martedì 29 luglio 2008

Lo Stato come monopolio. Il voto democratico come non-soluzione. Cenni ad una possibile soluzione.

Proseguo la risposta a Luigi Corvaglia iniziata nel post precedente.

In questa sezione si parla di monopolio; di democrazia; di società senza stato; del concetto di sfruttamento; della vicenda Ravasin-Radicali. Traduco inoltre due brani di David Friedman.


3. Monopolio di Stato e monopolio privato

Scrivi:
chiaro che l’esistenza di un ente centrale e monopolistico di produzione di norme e/o di beni comporta una forte riduzione della libertà.

Mi fa piacere che tu noti l'ironia. Lo stato non è altro che un monopolio forzoso di alcuni servizi. Per la precisione, è un monopolio dell'uso della forza (polizia); un monopolio dell'arbitraggio delle dispute (giudici); un monopolio della produzione delle leggi (parlamento).

Quindi, il sostenitore dello Stato sostanzialmente sta dicendo che un monopolio è una cosa desiderabile. Molti sostenitori dello Stato sono ostili ai monopoli (e spesso invocano l'antitrust per combatterli), ma non sembrano rendersi conto che, sostenendo la necessità dello Stato, stanno sostenendo la necessità di un monopolio. Converrai che questo è ironico.

A questo punto occorre una precisazione. Ciò che è indesiderabile non è il monopolio di per sé, bensì il monopolio coercitivo. Cioè il monopolio che è mantenuto tale con l'uso della violenza. (Cioè il monopolio di Stato.) Mi spiego. Se un monopolio è coercitivo, cioè riesce a impedire con la violenza ai concorrenti di entrare nel mercato, allora la qualità del suo servizio può scendere a piacimento e il prezzo può salire a piacimento. Ciò vale anche per lo Stato: dato che lo Stato impedisce la concorrenza nei settori delle forze dell’ordine, dei giudici, e della produzione delle leggi, ne segue che la qualità dell’arbitrato, della protezione, e della legge possono scendere praticamente senza limite. Non temendo di perdere clienti, questi organi inizieranno a seguire altri obiettivi che non quello di soddisfare i clienti, divenendo meno efficienti e più corruttibili. Come si vede, l'intero problema deriva dal fatto che gli organi di Stato non temono di perdere clienti e vedere così le proprie entrate diminuire. In altre parole, il problema è che le entrate dello Stato non dipendono dalla qualità del servizio. Se i servizi dello Stato sono inefficienti, lo Stato non fallisce: continua a ricevere entrate sotto forma di tasse, in quantità invariata o addirittura maggiore. Ma tutto ciò è possibile solo in quanto lo Stato è un monopolio forzoso. Può fare cose che un normale privato non può fare, cioè riscuotere il pagamento con la forza, indipendentemente dalla qualità del servizio.

Al contrario, un monopolio privato non può diminuire a piacimento la qualità del servizio. Un monopolio privato può continuare ad esistere solo fintanto che la qualità del suo servizio è abbastanza alta, ed i suoi prezzi sono abbastanza bassi, che nessuno trova conveniente inserirsi nel mercato e competere. Ma non appena il monopolio privato (chiamiamolo A) alza i prezzi oltre una certa soglia, o diminuisce la qualità oltre una certa soglia, qualche altro imprenditore B si accorge che può inserirsi in quel settore, vendere a meno, ed avere un profitto. Quindi l'imprenditore B uscirà dal settore in cui si trovava prima ed entrerà nel nuovo settore, facendo concorrenza ad A, che smetterà di essere un monopolista; ed A sarà costretto a tornare efficiente, oppure perderà tutti i clienti e scomparirà.

Quindi, nel monopolio privato, non è vero che la qualità del servizio può scendere a piacimento e il prezzo salire a piacimento; questo vale solo per il monopolio di Stato, che è mantenuto tale dall’uso della violenza.

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Esaminiamo una possibile obiezione: il voto democratico non serve proprio ad evitare questo problema? In parole povere: se il servizio dello Stato scade troppo in qualità, io voto l'altro partito. Perché questo non dovrebbe funzionare?

E' vero che in teoria il meccanismo del voto democratico dovrebbe introdurre un elemento di concorrenza all'interno dello Stato, che dovrebbe impedire ai prezzi dei servizi di Stato di salire a piacimento e alla qualità di scadere a piacimento. Ma questo sistema ha dei problemi, esaminati in parte qui da David Friedman, che ne minano il funzionamento. In breve:

1. Prima di tutto, il cittadino votante ha problemi di informazione: tende a non comprendere le cause dello scadimento della qualità dei servizi e dell'aumento di prezzo. (Per fare un esempio classico, la maggioranza degli italiani sembra credere che i dazi possano aumentare il loro benessere, e che il cittadino che compra merce dalla Cina faccia il proprio interesse individuale alle spese dell'Italia). Quindi, in parole povere, il cittadino "non sa chi votare".

2. Inoltre, il cittadino ha problemi di incentivo ad informarsi. Dato che il mio voto ha solo una probabilità piccolissima di influire sull'esito delle elezioni, e che informarmi mi costa molto in termini di tempo, allora i costi dell'informazione sono per me molto superiori ai benefici. Ci sono per me modi molto più utili di usare quel tempo. Quindi razionalmente sceglierò di restare ignorante (ignoranza razionale).

3. Terzo, c'è il problema delle lobby. Consideriamo una legge che complessivamente danneggia il paese, ma che dà un beneficio ad alcuni gruppi di interessi particolari (lobby). Ad esempio, l'introduzione di un dazio sulle importazioni. Il problema è che ciascun cittadino, preso singolarmente, ha pochissimo da perdere dall'introduzione di questa legge; mentre ciascun membro della lobby ha moltissimo da guadagnare dall'introduzione della stessa. Quindi ogni membro della lobby sarà disposto ad investire una parte molto consistente delle sue risorse per far approvare quella legge; al contrario del cittadino. (Inoltre i membri della lobby, essendo numericamente molti meno, avranno minori costi di coordinamento
rispetto ai cittadini.) Quindi, sommando i contributi di entrambe le parti, la quantità che la lobby sarà disposta ad offrire ai politici per approvare quella legge sarà maggiore della quantità che i cittadini saranno disposti a offrire per non farla approvare. Quindi quella legge inefficiente sarà approvata.

