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venerdì 22 febbraio 2008

Come l'intelligenza nasce dalla stupidità

Questo articolo divulgativo introduce quella che è secondo me una delle più grandi conquiste del pensiero umano. Fornisce inoltre un esempio in cui la scienza risolve problemi filosofici su cui la "ragione pura" fallisce.

Cos'è l'intelligenza? Da dove nasce? Molti filosofi del passato, come Cartesio, Locke, Leibniz, fallirono nel rispondere alla domanda perché non riuscivano a immaginare come l'intelligenza potesse nascere dall'interazione tra le parti di una macchina, le quali, prese singolarmente, non sono intelligenti. Essi postularono quindi che l'intelligenza sia insita nella sostanza che compone il cervello umano; cioè che l'intelligenza sia una proprietà fisica della materia. Questa è però una non-spiegazione sul piano logico (come fa quella sostanza magica a produrre intelligenza?), ed ha implicazioni incompatibili con l'evidenza scientifica (ad es. implica che un singolo neurone sia intelligente, mentre è noto che il neurone non capisce alcunché).

Il pensiero filosofico si è quindi arenato per secoli, fino a che il progresso scientifico, e in particolare la nascita dei computer, hanno finalmente demistificato l'intelligenza, rivelando che essa nasce dall'interazione di automi non intelligenti. Un filosofo che ha il merito di aver chiarito la cosa (già nota ai pionieri dell'informatica) è Daniel Dennett. Dennett risolve l'apparente paradosso notando che una macchina intelligente si può scomporre in automi (o moduli) sempre meno intelligenti, e così via ripetutamente, fino ad arrivare ad automi così stupidi da poter essere letteralmente sostituiti con una macchina. Nel caso del cervello umano, questi automi stupidi sono i neuroni. Nel caso del computer, sono le CPU o i transistor. Ma il materiale di cui è fatto l'automa non ha nulla di speciale: l'intelligenza non risiede nella sostanza (carbonio o silicio) di cui è fatta la macchina, ma nell'interazione tra le sue parti. Risiede nel modo in cui le parti si scambiano informazione. "Una mente", come disse qualcuno, "potrebbe essere fatta di formaggio svizzero".

Tutto ciò è compatibile con la nostra conoscenza dell'evoluzione, la quale ha costruito il nostro cervello e la nostra mente. L'architettura del nostro cervello (distribuita, parallela e ad alta ridondanza) rivela che esso non è stato progettato a tavolino da un creatore intelligente, ma è nato mediante un processo evolutivo di aggiunta incrementale e graduale di piccoli elementi. Ma l'evoluzione, per sua stessa natura, non può far altro che combinare a caso piccoli automi "stupidi" (i neuroni), e poi selezionare i cervelli risultanti in base al loro funzionamento. E' così che funziona l'evoluzione. E' chiaro che, se la mente non potesse nascere gradualmente con questo processo, avremmo un problema. Invece, ora i pezzi del puzzle cadono al loro posto: l'evoluzione assembla i cervelli in modo incrementale, combinando automi stupidi; la macchina risultante diviene sempre più intelligente, fino a saper effettuare ragionamenti e risolvere problemi complessi come quelli che risolviamo quotidianamente. Ma l'intelligenza non risiede nei singoli automi, bensì nel modo in cui essi sono disposti (connessi), che è dato dalla selezione naturale. La selezione naturale è il programmatore del nostro cervello. In tutto questo scenario, il materiale di cui è fatto il cervello non ha importanza. Il neurone è solo un accidente storico: l'evoluzione, per costruire la mente, ha usato materiale cellulare semplicemente perché quello era il materiale già disponibile, che era stato prodotto per altri motivi. Ma non sembra esserci motivo per cui una mente debba essere realizzata con materiale biologico. L'intelligenza e la vita sembrano del tutto separabili e non hanno a che fare l'una con l'altra.

Ma mi sto dilungando troppo e sto anticipando troppe cose. La parola a Steven Pinker ("Come funziona la mente").

