamento «superstizioso». Il rituale specifico dipendeva dal singolo animale. Tra una distribuzione di cibo e l'altra, un piccione ruotò su se stesso come una trottola, compiendo due o tre giri in senso antiorario; un secondo spinse la testa nell'angolo superiore della gabbia; un terzo mosse a sua volta il capo, ma come se lo ponesse sotto una sbarra invisibile per poi alzarlo ripetutamennte. Altri due, in maniera indipendente, si diedero all'«oscillazione pendolare»: dondolarono la testa e il corpo ritmicamente (un'abitudine, questa, che dev'essere apparsa abbastanza simile alla danza di corteggiamento di alcuni uccelli del paradiso). Skinner usò l'espressione «comportamento superstizioso» perché gli uccelli sembravano pensare che il loro tic abituale avesse una correlazione causale con il meccanismo di ricompensa, mentre così non era. Era l'equivalente aviario di una danza della pioggia.

Una volta instauratosi, il comportamento superstizioso persisteva anche per ore dopo che il meccanismo della ricompensa era stato disattivato, ma i tic non restavano identici: cambiavano come improvvvisazioni d'un organista. Un particolare piccione iniziava i propri movimenti con un brusco scatto della testa: la girava a sinistra, con il passare del tempo la scuoteva sempre più forte, poi spostava l'intero corpo in quella direzione, facendo uno o due passi. Dopo molte ore di «spostamento topografico», lo zampettare verso sinistra diventaava la caratteristica dominante del tic. Il comportamento superstiziooso rientra forse nel repertorio naturale della specie, ma è lecito affermare che per i piccioni esibirlo in quel contesto, e ripetutamente, è innaturale.

I piccioni superstiziosi di Skinner si comportavano sì come statistici, ma come statistici idioti. Cercavano senza successo correlazioni tra gli eventi del loro mondo, soprattutto tra le ricompense ambite e le azioni che potevano compiere per ottenerle. Il rito, come premere la testa contro l'angolo superiore della gabbia, cominciava per caso: magari l'uccello stava facendo quel movimento un attimo prima che l'erogatore di cibo scattasse in azione, «elaborava l'ipotesi» di una correlazione tra i due eventi, e tornava quindi a compiere l'atto che riteneva all'origine del «premio». Certo, il meccanismo a tempo di Skinner faceva sì che prima o poi la ricompensa riapparisse, ma se l'animale avesse provato a non compiere il movimento rituale, avrebbe scoperto che il cibo arrivava lo stesso. Bisogna ammettere, però, che sarebbe dovuto essere uno statistico più bravo e più scettico di molti esseri umani per tentare un esperimento così eroico. Skinner paragona le sue cavie ai giocatori d'azzardo che, quando giocano a carte, cercano di attirarsi la fortuna con piccoli «tic». È un comportamento diffuso anche nei campi di bocce. Una volta lanciata la palla, si può solo sperare che si diriga verso il boccino. Tuttavia i giocatori esperti, mentre sono ancora chini per il tiro appena compiuto, spesso si torcono e protendono in avanti, quasi a voler impartire alla boccia ormai irraggiungibile istruzioni estreme, e sovente le rivolgono inutili parole d'incoraggiamento. In fondo, una slot-machine di Las Vegas non è altro che una gabbia di Skinner umana. Tirare la leva, ma anche naturalmente mettere soldi nella fessura, equivale a «premere col becco il pulsante». È davvero un gioco da idioti, perché le probabilità sono notoriamente truccate a favore del proprietario; come farebbe, altrimenti, il casinò a pagare le enormi bollette dell' elettricità? Dipende soltanto dal caso se tirando una certa leva in un certo momento si produce una vincita o no, sicché la slot-machine incoraggia al massimo le abitudini superstiziose. In effetti, se si osservano a Las Vegas i giocatori incalliti, si notano movimenti che ricordano molto i rituali dei piccioni di Skinner. Alcuni parlano con la macchina, altri fanno strani scongiuri oppure la accarezzano o le danno una pacca. Guardando persone computerdipendenti, mi sono accorto che quando, spazientite, aspettavano che il server le collegasse a Internet, si comportavano in modo analogo, per esempio picchiando le nocche sul terminale.