Questi problemi sono matematici, perché risiedono nella teoria dei giochi; e sono intrinseci nel sistema democratico. L'unico modo di eliminare questi problemi sembra essere di ridurre la quantità di informazione che il cittadino deve conoscere per scegliere. Cioè, occorre un sistema in cui il cittadino non abbia bisogno di capire il motivo dello scadimento del servizio; tutto ciò che deve fare è acquistare il servizio dove costa meno. Con questo sistema, ciascun cittadino acquisterebbe la protezione personale e l'applicazione delle leggi da agenzie private, sul libero mercato, tenendo conto del prezzo di ciascun pacchetto. Potrebbe ad esempio rinunciare a una certa legge se non ritiene che valga ciò che costa, o scegliere il sistema di protezione più adatto alle sue esigenze, valutando i costi e i benefici.

La prima conseguenza di un tale sistema sarebbe che le leggi più invasive della libertà altrui sarebbero automaticamente più costose (perché applicarle costerebbe di più: invadere gli altri ha un costo; lasciarli in pace è gratis). La seconda conseguenza è che diventerebbe immediatamente evidente quando una legge è inefficiente: costa di più. Non servirebbe quindi al cittadino avere una laurea in economia per capire quando una legge fa bene o male al Paese. Questo risolverebbe i problemi 1 e 2, quelli relativi all'informazione del cittadino.

Anche il terzo problema, quello delle lobby, sarebbe risolto. Ad esempio, nel caso dei dazi, la lobby che decidesse di introdurre i dazi si troverebbe a pagare per quella legge un prezzo altissimo, che compensa esattamente il danno che fa al paese. In un post successivo intendo descrivere il sistema in questione e dimostrare le proprietà di cui sopra (se Friedman mi aiuta).

Cambiamo discorso.
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4. Sul funzionamento di una società senza Stato

Dici:
Fra gli esiti più grotteschi e paradossali di una logica simile c’è il fatto che, se un individuo riuscisse, con sistemi validi, a divenire proprietario di un intero paese in cui imponesse leggi liberticide e razziste, e chiudesse anche le frontiere agli immigrati, essendo il diritto di proprietà anche quello di disporne a piacimento, tale situazione potrebbe dirsi libertaria...

Se per "proprietario di un intero paese" intendi "unico proprietario dei servizi di protezione, di arbitrato ecc", allora costui non potrebbe imporre leggi liberticide a persone non consenzienti. Un'agenzia di protezione che facesse ciò diventerebbe immediatamente criminale secondo la teoria libertaria. Il tuo esempio quindi non sarebbe valido: non è vero che il libertarismo permetterebbe ciò.

Se invece intendi "proprietario della terra", allora è vero che potrebbe stabilire a piacimento le leggi: a casa propria ognuno è sovrano. Chi non apprezzasse le sue leggi sarebbe libero di andare a vivere altrove, dove le condizioni di vita sono migliori. I proprietari delle terre confinanti, naturalmente, farebbero a gara per convincere le persone a migrare nel loro territorio, offrendo loro condizioni di vita più vantaggiose. In tal caso nessuno avrebbe più rapporti con il proprietario in questione, che dovrebbe cambiare atteggiamento oppure perderebbe la sua enorme proprietà più rapidamente di quanto l'ha acquisita. Ciò è ovvio: se non ti piacciono le leggi in un dato territorio, tu non ci entri e vai altrove. Quindi il proprietario di quel territorio perderà clienti e scomparirà dal mercato.

In ogni modo, è un’ipotesi molto improbabile che qualcuno possa diventare “proprietario di un intero paese” senza fare uso di violenza. (Anzi, ironicamente, la tua è un’ottima descrizione dello Stato.) Chiediamoci che cosa davvero ciò significhi. Se davvero qualcuno riesce a estendere molto le sue proprietà con mezzi legittimi, cioè senza usare la violenza, significa che ha dato ai cittadini qualcosa che per loro ha un grande valore (altrimenti perché lo avrebbero pagato così tanto?); cioè significa che ha fatto del bene in gran quantità. Ma può conservare la sua proprietà solo fino a che continua a far ciò. (Ricorda quanto detto prima sul monopolio in un regime di libero mercato: tale monopolio può esistere solo finché offre un buon servizio a prezzi bassi).

Quindi costui, smettendo di colpo di soddisfare le esigenze dei cittadini, perderebbe la sua posizione e la sua proprietà molto più rapidamente di quanto l'ha acquisita. A meno che, per conservare la sua posizione, non decidesse improvvisamente di cominciare a usare la violenza, nel qual caso diventerebbe uno Stato. Ma questa eventualità è molto improbabile, perché nel mercato dei servizi di protezione non sembra esistere un monopolio naturale; quindi una singola compagnia di protezione non raggiungerebbe la dimensione critica che le renderebbe conveniente richiedere pagamenti obbligatori e diventare così uno Stato.

Sempre su questo argomento cito David Friedman, un pezzo che credo tu abbia letto:

“Immaginiamo come sarebbe il nostro mondo se il costo per andare da un paese a un altro fosse zero. ... Un giorno il presidente francese annuncia che, a causa di problemi con le nazioni confinanti, verranno introdotte nuove tasse per le spese militari e che presto inizierà il reclutamento di nuove truppe. Il mattino seguente il Presidente francese si ritrova a governare un territorio pacifico, ma completamente vuoto, perché la popolazione si è ridotta, oltre a lui, a tre generali e ventisette corrispondenti di guerra.

Noi non viviamo in una roulotte; ma se potessimo comprare la nostra protezione personale da una società privata, invece che dallo Stato, potremmo cambiare compagnia non appena ne trovassimo un’altra in grado di offrire un servizio migliore. Possiamo cambiare il nostro protettore senza cambiare nazione.

(L'ingranaggio della libertà)

Suggerisco che anche il Duce che tu descrivi si ritroverebbe improvvisamente un re senza regno.

Continui poi:

Si ha, insomma, la netta sensazione che, più che tutelare il dinamico ed autopoietico mercato, si finisca per difendere la statica proprietà,

Mi viene da chiedere: la tua proprietà come l’hai ottenuta? Probabilmente rendendo un servizio agli altri. (Oppure usando la violenza). Se tu hai ottenuto un grande profitto senza usare la violenza, vuol dire che hai fornito un servizio di grande valore. Quindi la tua proprietà non è una cosa “statica”; è una misura del bene che hai fatto agli altri.