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La spiegazione tradizionale dell'intelligenza vede il corpo umano pervaso da un'entità immateriale, l'anima, concepita in genere come una sorta di spettro o spirito. Ma va incontro a un problema insormontabile: com'è che il fantasma interagisce con la solida materia? Com'è che un etereo nulla reagisce a lampi di luce, urti, colpi di clacson e fa muovere braccia e gambe? Un altro problema è la schiacciante evidenza che la mente è l'attività del cervello. La presunta anima immateriale, come oggi sappiamo, può essere tagliata a metà con un coltello, alterata da sostanze chimiche, avviata o fermata per via elettrica e spenta per sempre da un colpo violento o da mancanza di ossigeno. Al microscopio il cervello mostra una complessità di struttura chimica che lascia a bocca aperta, e che corrisponde perfettamente alla ricchezza della mente.

Un'altra spiegazione è che la mente viene da una qualche straordinaria forma di materia. Pinocchio prende vita da un magico pezzo di legno trovato da Geppetto, un pezzo di legno capace di parlare, ridere e muoversi. Purtroppo, una meraviglia del genere nessuno l'ha mai scoperta. A prima vista si potrebbe pensare che la sostanza meravigliosa sia il tessuto cerebrale. Darwin scrive che il cervello «secerne» la mente, e recentemente il filosofo John Searle ha sostenuto che le proprietà fisico-chimiche del tessuto cerebrale producono in qualche modo la mente, così come il tessuto mammario produce latte e il tessuto vegetale zucchero. Ma non dimentichiamo che gli stessi tipi di membrane, pori e sostanze chimiche si trovano nel tessuto cerebrale di tutto il regno animale, per non parlare dei tumori cerebrali e delle colture sotto vetro. Questi grumi di tessuto neurale hanno tutti le stesse proprietà fisico-chimiche, ma non tutti giungono all'intelligenza umana. Certo, qualcosa del tessuto del cervello umano è necessario alla nostra intelligenza, ma le proprietà fisiche non bastano, come le proprietà fisiche dei mattoni non bastano a spiegare l'architettura e quelle delle particelle di ossido la musica. Cruciale è qualcosa nella strutturazione del tessuto neurale.

L'intelligenza è stata spesso attribuita a qualche sorta di flusso di energia o di campo di forza. Globi, vapori luminosi, aure, vibrazioni, campi magnetici e linee di forza hanno un posto di primo piano nello spiritismo, nella pseudoscienza e nel kitsch fantascientifico. La psicologia della Gestalt ha cercato di spiegare le illusioni visive in termini di campi di forza elettromagnetici sulla superficie del cervello, ma questi campi non sono mai stati trovati. A volte la superficie del cervello è stata descritta come un medium in continua vibrazione che supporta ologrammi o altri tipi di interferenze di onde, ma anche quest'idea non ha avuto buon esito. Il modello idraulico, con la pressione psichica che aumenta, esplode o si scarica lungo canali alternativi, è al centro della teoria freudiana e di decine di metafore d'uso quotidiano: la rabbia trabocca, la si scarica o la si soffoca, sotto pressione si esplode, i nervi saltano, i sentimenti li si sfoga. Ma nemmeno le emozioni più intense corrispondono letteralmente a un accumulo e a una scarica di energia (in senso fisico) da qualche parte del cervello. Nel capitolo VI cercherò di persuadervi che il cervello non opera tramite pressioni interne, ma le produce apposta in una tattica negoziale, come un terrorista con l'esplosivo legato alla cintura.

Un problema di tutte queste idee è che, se anche scoprissimo una qualche gelatina, o vortice, o vibrazione, o globo che parla e combina pasticci come il pezzo di legno di Geppetto, o che, più in generale, prende decisioni basate su regole razionali e persegue obiettivi al di là di ostacoli, ci troveremmo ancora di fronte al mistero di come compie simili imprese. [E saremmo ancora costretti a spiegarlo in termini di interazione tra le sue parti, NdM.]

No, l'intelligenza non viene da uno speciale tipo di spirito, o di materia, o di energia, ma da un articolo diverso: l'informazione. L'informazione è una correlazione fra due cose che nasce da un processo regolare (e non per puro caso). Noi diciamo che gli anelli di un tronco danno informazioni sull'età dell'albero perché il loro numero è correlato con quest'età (più l'albero è vecchio, più anelli ha), e tale correlazione non è una coincidenza, ma frutto del modo in cui l'albero cresce. Quello di correlazione è un concetto logico e matematico; a definire una correlazione non è la sostanza di cui sono fatte le entità correlate.