Chi mi ha informato su Las Vegas ha anche condotto uno studio informale sulle sale-corse londinesi e mi ha riferito di aver visto un giocatore che, dopo avere scommesso, correva su una particolare mattonella del pavimento e se ne stava lì su una gamba sola mentre guardava la corsa in uno dei monitor. Probabilmente una volta vinse mentre si trovava in quel punto della stanza e maturò la convinzione che tra le due cose vi fosse un nesso causale. Se qualcun altro ha già occupato la «sua» mattonella --- certi scommettitori la occupano apposta, forse per assorbire parte della sua «fortuna» o forse solo per fargli un dispetto --- lui ci gira intorno e cerca disperatamente di piazzarci sopra un piede prima che la corsa finisca. Altri giocatori non si cambiano la camicia né vanno dal barbiere finché dura la «vena fortunata». Un giocatore d'azzardo irlandese che aveva una bella testa di capelli si rasò a zero nell'ostinata speranza che il vento mutasse. Evidentemente deve essersi detto: «Ho un mucchio di capelli e pochissima fortuna nelle scommesse sui cavalli: forse le due cose sono in qualche modo connesse... forse tra le due cose c'è qualche relazione significativa.». Prima di guardare dall'alto in basso individui del genere, ricordiamoci che molti di noi sono cresciuti sentendo dire che Sansone da fortunato divenne scalognatissimo quando Dalila gli tagliò i capelli.

Come facciamo a capire quali correlazioni siano reali e quali casuali e prive di significato? Esistono dei metodi elaborati dalla statistica e, all'interno della statistica, dallo schema sperimentale. Vorrei soffermarmi ancora un poco, anche se non in dettaglio, su alcuni principi di questa scienza, che si può considerare in larga misura l'arte di distinguere le correlazioni dalla casualità. Casualità significa mancanza di correlazioni. Vi sono diversi modi di illustrare i concetti di casualità e correlazione. Supponiamo che io affermi di saper distinguere la grafia delle femmine da quella dei maschi. Supponiamo che dichiari di poter distinguere la prima dalla seconda in base a una reale correlazione fra sesso e scrittura. Qualcuno potrebbe dubitarne, o meglio convenire sulla variabilità della grafia, ma non sulla sua correlazione con il sesso. In che modo possiamo accertare chi abbia ragione? Non ci si potrebbe fidare della mia parola. Come un giocatore superstizioso di Las Vegas, potrei benissimo avere scambiato un exploit fortunato per un'attitudine reale e costante. In ogni caso, lo scettico avrebbe tutti i diritti di pretendere delle prove. Quali prove lo soddisferebbero? Quelle che fossero documentate pubblicamente e analizzate adeguatamente.

L'affermazione è, in ogni caso, un'affermazione statistica. Non sostengo (in questo ipotetico esempio, naturalmente, perché, nella realtà non sostengo nulla del genere) che so infallibilmente indovinare il sesso dell'autore di un manoscritto, ma solo che alcuni dei fattori che determinano le grandi variazioni riscontrabili tra le grafie sono correelati con il sesso. Sarei quindi «autorizzato» a fare parecchi errori ma, se mi venissero per esempio dati cento campioni di scrittura, dovrei riuscire a dividerli tra testi scritti da maschi e testi scritti da femmine con maggiore approssimazione che tirando a indovinare. Per valutare dunque se mi vanto delle mie capacità a ragione o a torto, bisogna prima calcolare quali siano le probabilità che un certo risultato si ottenga tirando a indovinare. Ancora una volta, ci troviamo quindi a calcolare le probabilità che si verifichi una coincidenza.

Prima di effettuare il vero e proprio calcolo statistico, dobbiamo prendere alcune precauzioni nell'organizzazione dell'esperimento. La correlazione, la non casualità che cerchiamo, è una correlazione tra sesso e grafia. È importante non inquinare tale nesso specifico con variabili estranee. Per esempio i campioni di scrittura che mi venissero dati non dovrebbero essere lettere personali, perché mi riuscirebbe troppo facile evincere il sesso dell'autore o dell'autrice dal contenuto della lettera anziché dalla grafia. Non bisognerebbe scegliere, come campioni, tutte ragazze di una scuola e tutti ragazzi di un'altra, perché gli alunni di un determinato istituto possono avere caratteristiche comuni nella grafia (apprese da un insegnante o copiandosi a vicenda). Tali caratteristiche, proprie dell'una o dell'altra scuola, darebbero differenze anche interessanti di grafia, che però sarebbero rappresentative di una diversità d'impostazione scolastica e solo incidentalmente di una diversità tra sessi. Inoltre non bisognerebbe chiedere ai ragazzi di trascrivere un brano preso dal loro libro preferito. Tenderei a pensare a un'autrice femmina se la citazione fosse tratta dal Principe nero e a un autore maschio se fosse tratta da Biggles e i predoni dell'aria (i lettori che hanno alle spalle altre letture per l'infanzia sostituiscano pure i miei con esempi propri).