Credo che la difesa di diritti naturali non possa fare a meno dello stato.

1. In pratica stai dicendo che un monopolio forzoso può tutelare i diritti delle persone meglio di agenzie private in concorrenza tra loro. Detto così suona meno convincente.

2. Si osserva che lo Stato viola i diritti delle persone su base quotidiana, mediante istituzioni come proibizioni, guerre, leva, tasse, ecc. Ho difficoltà a capire come una violazione dei diritti possa essere considerata una difesa dei diritti.

A proposito, ti consiglio la lettura di due testi liberamente scaricabili in inglese: “Chaos Theory” di Murphy e l’articolo “responses to ten objections” di Roderick T. Long.

Nel nostro esempio precedente, ad esempio, il proprietario avrebbe potuto mantenere il suo ruolo di dittatore, solo facendo intervenire la soldataglia del paese a massacrare gli insorti,

Non capisco: tu stai descrivendo una dittatura, non il libertarismo. E non vedo in che modo questo supporti la tua tesi che lo stato sia necessario per difendere i diritti.


5. Sullo sfruttamento

Dici:

Credo che lo sfruttamento esista. Secondo gli anarco-capitalisti il concetto di sfruttamento non ha senso.

Non è vero. Secondo i libertari lo sfruttamento esiste, ma non è quello che pensi tu :). Per loro, sfruttare una persona significa farle qualcosa contro la sua volontà. Se io ti faccio qualcosa contro la tua volontà, cioè ti costringo a fare qualcosa, allora ottengo un beneficio alle tue spese. Cioè ti “sfrutto”.

Un esempio di sfruttamento è la schiavitù. Questa è sfruttamento _non_ perché il padrone ne trae beneficio, ma perché lo schiavo agisce sotto coercizione del padrone; lo schiavo non ha mai accettato liberamente, con un contratto, di subire quel trattamento. Un altro esempio di vero sfruttamento è l'estorsione, come quella effettuata dallo Stato, dalla Mafia, dal Vaticano, ecc.

Affinché io ti sfrutti, non basta che io tragga beneficio; è necessario che io ti stia costringendo con la forza, o minacciando di usare la forza. Se invece tu hai accettato la transazione libero da coercizione, allora entrambi traiamo un beneficio. Se vogliamo chiamarlo sfruttamento, allora ci stiamo sfruttando a vicenda.

Se il semplice fatto di trarre beneficio da una collaborazione si chiama sfruttamento, allora tutti sfruttano tutti: lo scolaro che impara la matematica sta sfruttando il professore; il professore che dà lezioni a pagamento sta sfruttando l’alunno (perché non impartisce lezioni gratis). Ma in questo caso la parola perde senso. Per questo l’unica definizione sensata della parola “sfruttamento” mi pare quella in cui io ti costringo a fare qualcosa contro la tua volontà; mediante la violenza o la minaccia di violenza. Solo in questo caso io ottengo un guadagno e tu una perdita.

Infatti, secondo la logica delle “preferenze dimostrate”, un operaio che accetta una paga misera preferisce, dimostrandolo con atto concludente, tale paga a nessuna paga. Certo. La cosa non tiene conto che, oltre all’offerente ed all’accettante, esiste un terzo elemento, definito bisogno, che fa si da rendere preferibile e dimostrata la scelta accettante, ma il bisogno non è stato, a sua volta interrogato.

Il bisogno non è stato interrogato? Non capisco. Come si fa a interrogare un bisogno?

Comunque, il bisogno non ti conferisce dei diritti aggiuntivi. Ad esempio, se io sto morendo di fame, e per sopravvivere scassino la tua casa e rubo un televisore, devo comunque rifonderti il danno. Non posso cavarmela dicendo “ma io avevo molto bisogno di entrare in casa tua”. Mi pare intuitivo.

Altri due esempi:

1.

Tua moglie sta morendo e devi portarla all’ospedale. Hai bisogno assoluto di arrivarci entro dieci minuti. Se tu, nella foga di portare tua moglie all'ospedale, investi qualcuno con la macchina, o danneggi la proprietà di qualcuno, il fatto che stavi cercando di salvare tua moglie _non_ ti esime dal dovere di risarcire il danno. Il giudice ti condannerà al risarcimento. Questo significa che non avevi il _diritto_ di farlo. Questo dimostra che la necessità non ti dà diritti ulteriori. Se la necessità di salvare tua moglie ti desse qualche diritto aggiuntivo, il giudice non ti condannerebbe.

2.

Tu torni a casa, la trovi scassinata, segui le tracce, arrivi a casa di un tizio, e vedi che ha il tuo televisore. Gli chiedi la restituzione, e lui risponde: "No, _tu_ non hai alcun diritto a riavere la tua proprietà, perché _io_ avevo un enorme bisogno di essa." Qual è l'aggettivo adatto per descrivere questo pensiero? Io lo definirei marxista.

In questi casi, tutto ciò che il libertario dice è che, se tu violi la proprietà altrui, allora devi rifondere la vittima. Cioè, anche se hai agito spinto dal bisogno, sei responsabile lo stesso per i danni. Ad esempio, se hai fame e rubi un pezzo di pane, poi devi restituire un pezzo di pane. Questo è in parole povere ciò che dicono i libertari. E non è un problema, se ci pensi. Voglio dire: se davvero in quel momento avevi un gran bisogno di quel pezzo di pane, allora ne hai tratto un gran beneficio. Ma allora, anche dopo aver risarcito il proprietario, ti resta un beneficio maggiore di zero! Cioè, anche dopo aver scontato la pena, ti resta un guadagno. Ma allora dov’è il problema?

(In realtà la questione è un po' più complessa; il libertario sostiene che la vittima ha il diritto di infliggere su di te qualunque sofferenza tu abbia inflitto su di lei. Questa condizione è più generale del semplice risarcimento, ma in questa sede non è il caso di distinguere.)

Il più delle volte, però, i bravi “offerenti” si impegnano a mantenere ben pasciuto il comodo terzo incomodo per poterlo poi sempre ospitare quale convitato di pietra alle loro trattative. Beh, io lo chiamo sfruttamento.

Temo di non capire; avrei preferito un esempio più concreto.