Ovviamente è importante che i bambini siano tutti degli sconosciuti per me, perché se così non fosse potrei riconoscere la loro scrittura e quindi indovinare il sesso. Quando mi fossero consegnati, i testi dovrebbero essere anonimi, ma naturalmente chi conducesse l'esperimento dovrebbe sapere chi ha scritto cosa, e quindi mettere dei codici segreti sui plichi per ricordarsi gli autori. Dovrebbe inoltre badare a scegliere oculatamente i codici, cioè non segnare in verde i manoscritti dei maschi e in giallo quelli delle femmine: io non saprei che «verde» vuoi dire «maschio» e «giallo» «femmina», ma capirei ovviamente che i due colori designerebbero i due sessi, e sarei molto avvantaggiato. Sarebbe una buona idea attribuire a ciascun plico un numero di codice, ma bisognerebbe evitare di assegnare ai maschi i numeri da 1 a 10 e alle femmine quelli da 11 a 20, perché si creerebbe di nuovo una situazione analoga a quella del colore verde e del colore giallo (lo stesso discorso vale per i numeri dispari assegnati ai maschi e pari assegnati alle femmine). Si contrassegnerà invece ciascun testo con numeri casuali e si chiuderà a chiave la lista di decifrazione in un cassetto dove non si possa trovarla. Queste procedure sono le stesse che, nel campo degli esperimenti clinici, caratterizzano il «doppio cieco».

Supponiamo che siano state prese tutte le precauzioni del test in doppio cieco e che io abbia davanti agli occhi venti manoscritti anonimi mischiati alla rinfusa: a questo punto posso esaminare i testi dividendoli in due mucchi di presunti autori maschi e presunte autrici femmine. In alcuni casi sarò incerto, ma lo sperimentatore mi costringerà a formulare il verdetto che ritengo più probabile. Alla fine farò due pile di plichi e si procederà a controllare l'esattezza delle risposte.

Veniamo ora alla statistica. Se mi fossi vantato a ragione di saper indovinare il sesso dalla grafia, avrei dovuto dare una risposta esatta più spesso che se avessi solo tirato a indovinare. Ma quanto più spesso? Se mi fossi vantato a torto, il tasso di risposte giuste non dovrebbe essere più alto di quello ottenuto da chi lanciasse una moneta [cioè 50%, NdM]. A che punto il mio rendimento risulta talmente migliore di quello di chi tira la moneta da apparire impressionante? Ecco in che modo si può rispondere a questa domanda.

Si calcola in quali possibili modi avrei potuto indovinare il sesso dei venti ragazzi e ragazze, li si elenca in ordine di efficacia, cominciando da venti risposte corrette per scendere fino a un tasso di successo del tutto casuale (venti risposte sbagliate sarebbero quasi altrettanto incredibili di venti risposte giuste, perché dimostrerebbero una mia attitudine a discriminare, sia pure perversamente, al contrario). Poi si analizzano le scelte che ho compiuto nella realtà e si calcola la percentuale di tutte le scelte che sarebbero potute essere altrettanto --- o più --- efficaci di quelle reali. Come si calcolano le scelte possibili? Prima di tutto va osservato che, se c'è un unico modo di avere successo al cento per cento e un unico modo di fallire al cento per cento, ci sono molti modi di aver successo al cinquanta per cento. Avrei potuto indovinare il primo testo, sbagliare il secondo, sbagliare il terzo, indovinare il quarto ecc. Sono un po' meno i modi di imbroccare le risposte al 60 per cento, ancor meno quelli di imbroccarle al 70 per cento, e così via. I modi di commettere un singolo errore sono abbastanza pochi da poter essere annotati sulla carta. I testi sono venti. Avrei potuto sbagliare nel primo, nel secondo, nel terzo o ... nel ventesimo. Insomma ci sono esattamente venti modi di commettere un singolo errore. È più noioso scrivere le possibilità di commetterne due, ma il calcolo non è poi così difficile, e ci dà come risultato 190. È ancora più tedioso contare quelle di commetterne tre, ma anche in questo caso si tratta di un calcolo eseguibile. E così via.

Supponiamo che nel nostro ipotetico esperimento io abbia commesso due errori. Vogliamo sapere quanto sia stato buono il mio punteggio nello spettro di tutti i modi possibili di indovinare. Dobbiamo, cioè, cercare di sapere quanti possibili modi di scegliere siano buoni come il mio o migliori del mio. Il coefficiente che corrisponde alla mia abilità (due errori) è 190. Il coefficiente migliore del punteggio da me ottenuto è 20 (un errore) più 1 (nessun errore). Dunque, il coefficiente totale buono quanto o più del mio è 211. L'importante è aggiungere le possibilità di registrare un punteggio migliore del mio, perché appartengono di diritto alla PCAA, assieme alle 190 possibilità di registrare lo stesso mio punteggio.

Ora dobbiamo confrontare 211 con il numero totale dei modi in cui i 20 manoscritti avrebbero potuto essere classificati da una persona che avesse tirato una moneta. Non è un calcolo difficile. Il primo testo poteva essere di un maschio o di una femmina: in altre parole, due possibilità. Anche il secondo poteva essere di un maschio o di una femmina. Così, per ciascuna delle due possibilità del primo testo, c'erano due possibilità del secondo. Per i primi due testi abbiamo quindi 2 x 2 = 4 possibilità. Per i primi tre testi le possibilità diventano 2 x 2 x 2 = 8. E i modi possibili di classificare tutti i 20 testi sono 2 x 2 x 2 ripetuto 20 volte, ovvero due elevato alla potenza di 20, che dà un numero abbastanza elevato: 1.048.576.

Allora, nello spettro di tutti i possibili modi di indovinare, la Percentuale di modi buoni come o più del mio è 211 diviso 1.048.576, che dà approssimativamente 0,0002, o lo 0,02 per cento. In altre parole, se 10.000 persone scegliessero i testi solo ed esclusivamente lanciando la moneta, soltanto due di esse registrerebbero un punteggio alto come il mio. Il mio punteggio risulta dunque eccellente: se fossi davvero capace di avere un tale rendimento, suffragherei con prove convincenti l'ipotesi che i maschi e le femmine differiscano sistematicamente nellla scrittura. Permettetemi di ribadire che siamo qui nel campo delle congetture: che io sappia, non ho la capacità di dedurre con tanta abilità il sesso dalla grafia. Aggiungerò inoltre che, se anche vi fossero prove convincenti a sostegno di una simile differenza tra i due sessi, non avremmo modo di sapere se fosse innata o acquisita. Se infatti derivassero dal tipo di esperimento appena descritto, le prove sarebbero compatibili con l'ipotesi che alle femmine venga sistematicamente insegnata una scrittura diversa di quella che viene insegnata ai maschi, più improntata alla «grazia» che all'«assertività».

Abbiamo appena effettuato quello che in statistica è chiamato tecnicamente test di significatività. Noi abbiamo ragionato partendo dall'abicì, il che lo ha reso un po' noioso, ma in pratica gli statistici consultano tavole delle probabilità e delle distribuzioni che sono precalcolate. Non si è quindi costretti ad elencare letteralmente tutti i modi in cui le cose sarebbero potute accadere. Ma la teoria fondamentale in base a cui sono state calcolate le tavole si rifà in sostanza alla procedura che ho illustrato. Si prendono i modi in cui gli eventi avrebbero potuto verificarsi e si «lanciano» ripetutamente a caso. Poi si esamina il modo reale in cui gli eventi si sono verificati e si misura che grado abbia nello spettro di tutte le possibilità contemplate.

Si tenga presente che un test di significatività non dimostra niente in maniera conclusiva: non può escludere che a produrre il risultato che osserviamo sia stata la fortuna. Il meglio che può fare è spiegarci a quale quantitativo specifico di fortuna equivalga il risultato osservato. Nel mio esempio, il risultato (ottenuto ipoteticamente da me) equivaleva alla probabilità che due persone su 10.000 indovinassero a caso. Quando diciamo che un effetto è statisticamente significatiivo, dobbiamo sempre specificare il cosiddetto valore p. Si tratta dellla probabilità che un processo puramente casuale produca un risulltato almeno tanto notevole quanto quello reale. Un valore p di 2 su 10.000 è davvero notevole, ma è pur sempre possibile che non vi sia, qui, un'autentica correlazione. Il vantaggio di un buon test statistico è che ci spiega quanto sia probabile che non ci troviamo davanti ad alcuna correlazione.

Per convenzione, gli scienziati si lasciano influenzare da valori p di 1 su 100 o perfino da valori alti come 1 su 20, che certo fanno molto meno effetto di 2 su 10.000. Quale valore p accettare dipende dall'importanza del risultato e dall'importanza delle decisioni da prendere. Quando l'obiettivo è solo stabilire se vale la pena ripetere il test con un campione più grande, un valore p di 0,05 (cioè 1 su 20) è accettabilissimo. Anche se il nostro interessante risultato ha una proobabilità su venti di verificarsi comunque per caso, la posta in gioco non è alta: l'errore non costa caro. Se invece il problema è un problema di vita o di morte, come accade in alcune ricerche mediche, va scelto un valore p assai più basso di 0,05. Lo stesso discorso vale per quegli esperimenti che pretendono di dimostrare l'esistenza di facoltà molto controverse, come la telepatia o i poteri paranormali.

Come abbiamo visto brevemente a proposito del test del Dna, gli statistici distinguono tra i falsi positivi e i falsi negativi, detti anche errori di I tipo ed errori di II tipo. Un errore di II tipo, o falso negativo, consiste nel non rilevare un effetto che in realtà c'è. Un errore di I tipo, o falso positivo, consiste, al contrario, nel rilevare un rapporto di causa ed effetto là dove c'è solo casualità. Il valore p è la misura della probabilità che si sia commesso un errore di I tipo. Il giudizio statistico consiste nel mantenere una rotta equidistante dai due tipi di errore. Esiste anche un errore di III tipo, che è dato dal non ricordare assolutamente quale sia il falso positivo e quale il falso negativo tra i due errori di I e II tipo. Benché sia da una vita che mi occupo di queste cose, devo ancora andare a controllare qual è l'uno e quale l'altro. A scanso di equivoci, quindi, userò le espressioni falso positivo e falso negativo, che evocano meglio il concetto. A proposito: commetto anche spesso errori di aritmetica. In pratica non mi sognerei mai di eseguire un test statistico effettuando minuziosamente tutti i calcoli, come ho fatto nel caso dell'ipotetica distinzione tra scritture maschili e scritture femminili: guarderei sempre le tavole calcolate da qualcun altro, preferibilmente da un computer.