Sempre in tema di sfruttamento, ecco una citazione del nostro David Friedman:

“Spesso si dice che alcuni partecipanti dell’economia ne sfruttano altri. La cosa più comune è sentir dire che i datori di lavoro sfruttano i dipendenti. In simili discussioni, ci sono implicitamente due definizioni diverse di sfruttamento. La prima è che io sfrutto te se io traggo un beneficio dalla tua esistenza. In questo senso, io spero di sfruttare mia moglie e lei spera di sfruttare me; finora entrambi siamo riusciti nel nostro intento. Se è questo che significa sfruttare, allora lo sfruttamento è la ragione per cui gli umani sono animali sociali e non solitari, come i gatti.

Gli amici che hanno affittato il nostro terzo piano sono giardinieri entusiasti; noi non lo siamo. Noi otteniamo un servizio di giardinaggio gratis; loro ottengono l’uso gratuito di un giardino da curare. Chi sta sfruttando chi?

La seconda definizione è quella che dice che io sfrutto te se io guadagno e tu perdi dalla nostra associazione. Le due definizioni possono essere identificate in due modi: o sostenendo che il mondo è un gioco a somma zero, in cui una persona può guadagnare solo alle spese di un’altra, oppure sostenendo che se io ottengo un beneficio dalla nostra associazione devo darlo a te, quindi il mio rifiuto di dartelo ti danneggia. Il primo argomento non è plausibile. Il secondo ha una curiosa asimmetria. Se io do a te tutto il beneficio, adesso tu hai tratto un beneficio dalla nostra associazione, e quindi dovresti darlo a me. Potrebbe essere più sensato tenere la parola “sfuttamento” fuori dalle discussioni economiche e riservarla per l’invettiva politica.”

(Hidden Order: the economics of everyday life)


In un’altra parte del libro, se ben ricordo, Friedman sostiene che denunciare lo sfruttamento in una transazione volontaria equivale a sostenere che una delle due parti dovrebbe prendersi tutto il beneficio. Questo, se ci rifletti, non è molto ragionevole.

A questo proposito, recentemente mi sono trovato a difendere i Radicali e L’Associazione Coscioni. Un mio amico sosteneva, a proposito della vicenda di Paolo Ravasin e del testamento biologico, che i radicali si stessero “approfittando” di quella persona sfortunata; cioè che lo stessero sfruttando. Specialmente perché chiedevano soldi usando la sua immagine. Gli ho risposto che quello non si può chiamare sfruttamento, perché presumibilmente c’era la volontà di Ravasin di essere trattato così. Questo dimostra che lui stesso ne ha tratto un beneficio. Quindi i radicali tecnicamente stanno facendo del bene a Ravasin; che è il contrario esatto dello sfruttamento. Se poi i radicali, oltre a fare del bene a Ravasin, stanno avendo anche un profitto, questo non cambia il fatto che stanno facendo del bene. Non è necessario che una delle due parti (Ravasin) si prenda tutto il beneficio, affinché un’azione possa essere classificata come “fare del bene”.

Ricordo che Coscioni disse: se quello dei Radicali verso di me è sfruttamento, benissimo, voglio essere sfruttato ancora.


6. Sul conservatorismo culturale dei libertari
La predominante cultura anarco-capitalista è conservatrice. ... Non si capisce per quale motivo ... questi autori si lanciano in, per me inammissibili, tirate filo-cattoliche preconciliari, anti-evoluzionistiche, teo-con e contrarie ad ogni forma di laicità.


Su questo condivido il tuo sconforto, specialmente verso l’atteggiamento antiscientifico di molti libertari.

Qualche piccolo appunto: per quanto riguarda la laicità, è un concetto che si applica allo stato, quindi per i libertari la parola ha ben poco senso. Io prima di considerarmi libertario già sostenevo che la parola laicità è una parola superflua: basta la parola ragione.

Nella mia esperienza, la maggioranza dei libertari sembra essere atea. Una buona parte (non so se la maggioranza) è culturalmente conservatrice, nel senso che tu dici e che io trovo molto sgradevole (ad es. sono specisti; Block addirittura è contro la RU-486, ecc). L’antievoluzionismo c’è, ma è una corrente di minoranza, per quanto ne so. Il clericalismo c’è. Forse dal loro punto di vista ha più senso, visto che negli USA le confessioni religiose, per quanto ne so, non ricevono fondi pubblici e sono quindi vere associazioni volontarie (nel senso di finanziate volontariamente); e quindi forse i libertari le considerano ottimi alleati contro lo Stato: più potere alle confessioni significa più potere a un’associazione volontaria, quindi meno potere allo Stato. Ti ricordo che per i libertari tutto ciò che conta è che un’associazione sia finanziata volontariamente. Sostengono persino il comunismo volontario!


Un piccolo test di personalità: cosa rispondete alla domanda “Qual è l’organizzazione criminale più grande? la Chiesa o lo Stato?”. Io mi unirei ai libertari nel rispondere “lo Stato”. Sono forse clericale per questo? Spero di no. :)

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domenica 27 luglio 2008

Diritto e potere. Utilitarismo, libertarismo, Friedman, Rothbard

Pubblico un mio commento ad un post di Luigi Corvaglia che critica il libertarismo americano. In questa parte del commento parlo del diritto naturale in relazione all'evoluzione; nella seconda parte tocco temi disparati come: il monopolio, lo sfruttamento dei lavoratori, il caso Ravasin e i Radicali, il funzionamento di una società senza Stato.

Cominciamo.

1. Distinzione tra diritto e potere

Dici di "non credere nei diritti naturali”, su cui molti libertari americani fondano la propria filosofia.

L'unica cosa che mi preme notare è che, in un certo senso, la dottrina del "diritto naturale" è banalmente vera. Il senso è il seguente. Lo studio della biologia, e in particolare della psicologia evoluzionistica, rivela che la selezione naturale ha programmato i nostri cervelli, dotandoli di alcune regole morali di base; (regole piuttosto vaghe e generiche, come ad esempio "non utilizzare un tuo simile come mezzo non consenziente per uno scopo", o “è sbagliato aggredire un innocente”. Vedi il libro “Menti Morali” di Marc Hauser per ulteriori dettagli e per l'evidenza che queste regole non dipendono dalla cultura.)