Gli errori dei piccioni superstiziosi di Skinner erano falsi positivi. In realtà, nel loro mondo non c'era alcuna correlazione tra l'azione che essi compivano poco prima di ricevere il cibo e il meccanismo di emissione del cibo stesso; ma essi si comportavano come se ne avessero individuato una. Un piccione «pensava» [...] che spostarsi a sinistra facesse scattare il congegno dellla ricompensa; un altro credeva di attivarlo spingendo la testa nell'angolo superiore della gabbia. Entrambi commettevano errori falsi positivi. Poniamo invece che un piccione in una gabbia di Skinner non si accorga che, premendo col becco il pulsante a luce azzurra accesa, il meccanismo di emissione del cibo si spegne per dieci minuti: in questo caso commetterebbe un errore falso negativo. C'è, nel suo piccolo mondo, una correlazione autentica che aspetta di essere individuata: ma lui non la rileva: preme col becco entrambi i pulsanti indiscriminatamente e qumdi ottiene la ricompensa meno spesso di quanto potrebbe.

Un falso positivo è anche quello dell'agricoltore che crede che sacrificare agli dèi porti la sospirata pioggia. Presumo (anche se non ho analizzato il problema sperimentalmente) che non vi sia una correlazione del genere nel suo mondo, ma egli non se ne rende conto e continua a buttar via il tempo in inutili sacrifici. Un falso negativo è invece quello dell'agricoltore che non si accorge che nel suo campo c'è una correlazione tra concimazione e bontà del successivo raccolto. Gli agricoltori abili evitano gli errori sia di I sia di II tipo.

Sono convinto che tutti gli animali, quali più quali meno, siano statistici innati e scelgano una rotta a metà strada tra gli errori di I e II tipo. La selezione naturale punisce sia i falsi positiivi sia i falsi negativi, ma le punizioni non sono simmetriche e senza dubbio variano secondo il tipo di vita delle specie. Le larve dei geometridi somigliano talmente ai rami secchi su cui riposano che non possiamo dubitare che la selezione naturale le abbia plasmate in maniera da farle rassomigliare a uno stecco. Molti bruchi morirono per produrre questo efficace risultato: morirono perché non assomigliavano abbastanza a un ramo secco e gli uccelli o altri predatori li individuarono e divorarono. Saranno stati trovati e mangiati anche alcuni geometridi assai simili a rametti, perché altrimenti come avrebbe fatto la selezione naturale a indurre queste creature a evolvere verso l'estrema perfezione della loro odierna famiglia? A loro volta, però, gli uccelli avranno mancato spesso di vedere i bruchi perché questi somigliavano, magari anche solo leggermente, a ramoscelli. Qualsiasi preda, per quanto ben mimetizzata, può essere notata dai predatori quando le condizioni sono ideali per l'avvistamento, e qualsiasi preda, per quanto mal mimetizzata, può non essere notata dai predatori quando le condizioni per l'avvistamento sono sfavorevoli. Tali condizioni variano con l'angolo visuale (un predatore riesce a individuare un animale ben mimetizzato se lo guarda frontalmente, ma non vede un animale mal mimetizzato se lo guarda con la coda dell'occhio), con l'intensità della luce (una preda che non viene notata al crepuscolo è invece notata facilmente a mezzogiorno), e con la distanza (una preda che il predatore scorgerebbe a quindici centimetri di distanza spesso non viene scorta quando si trova cento metri lontano).

Proviamo a pensare a un uccello che vola per il bosco in cerca di qualcosa da mangiare. È circondato da ramoscelli, alcuni dei quali (molto pochi) potrebbero essere bruchi commestibili. Il problema è decidere. Probabilmente l'uccello saprebbe distinguere un rametto da un geometride se gli si avvicinasse così tanto da poterlo esaminaare con cura in buone condizioni di luminosità. Ma non ha il tempo di ripetere l'operazione con tutti i rami. Per mantenersi in vita, gli uccelli piccoli dal rapido ricambio metabolico devono trovare il cibo molto spesso: se stessero a scrutare ogni ramo come topi di biblioteca con la lente d'ingrandimento, morirebbero di fame prima d'aver trovato il primo bruco. Per poter ottenere risultati dovrebbero condurre una ricerca più rapida e superficiale, anche a costo di lasciarsi sfuggire qualche preda. In altre parole, l'uccello deve trovare un equilibrio tra rischi opposti: se nella sua ricerca è troppo superficiale, non troverà mai niente; se è troppo scrupoloso, troverà tutti i bruuchi che cerca, ma poiché saranno troppo pochi morirà di fame.