Gli umani alla nascita non sarebbero dunque una tabula rasa, ma possiederebbero già alcune regole morali innate, pre-inserite nel cervello, pre-programmate, che definiscono cosa è "giusto". (Incidentalmente, una di queste regole sembra essere il rispetto dei diritti di proprietà: sembra che i bambini molto piccoli possiedano già il senso della proprietà.)

Queste regole innate sono comunque abbastanza generiche e possono essere “istanziate”, o “specializzate”, dalla cultura, o dalla scelta personale. Ad esempio, una regola innata sembra essere che “è sbagliato aggredire un tuo simile innocente”, mentre è probabilmente la cultura a definire chi è il “tuo simile”. (Ad esempio la cultura può stabilire che "tuo simile" è ogni individuo della tua religione, o ogni essere umano, o ogni essere umano maschio, o ogni essere senziente compresi gli animali, ecc.)

Queste regole generiche, che per natura sono presenti nei nostri cervelli, si possono chiamare "diritto naturale". Quindi, almeno in questo senso, il diritto naturale esiste.



Un altro modo di dimostrare l'esistenza del diritto naturale è questo. Supponi che uno Stato promulgasse una legge che dice che è consentito uccidere tutti quelli che hanno i capelli rossi. Questo renderebbe forse legittimo uccidere le persone dai capelli rossi? Darebbe forse a me il diritto di uccidere quegli innocenti? Certo che no. Ma allora il diritto non coincide con la legge dello Stato. Deve esistere qualche altro diritto, preesistente al diritto positivo, che ha per noi la precedenza. Questo diritto, questo insieme di regole di cui abbiamo dimostrato l'esistenza, che preesiste alle leggi dello Stato, si può chiamare diritto "naturale".

E “dove si trova” questo diritto? Forse in qualche platonico iperuranio? No. Lo studio della psicologia suggerisce che quelle regole si trovano semplicemente nel nostro cervello, proprio come un software si trova dentro un computer, sotto forma di configurazioni di simboli. Le regole del diritto sono il software, il cervello è l’hardware; il programmatore è l'evoluzione. E’ questa quindi la natura fisica di quelle regole: sono simboli scritti nel cervello, dotati di una natura materiale, come delle scritte in rilievo su un muro; sono simboli con proprietà causali sul mondo materiale; esistono nel mondo e non soltanto in un mistico iperuranio.

Quindi il diritto naturale esiste, sotto forma di regole scritte nel cervello sin dalla nascita. Cosa interessante, a quanto pare noi non abbiamo la capacità di modificare queste regole; cioè non possiamo ridefinire il concetto di “giusto” mediante la logica o la volontà. Ad esempio, anche se razionalmente mi rendo conto che, uccidendo Tizio, posso salvare la vita di mille persone, ciò non farà mai diventare giusta l’uccisione di Tizio. Non sono in grado di considerare “giusta” quella violenza su un innocente, anche se dal punto di vista utilitaristico sembra essere la cosa migliore da fare. (Attenzione: non sto dicendo che non sono in grado di fare quella cosa, ma solo che non sono in grado di percepirla come giusta.)

E perché non sono in grado di considerarla giusta? Per lo stesso motivo per cui non posso considerare verde una cosa che mi sembra gialla. In breve, perché è l'evoluzione che ha stabilito cosa il mio cervello può considerare giusto. Per dirla in modo teatrale, alla Dawkins, io sono una macchina fatta per considerare ingiusta quella cosa; e non sembro capace di riprogrammarmi e considerarla giusta. Il diritto naturale non sembra modificabile dall’uomo fino a tal punto.

(Sebbene l'informatica insegni che, entro certi limiti, una macchina potrebbe essere capace di riprogrammarsi, tuttavia, nel caso del senso di giustizia, l’evoluzione non sembra averci dotato di questa capacità. La cultura o la logica o la volontà possono solo specializzare entro certi limiti le regole innate, non reinventarle. La manipolazione diretta del cervello o del DNA potrebbe forse modificare il diritto in modo più radicale, ma non abbiamo ancora conoscenza sufficiente per far ciò.)

Riassumendo: il diritto naturale esiste, non è solo un'invenzione di Ratzinger; è un insieme di regole scritte nel cervello, che definiscono cosa noi consideriamo giusto, e sulle quali abbiamo relativamente poco controllo. Questo diritto naturale è indipendente dalle leggi dello stato (diritto positivo). Le leggi dello stato sono espressione del potere, non del diritto.

Ma tutto questo non dovrebbe far esultare i giusnaturalisti, perché, sebbene il diritto naturale esista, per quanto ne so nessuno ha ancora dimostrato che bisogna rispettarlo. (Anzi nessuno ha mai dimostrato alcuna proposizione contenente la parola "dovere".) Siamo perfettamente in grado di ignorare il diritto naturale, cioè di fare cose che percepiamo come ingiuste; e nessuno ha dimostrato che non "dovremmo" farlo. Perché dovrei rispettare il senso di giustizia che l'evoluzione (o Dio) mi ha dato? Nessuno, che io sappia, è riuscito a colmare il "buco" tra "ciò che è" e "ciò che dovrebbe essere"; tra normativo e positivo. (Rothbard e Hoppe sembrano credere di averlo colmato, ma secondo me si sbagliano.)

Un altro motivo per cui il libertario non dovrebbe esultare è che il diritto naturale non sembra coincidere del tutto con la teoria libertaria (vedi articolo di Pinker).

Prosegui:

C’è un che di mistico nel processo di transustanziazione della terra che, mescolandosi lockianamente al mio lavoro, diviene mia.

E’ vero, c’è un che di mistico. Ma, per quanto mistica, questa sembra essere la regola che l’evoluzione ha scritto nei cervelli. Ad esempio, un bambino di 4 anni dice “Questa conchiglia è mia, perché l’ho trovata io”. Oppure dice “Questa macchinina è mia, perché me l’ha data lui”. I bambini sono libertari innati --- e non solo sotto questo aspetto.

Del resto, la regola di "transustanziazione della terra" non è stata certo inventata da Locke, il quale si è limitato a formalizzare una regola che già conosceva intuitivamente. Il vero inventore della regola è l'evoluzione. Probabilmente quella regola aumenta la probabilità di sopravvivenza dei geni che la producono, ed è per questo che esiste nei cervelli umani.