È facile applicare a questi casi il linguaggio statistico degli errori di I e II tipo. Il falso negativo è quello dell'uccello che passa volando accanto a un bruco senza guardarlo meglio. Il falso positivo è quello dell'uccello che si avvicina per scrutare un presunto bruco e scopre invece che è un ramo. Lo svantaggio del falso positivo è rappresentato dal tempo e dall'energia sprecati per avvicinarsi al ramo ed esaaminarlo bene; se l'operazione viene compiuta solo qualche volta l'errore non è grave, ma se si ripete troppo spesso diventa fatale. Lo svantaggio del falso negativo è rappresentato dalla perdita di una preda e dunque di un pasto. Nessun pennuto che non viva in un ideale paradiso degli uccelli può sperare di non commettere mai errrori di I e II tipo. La selezione naturale induce i singoli individui ad adottare una politica di compromesso che consente di raggiungere il miglior livello intermedio tra falsi positivi e falsi negativi. Certi uccelli avranno la tendenza a commettere più errori di I tipo, altri a commettere più errori di II tipo. Senza dubbio uno scenario intermedio costituisce la rotta ideale, e la selezione naturale ne promuove l'evoluzione.

Quale scenario intermedio sia migliore dipende dalla specie. Nel nostro esempio specifico, dipenderà anche dalle caratteristiche del bosco, come le dimensioni della popolazione dei bruchi in rapporto al numero dei ramoscelli. Tali condizioni potrebbero cambiare di settimana in settimana, o variare da bosco a bosco. Forse gli uccelli sono indotti dalla selezione naturale a mutare politica in base alle proprie esperienze statistiche. Che imparino o no quest'arte dell'adattamento, in genere gli animali abili a cacciare si comportano come statistici esperti. (A proposito, spero non occorra che lo precisi, ma lo preciserò lo stesso: gli uccelli non eseguono calcoli consci con il calcolatore e le tavole delle probabilità. Si comportano come se calcolassero i valori p, ma non conoscono il valore p più di quanto noi conosciamo l'equazione della parabola quando afferriamo al volo una palla da cricket o da baseball nel fuori campo.)

Le rane pescatrici approfittano della credulità di pesciolini come i ghiozzi. Bisogna però ammettere che si tratta di un modo moralistico e ingiusto di descrivere le cose: sarebbe meglio evitare il termine «credulità» e dire che le rane pescatrici sfruttano il fatto che i pesci piccoli faticano a mantenere l'equilibrio tra gli errori di I e II tipo. I pesci piccoli, che come ogni creatura vivente devono mangiare, si nutrono di varie cose, in particolare di piccole creature guizzanti come vermi o gamberetti. Hanno occhi e sistema nervoso fatti apposta per individuare tutto ciò che guizza e, se vedono qualcosa che si muove sinuosamente, subito si lanciano all'arrembaggio. La rana pescatrice sfrutta questa tendenza. Dotata di una lunga «canna da pesca», derivante da una spina dorsale modificata che la selezione naturale requisì dalla posizione originaria per collocarla nel primo raggio della pinna dorsale, essa si mimetizza perfettamente, standosene immobile per ore e ore sul fondo marino, dove si confonde con rocce e alghe. L'unica sua parte ben visibile è un'«esca» simile a un verme, un gamberetto o un pesciolino all'estremità della «canna da pesca». In alcune specie di profondità l'esca è addirittura luminescente; e anche se non lo è, guizza come una creaturina appetitosa quando la sua proprietaria muove la «canna». Il piccolo ghiozzo ne viene attratto. Per un po' la rana pescatrice dà corda alla preda per catturare completamente la sua attenzione, poi porta l'esca nella regione insidiosa e apparentemente innocua situata davanti all'enorme bocca mimetizzata, e il ghiozzo spesso la segue. A quel punto, improvvisamente, la bocca gigantesca diventa visibile, si spalanca, inghiotte un gran fiotto d'acqua con tutto ciò che contiene, e il ghiozzo scopre di aver dato la caccia al suo ultimo verme.