In altre parole: io semplicemente sento che una cosa è mia di diritto perché l’ho trovata per primo. Il fatto che tutto ciò mi sembri “mistico” non cambia le cose: per quanto ciò mi sembri mistico, non potrò mai smettere di considerare legittimo proprietario colui che trova una cosa per primo. Non ho la capacità di ridefinire ciò che ritengo legittimo; non potrò mai cambiare idea su ciò che ritengo giusto (come su ciò che ritengo verde).

Poi dici:

Non esiste diritto se non riconosciuto.

Questo somiglia al positivismo giuridico, dottrina che ha dei problemi, messi in luce dal paradosso dei capelli rossi precedentemente citato, oppure dalla seguente domanda:

"Se la maggioranza smette di riconoscere il diritto alla vita degli ebrei, improvvisamente gli ebrei non hanno più il diritto alla vita? Improvvisamente colui che li uccide non sta più commettendo alcun crimine o ledendo alcun diritto?

E che dire della schiavitù? Il diritto dei neri non esisteva prima di essere "riconosciuto"? Gli schiavisti non stavano ledendo alcun diritto?"

A me pare impossibile rispondere di sì. Questo dimostra, a mio avviso, che il diritto non è il risultato di una convenzione o del consenso; è un insieme di regole preesistente a qualunque convenzione.

Oggi la scienza permette di spiegare come possa esistere qualcosa di "preesistente" alle convenzioni umane: il diritto naturale è preesistente alle convenzioni umane semplicemente perché è stato scritto nei nostri cervelli molto prima di qualunque convenzione; è stato scritto dall'evoluzione in tempi antichissimi. Le convenzioni umane, a quanto pare, se vanno contro quel diritto preesistente, vengono percepite come ingiuste. Il diritto è preesistente alla legge, e non può essere abrogato o modificato da alcuna convenzione. (Cioè, qualunque convenzione che provasse ad abrogarlo sarebbe immediatamente percepita come ingiusta.)

Esiste anche altra evidenza che il diritto preesiste alla legge o al consenso. Se il diritto non fosse preesistente alla legge, perché ci scalderemmo tanto quando viene promulgata una legge che ci sembra ingiusta? Come potremmo mai dire che una legge dello Stato è ingiusta, se fosse davvero lo Stato a definire il diritto, a definire cosa è giusto? Evidentemente il diritto deve essere già dentro di noi.

come diceva Stirner, la proprietà, più che un furto è “un dono”, perché è l’acquiescenza degli altri che ci permette di continuare a possedere.

Mi pare che tu confonda il potere col diritto. Il consenso degli altri ci dà il potere di continuare a possedere; ma non ci dà il diritto di continuare a possedere. Quel diritto ce l’abbiamo in ogni caso, è scritto nei cervelli, e nessuno ce lo può togliere (almeno fino a che costui non riprogramma il mio cervello in modo da cambiare la mia percezione di cosa è giusto e cosa no, di cosa è mio diritto e cosa no).


è allora ovvio che tutti partecipano, attivamente o passivamente, a definire i diritti vigenti in un dato momento e luogo;

Ma, Luigi, il diritto non è qualcosa che tu puoi “definire”, come fossi un burattinaio che sta inventando le regole con cui devono muoversi i pupazzi. Infatti, qualunque cosa tu “definisca”, se non è compatibile con le regole di giustizia che sono già presenti nel mio cervello, io la percepirò come ingiusta. Ma allora, tu non avresti “definito” il diritto; avresti definito solo il potere (che cosa io posso fare senza essere aggredito).

Ad esempio, se tu e un altro milione di persone stabilite che io non posso farmi una canna, non è che improvvisamente io non ho più il diritto di drogarmi, o che magicamente drogarsi diventa “illegittimo” o "ingiusto". Non è che Pannella che mi ha dato la canna diventa improvvisamente un criminale; i criminali restate tu e quel milione di persone che avete deciso di applicare quella regola ed impedire con la forza uno scambio volontario tra persone consenzienti.

Per fare un altro esempio: se domani la gente si mette d’accordo che non si può cantare “o sole mio” dopo le 20, non è che magicamente tu non hai più il diritto di farlo. E’ vero al più che tu non hai più il potere di farlo (perché se lo fai vieni aggredito) ma il diritto ce l’hai comunque.

Insomma, diritto e legge sono due cose diverse. La legge è espressione del potere, non del diritto. I diritti non possono essere “stabiliti” o “ridefiniti” da nessuno: sono regole praticamente immutabili programmate dall’evoluzione nel cervello (come “è sbagliato aggredire un innocente”, ecc), che entro certi limiti possono essere specializzate dalla cultura. Il tuo consenso può darmi, al massimo, il potere materiale di fare qualcosa, non il diritto di farla.

ma questo continuo ridisegnamento del mondo esce dall’ambito della sacralità per entrare in quello dell’utilità. La proprietà non è sacra, è, al più, utile.


Questo “ridisegnamento” del mondo, che tu vedi come l’atto di definire i diritti, è solo una definizione dei poteri; cioè è la definizione di che cosa ciascuno di noi può fare senza essere aggredito.

Per quanto riguarda l’utilitarismo: questa dottrina (che io una volta sostenevo con convinzione) ha evidenti problemi. Ad esempio, prendi lo scenario seguente: un medico ha 5 pazienti in punto di morte. Ognuno di essi, per vivere, ha bisogno di un organo differente. Il medico si accorge che in sala d’aspetto c’è una persona perfettamente sana. Se la uccidesse e prendesse i suoi organi, potrebbe salvare 5 vite. Cinque al prezzo di uno. Domanda: è giusto uccidere la persona per salvarne 5? Secondo la dottrina utilitaristica, la risposta sembrerebbe essere sì. Ne segue che non siamo utilitaristi. Evidentemente nel nostro cervello c’è una regola che non risponde ai criteri utilitaristici (lascio a te il compito di scoprire quale sia questa regola).

David Friedman, ne L’Ingranaggio della Libertà, fa un esempio simile: lo sceriffo che condanna a morte un innocente per salvare la vita di molti cittadini. Friedman stesso nota i problemi dell’utilitarismo e dichiara di non essere filosoficamente un utilitarista. (Eppure quasi tutti lo chiamano utilitarista, cosa che lo fa innervosire.)

La proprietà non è sacra, è, al più, utile.

Noto che poni di frequente un’alternativa tra utilitarismo e “sacralità”. Per te, o i diritti di proprietà sono fondati sull’utilità, oppure sono “sacri”. Beh, io non vedo nulla di sacro o di mistico nel dire che le regole di funzionamento di una macchina sono fissate, e non si possono cambiare a piacimento. Io, in quanto macchina, non sono in grado di considerare “giusta” una cosa che ritengo ingiusta, indipendentemente da cosa è utile o da cosa la maggioranza ha stabilito lecito. E’ al di là delle mie capacità così come stabilite dal mio programmatore (la selezione naturale), proprio come non riesco a considerare verde una cosa che mi pare gialla. La selezione naturale mi ha dato la capacità di fare qualcosa che ritengo ingiusto, ma non la capacità di considerare giusta quella cosa. Questo non significa che per me il diritto sia qualcosa di “sacro”. Significa solo che è una cosa che non posso cambiare. Una cosa può essere immutabile senza essere sacra. Voglio dire, le macchine hanno dei limiti.

Gli anarco-capitalisti, con il loro giusnaturalismo (escludendo dal novero l’ottimo Friedman)

Forse Friedman non va escluso, perché è dichiaratamente libertario e non utilitarista, presumibilmente giusnaturalista.

possono, sulla base di indimostrabili assiomi sulla sacralità di taluni diritti calati dal cielo

Ma tutti gli assiomi sono indimostrati. Se provi a dimostrarli, necessariamente li dimostri in termini di altri assiomi, i quali resteranno a loro volta indimostrati. Quindi tutti noi abbiamo degli assiomi etici indimostrati --- te compreso, immagino. Nessuno (neppure gli utilitaristi, ammesso che esistano) sono in grado di dimostrare i propri assiomi.

Un esercizio interessante è fare introspezione su se stessi per scoprire quali siano i propri assiomi etici. Uno dei miei assiomi è che l’aggressione contro un non-aggressore è sempre sbagliata, indipendentemente dalla ragione e dalle conseguenze; e quindi è giusto che l’aggressore risarcisca la vittima in proporzione, se essa lo richiede. Considero questo un assioma non perché lo posso dimostrare (nessuno può dimostrare i propri assiomi) ma semplicemente perché questa regola emerge nella mia coscienza; cioè, io sono una macchina programmata per considerare ingiusta quella cosa.


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2. Sui vari significati della parola "libertà"

Scrivi:
indice relativo di libertà è la scelta (di oggetti, stili di vita

Una precisazione: per un libertario, la libertà non è la quantità di scelte o la quantità di opportunità di cui disponi, bensì è la condizione in cui tu non vieni aggredito da altri; la condizione in cui la tua persona e la tua proprietà legittima non subiscono l'aggressione o l'invasione di altre persone.

Per notare la differenza con l'altra definizione, basta notare che, per un libertario, Robinson Crusoe su un'isola deserta è perfettamente libero. Anche se sta morendo di fame ed ha pochissime opportunità o scelte. Ad esempio, Robinson è perfettamente libero di andare sulla luna (sebbene non sia capace di farlo) in quanto nessuno glielo impedisce.

Il caso vuole che questa definizione di libertà (“libertà negativa”) si sia rivelata a posteriori l’unica compatibile con le scoperte scientifiche. Infatti, ciò che abbiamo scoperto sul funzionamento della mente sembra indicare che noi non siamo liberi dai nostri stessi processi mentali. Le nostre decisioni (il cosiddetto “arbitrio”) sono il risultato finale di una computazione che avviene nel nostro cervello, sulla quale non abbiamo controllo. Cioè, non siamo liberi di cambiare l’algoritmo con cui il cervello decide cosa fare. Non siamo liberi dalla nostra stessa mente. Come disse Einstein in forma succinta ma efficace, “non posso volere ciò che non voglio”.

Insomma nessuno è libero da se stesso; dai propri limiti mentali e fisici. Questo suggerisce che l'unico significato della parola libertà che potrebbe avere senso è quello che definisce la libertà come libertà dagli altri (e non dalla sorte o dalle proprie capacità). Che è appunto la definizione libertaria. Chiusa parentesi.

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(Continua nel post successivo)

venerdì 11 luglio 2008

Gli speculatori sono nostri nemici?

Perché il prezzo del petrolio sale? Una delle spiegazioni che vengono addotte dai politici coinvolge gli "speculatori". E' naturale chiedersi che cosa significhi questa parola. In questo articolo si spiega cosa è la speculazione e quali sono i suoi effetti. In breve, gli speculatori sono persone che comprano un certo bene quando esso è abbondante (e quindi costa poco), e lo rivendono quando esso scarseggia (e quindi costa molto). Così facendo, gli speculatori fanno salire il prezzo del bene quando il bene abbonda, e fanno scendere il prezzo quando il bene scarseggia. Cioè, fanno salire il prezzo quando è basso, e lo fanno scendere quando è alto.

Un legame interessante con la teoria dell'evoluzione è che, se molti speculatori sbagliassero le loro previsioni, potrebbero ottenere il risultato opposto: far salire i prezzi quando sono già alti e farli scendere quando sono bassi. Ma le forze della selezione naturale scartano quegli speculatori che fanno previsioni sbagliate.



La parola a Walter Block.

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«Uccidete gli speculatori!» è un grido che risuona durante tutte le carestie della storia. Pronunciato dai demagoghi, che ritengono che lo speculatore provochi la morte per inedia al­zando i prezzi del cibo, questo grido viene poi ardentemente sostenuto dalle masse degli analfabeti economici. Questo modo di pensare, anzi di non pensare, ha permesso ai dittatori di imporre anche la pena di morte per quei commercianti di generi alimentari che chiedano prezzi alti durante una carestia. ...

Eppure la verità è che, lungi dall' essere la causa della fame e delle carestie, lo speculatore le previene. E lungi dal tutelare la vita della popolazione, il dittatore è il vero responsabile della causa della carestia. Dunque l'odio diffuso per lo specu­latore è una grande perversione della giustizia. Possiamo meglio comprendere questo con­cetto se ci rendiamo conto che lo speculatore è una persona che compra e vende merce nella speranza di realizzare un pro­fitto. E' colui che, secondo la vecchia, onorata espressione, cerca di "comprare a prezzi bassi e vendere a prezzi alti".