Un ghiozzo che va in cerca di un boccone può notare o no la presenza di un verme, ma se la nota si trova, ahimè, davanti a un dilemmma: la preda è vera o è l'esca di una rana pescatrice? Se incappasse nell'errore falso negativo, rinuncerebbe a un ottimo pasto per paura che fosse in realtà il primo raggio della pinna dorsale della rana pescatrice; se incappasse nell'errore falso positivo, addenterebbe il boccone per poi scoprire che è un'esca. Ancora una volta si osserva come nel mondo reale sia impossibile indovinare sempre la mossa giusta. Un pesce troppo prudente che non attaccasse mai i vermi morirebbe di fame, uno troppo temerario non morirebbe di fame, ma potrebbe venire mangiato. Forse nel caso del ghiozzo la strategia migliore non è la via di mezzo, ma --- incredibile a dirsi --- uno dei due estremi. Probabilmente le rane pescatrici sono così rare che la selezione naturale ha indotto i pesci piccoli ad adottare la politica temeraria di lanciarsi su tutti gli apparenti vermi. Ho sempre amato molto un'osservazione che fece sulla pesca con la lenza il grande filosofo e psicologo americano William James:

Sono più i vermi liberi dall'amo che quelli infilzativi; così la Natura dice ai suoi figli pesci di correr pure il rischio e mordere qualunque verme vedano.

Pragmatism, 1910

Come tutti gli altri animali; e perfino le piante, gli esseri umani possono e debbono comportarsi come statistici innati. La differenza tra noi e gli altri animali è che noi possiamo fare i nostri calcoli due volte: la prima intuitivamente, come fossimo pesci o uccelli, la seconda razionalmente, con carta e matita o al computer. Si potrebbe pensare che con carta e matita sia facile ottenere la risposta giusta, a patto di non commettere qualche grossolano errore, e che invece affidandosi all'intuizione sia facile sbagliare. Ma in senso stretto non esistono risposte «giuste» nemmeno nel caso dei calcoli statistici raazionali. Potrà esserci il modo giusto di fare le somme e di calcolare il valore p, ma il criterio, o valore p di soglia, che adottiamo prima di scegliere una determinata strategia resta una decisione nostra e dipende dalla nostra propensione o avversione al rischio. Se la penalità da pagare per un falso positivo fosse assai maggiore della penalità da pagare per un falso negativo, dovremmo adottare una soglia di massima prudenza: non tentare quasi mai di assaggiare un «verme» per paura delle conseguenze. Viceversa, se l'asimmetria del rischio fosse opposta, dovremmo precipitarci ad assaggiare tutti i «vermi» in circolazione: poiché infatti assaggiarne di falsi non avrebbe conseguenze negative, ci converrebbe fare tutte le prove possibili.

Chiarita la necessità di trovare un equilibrio tra falsi positivi e falsi negativi, tornerò adesso alle coincidenze «arcane» e al modo di calcolare le probabilità che si verifichino comunque. Se sogno un amico da lungo tempo dimenticato e quella stessa notte l'amico muore, sono tentato, come lo sarebbe chiunque, di vedere un significato o un «disegno» nella coincidenza. Devo fare uno sforzo per ricordare che tanta gente muore ogni notte, che innumerevoli persone ogni notte sognano e spessissimo sognano che loro amici o conoscenti muoiono, e che nel mondo coincidenze del genere capitano ogni notte a molte centinaia di individui. Ma mentre così rifletto, l'intuizione mi grida che la coincidenza deve avere un significato, perché è capitata a me. Se in un caso del genere l'intuizione umana commette un errore falso positivo, come in effetti fa, bisognerà cercare di spiegare perché si comporti in questo modo. Come darwinisti, dobbiamo essere pronti a rilevare le possibili pressioni che ci inducono verso il falso positivo o verso il falso negativo.

Come darwinista, congetturo che la nostra tendenza a meravigliarci di coincidenze apparentemente arcane (che è un caso particolare della tendenza a vedere correlazioni dove non ce ne sono) sia connessa al fatto che i nostri antenati erano in numero esiguo e avevano un' esperienza quotidiana piuttosto povera. Gli studi antropologici, nonché l'analisi sia dei reperti fossili sia di altre scimmie, laasciano pensare che negli ultimi milioni di anni i nostri antenati siano generalmente vissuti in piccoli gruppi erranti o in piccoli villaggi; nell'uno o nell'altro caso, quindi, avrebbero visto e frequentato non più di qualche dozzina di amici e conoscenti. L'abitante del villaggio preistorico sentiva probabilmente raccontare storie di coincidenze che apparivano incredibili in relazione all'esiguo numero dei conoscenti; di qualunque coincidenza fosse capitata a una persona esterna al suo villaggio non avrebbe infatti avuto notizia. Così il nostro cervello si abituò a rilevare «disegni» e portentose correlazioni in coincidenze che sarebbero parse di assai modesta entità se il numero di amici e conoscenti fosse stato ingente.