Ma cosa c'entra il comprare a prezzi bassi, vendere a prezzi alti e realizzare profitti, col salvare gli individui dall'inedia? Adam Smith lo spiega al meglio con la dottrina della "mano invisibile": Secondo questa dottrina, «ogni individuo si sforza di impegnare il proprio capitale in modo che renda il massimo del valore. In generale egli non ha intenzione di favorire l'interesse pubblico, né si rende conto di quanto in effetti lo favorisca. Egli desidera solo la propria sicurezza ed il suo personale guadagno. Ma è condotto, in questa sua ricerca, come da una mano invisibile, a favorire un fine che non era affatto nelle sue intenzioni. Nel perseguire il proprio interesse, egli spesso favorisce quello della società più efficacemente di quelle volte in cui cerca di farlo di proposito».

II bravo speculatore, quindi, che agisce nel proprio inte­resse egoistico, non conoscendo né interessandosi al benesse­re pubblico, finisce per favorirlo.

In primo luogo, lo speculatore diminuisce gli effetti della carestia, immagazzinando cibo in tempi di abbondanza, per motivi di profitto personale. Acquista e mette via il cibo per il giorno in cui questo scarseggerà, permettendogli di venderlo a un prezzo maggiore. Le conseguenze della sua attività sono di vasta portata. Agiscono da segnale ad altri personaggi della società, che sono incoraggiati dall'attivita dello speculatore ad imitarlo. I consumatori sono stimolati a mangiare di meno e a mettere da parte di più, gli importatori ad importare di più, gli agricoltori a migliorare la resa dei propri raccolti, i costrutto­ri a edificare attrezzature per il magazzinaggio, ed i commercianti ad immagazzinare più viveri. Dunque ... lo speculatore, nella sua cac­cia al profitto, porta ad accumulare più cibo durante gli anni di abbondanza di quanto non sarebbe altrimenti avvenuto, diminuendo in tal modo gli effetti degli anni magri a venire.

Si obietterà che queste conseguenze positive risulteranno solo se lo speculatore ha fatto un calcolo giusto sulle condizioni future. E se sbaglia? Cosa succede se prevede anni di abbondanza --- e vendendo stimola altri ad imitarlo --- e seguono invece anni magri? In questo caso, non sarebbe pro­prio lui il responsabile per la maggiore gravità della carestia?

Sì. Se lo speculatore sbaglia, sarebbe responsabile di gravi danni. Ma sono in azione potenti forze [la selezione naturale, NdM] che tendono a elimi­nare gli speculatori incompetenti. Perciò il pericolo che rap­presentano e il danno che provocano sono più ipotetici che reali. Lo speculatore che calcola male subirà severe perdite economiche. Comprare a prezzi alti e vendere a prezzi bassi potrà indirizzare erroneamente l'economia, ma di certo sarà devastante per il portafogli dello speculatore. Non si può pre­tendere che uno speculatore azzecchi sempre i suoi pronosti­ci, ma se ne sbaglia più di quanti ne indovina perde il suo capitale di investimento. Dunque non resterebbe a lungo in una posizione che gli permettesse di aumentare, con i suoi errori, la gravità delle carestie. La medesima attività che nuo­ce alla popolazione nuoce automaticamente anche allo spe­culatore, e quindi gli impedisce di continuare la sua attività. In un qualsiasi momento, quindi, gli speculatori attivi saran­no quelli molto efficienti, e cioè quelli utili all'economia.

Confrontiamo tutto questo con l'attività degli enti statali, quando si assumono il compito dello speculatore e tentano di stabilizzare il mercato degli alimentari. Cercano anch'essi di gestire la stretta linea di demarcazione tra l'immagazzinare viveri insufficienti e l'immagazzinarne in eccesso. Ma, quan­do sbagliano, per loro non ci sarà nessun processo di elimina­zione. Lo stipendio di un impiegato statale non sale né scen­de a seconda del successo delle sue iniziative imprenditoriali. Poiché il denaro che sarà guadagnato o perso non è il suo, l'attenzione che ci si può aspettare dai burocrati nell'eserci­zio delle loro speculazioni lascia molto a desiderare. Non c'è un miglioramento automatico, costante, quotidiano, nella precisione dei burocrati, come quello che c'è da parte degli speculatori privati.

Resta l'obiezione più frequente, e cioè che lo speculatore provochi il rialzo dei prezzi degli alimentari. Se la sua attività viene accuratamente esaminata, però, si potrà osservare che l'effetto generale è invece la stabilizzazione dei prezzi. Nei periodi di abbondanza, quando i prezzi degli alimen­tari sono insolitamente bassi, lo speculatore compra. Egli to­glie dal mercato una certa quantità di viveri, provocando in tal modo un rialzo dei prezzi. Negli anni magri che seguono, i viveri precedentemente immagazzinati vengono rimessi sul mercato, provocando così un calo dei prezzi. Naturalmente il cibo costerà caro durante la carestia, e lo speculatore lo ven­derà a prezzi superiori a quelli dell'acquisto. Ma non saranno comunque più costosi di quanto lo sarebbero stati senza il suo intervento! [Perché senza di loro la quantità del bene sarebbe stata ancora minore e quindi il prezzo ancora maggiore, NdM]. (Va ricordato che lo speculatore non provoca carenze alimentari, che di solito sono invece il risultato di rac­colti mancati e altri disastri naturali o causati dall'uomo.)

L'effetto dello speculatore sui prezzi alimentari è quello di livellarli. Nei periodi di abbondanza, quando i prezzi dei vi­veri sono bassi, lo speculatore fa incetta ed immagazzina i generi alimentari provocandone il rialzo. Nei periodi di care­stia, quando i prezzi dei viveri sono alti, lo speculatore svende e provoca l'abbassamento dei prezzi. L'effetto che lui ottiene è di realizzare profitti. Questo non è malvagio; al contrario, lo speculatore assolve una funzione preziosa.

Eppure, invece di onorare lo speculatore, i demagoghi e i loro seguaci lo attaccano. Ma vietare la speculazione sui ge­neri alimentari produce lo stesso effetto sulla società di quello che si avrebbe impedendo agli scoiattoli di immagazzinare le nocciole per l'inverno: la morte per fame.

(Tratto dal libro "Difendere l'indifendibile".)