Oggi il numero di amicizie e conoscenze è ingente, soprattutto a causa dei giornali, della radio e degli altri mezzi di comunicazione di massa. Ho già spiegato come le notizie di coincidenze incredibili e inquietanti, circondate da un'aura sensazionalistica, vengano diffuse presso un pubblico assai più ampio di quello dei nostri antenati ominidi. Ora aggiungo che il nostro cervello, indotto dalla selezione naturale ad aspettarsi il basso livello di coincidenza della società ancestrale di piccoli villaggi, è probabilmente colpito dai casi «arcani» a causa della calibratura errata della soglia dello stupore. La nostra PCAA soggettiva è stata calibrata dalla selezione naturale in villaggi di ridottissime dimensioni e, come accade per tanti fenomeni della vita moderna, tale calibratura appare oggi superata. (Un ragionamento analogo può forse spiegare come mai abbiamo un atteggiamento isterico verso i rischi di cui più parlano i giornali: forse sono «mal calibrati» anche gli ansiosi genitori che credono che pedofili assatanati siano in agguato dietro ogni lampione quando i loro figli tornano a casa da scuola.)

Credo vi sia un altro fattore specifico che amplifica questa tendenza. Ho idea che oggigiorno, nella vita di ciascuno, l'esperienza per ora sia più ricca di quanto non lo fosse all'epoca degli antenati. Non ci limitiamo ad alzarci la mattina, guadagnarci da vivere come il giorno prima, consumare uno o due pasti e andare a letto: leggiamo libri e riviste, guardiamo la televisione, viaggiamo su mezzi velocissimi raggiungendo posti nuovi, incontriamo per strada migliaia di persone mentre andiamo al lavoro. Il numero di facce che vediamo, di situazioni diverse a cui ci esponiamo, di fatti che ci accadono, è assai più grande del numero di persone ed eventi che dovevano fronteggiare gli ominidi dei villaggi. Ciò significa che il numero di occasioni di coincidenza è, per ognuno di noi, maggiore di quanto non sarebbe stato per i nostri antenati, e quindi maggiore di quanto il nostro cervello sia in grado di gestire. Si tratta, come ho detto, di un fattore supplementare che si aggiunge al fattore, già illustrato, delle dimensioni della popolazione.

In teoria potremmo contrastare questi due effetti ricalibrandoci; in altre parole, potremmo imparare ad alzare la soglia dello stupore per farla corrispondere maggiormente alla densa popolazione odierna e alla ricca esperienza attuale. Ma l'impresa sembra riuscire assai difficile anche a sofisticati scienziati e matematici. Il fatto che ci sbaalordiamo ancora per le coincidenze, e che medium, sensitivi e astrologi riescano a ricoprirsi d'oro sfruttando la nostra ingenuità, lascia pensare che nel complesso non siamo in grado di ricalibrarci e che le regioni dell'encefalo responsabili della statistica intuitiva siano ancora ferme all'età della pietra.

Lo stesso discorso vale forse per l'intuizione nel suo complesso. Ne "La natura innaturale della scienza" (1992), l'eminente embriologo Lewis Wolpert sostiene che la scienza è difficile perché è, più o meno sistematicamente, controintuitiva. È una visione contraria a quella di un alfiere della teoria darwiniana come Thomas H. Huxley, il naaturalista dell'Ottocento secondo il quale la scienza era «solo senso comune affinato e organizzato», e «si discostava dal senso comune propriamente detto solo nella maniera in cui un veterano si discosta da una recluta». I metodi scientifici, continuava Huxley, «differiscoono da quelli del senso comune solo come un soldato delle Guardie Reali che maneggia la sciabola differisce dal selvaggio che maneggia la clava». Wolpert invece afferma che la scienza è innaturale e paradossale, non già un'estensione del senso comune, bensì un affronto al medesimo; e ne spiega con efficacia il perché. Ogni volta che beviamo un bicchier d'acqua, dice per esempio, beviamo almeno una delle molecole che passarono per la vescica di Oliver Cromwell; ed estrapola il concetto dopo aver osservato che «in un bicchiere d'acqua ci sono molte più molecole che bicchieri d'acqua nel mare». La prima legge newtoniana del moto, secondo cui gli oggetti si mantengono in movimento se una forza non li arresta, è controintuitiva, e altrettanto lo è la scoperta di Galileo, il quale verificò che, quando veniva meno la resistenza dell'aria, gli oggetti leggeri cadevano alla stessa velocità degli oggetti pesanti. È controintuitivo anche il fatto che la materia solida, perfino il durissimo diamante, sia costituita quasi interamente da spazio vuoto. Steven Pinker analizza con grande lucidità le origini evolutive delle nostre intuizioni fisiche in "Come funziona la mente" (1998).

Ancora più difficili e controintuitive sono le conclusioni della teoria quantistica, che è confermata in maniera eclatante da prove sperimentali la cui precisione si esprime con un numero elevatissimo di decimali, ma che riesce così estranea alla mente di esseri umani pur evoluti da non riuscire intuitivamente comprensibile nemmeno a molti fisici. Sembra che non solo le nostre capacità statistiche innate, ma anche il nostro cervello sia rimasto all'età della pietra.