L'informazione in sé non ha niente di speciale; se ne trova ovunque ci siano cause che portano a effetti. Speciale è l'elaborazione dell'informazione. Possiamo guardare a un pezzo di materia che porta informazione su una qualche situazione come a un simbolo; esso può «stare per» quella situazione. Ma, in quanto pezzo di materia, può fare anche altre cose, cose fisiche, tutte quelle che quel tipo di materia in quel tipo di situazione può fare secondo le leggi della fisiica e della chimica. Gli anelli danno informazioni sull'età dell' albero, ma non cessano per questo di riflettere la luce e assorbire materie coloranti. Le orme danno informazioni sui movimenti degli animali, ma risucchiano anche l'acqua e creano mulinelli nel vento.

Ecco, qui c'è un'idea. Supponiamo di fabbricare una macchina con parti sensibili alle proprietà fisiche di qualche simbolo. Una leva o una cellula fotoelettrica o una trappola o un magnete viene messo in funzione dal pigmento assorbito dall'anello di un albero, o dall'acqua risucchiata da un'orma, o dalla luce riflessa da un segno fatto con il gesso, o dalla carica magnetica di un pezzettino di ossido. E supponiamo che la macchina, a quel punto, faccia succedere qualcosa in qualche altro pezzo di materia. Imprime nuovi segni su un pezzo di legno, modella tracce nel fango, carica qualche altra particella di ossido. Finora non è accaduto nulla di speciale; non ho descritto altro che una catena di eventi fisici prodotti da uno stupido marchingegno.

Lo speciale viene ora: immaginiamo di cercare di interpretare il pezzo di materia modificato usando lo schema secondo il quale quello originale portava informazione. Contiamo, per esempio, i nuovi anelli nel legno e interpretiamoli come l'età di un dato albero in un dato momento, anche se non sono stati prodotti dalla crescita di un albero. E ammettiamo che la macchina sia stata accuratamente progettata affinché l'interpretazione dei suoi nuovi segni abbia un senso, affinché cioè essi diano informazioni su qualcosa nel mondo.

Immaginiamo per esempio una macchina che passa allo scanner gli anelli di un pezzo di tronco, imprime un segno su una tavola vicina per ognuno di essi, passa a un pezzo di tronco più piccolo proveniente da un albero tagliato nello stesso momento, ne passa allo scanner gli anelli, e cancella un segno sulla tavola per ognuno di essi. A contare i segni sulla tavola abbiamo l'età del primo albero nel momento in cui è stato piantato il secondo. La nostra macchina sarebbe una sorta di macchina razionale, che da premesse vere giunge a conclusioni vere, non grazie a qualche speciale tipo di materia o di energia, o perché qualche sua parte sia in sé intelligente o razionale. Non ci troviamo di fronte ad altro che a una catena ingegnosamente prodotta di normali eventi fisici, il cui primo anello è una configurazione di materia che porta informazione. La nostra macchina razionale deve la sua razionalità a due proprietà indissolubilmente fuse nell'entità che chiamiamo simbolo: un simbolo fornisce informazione e allo stesso tempo fa accadere cose (gli anelli da un lato sono in correlazione con l'età dell'albero e dall'altro possono assorbire il raggio di luce di uno scanner). Quando le cose che vengono fatte accadere forniscono a loro volta informazione, chiamiamo l'intero sistema un elaboratore di informazioni, o computer.

Tutto questo progetto potrebbe apparire una speranza irrealizzabile. Che garanzia c'è che qualunque ammasso di cose possa essere configurato in modo tale da cadere, o oscillare, o brillare nella maniera giusta affinché, quando ne interpretiamo gli effetti, l'interpretazione abbia senso? (Più precisamente, affinché abbia senso rispetto a qualche legge o rapporto preesistente che giudichiamo degno d'interesse; a qualunque ammasso di cose si può dare, a posteriori, un'interpretazione artificiosa.) Come possiamo confidare che una macchina traccerà segni effettivamente corrispondenti a qualche situazione del mondo dotata di significato, come l'età di un albero al momento in cui ne è stato piantato un altro, o l'età media dei rampolli dell'albero, o qualunque altra, invece che segni privi di significato, che non corrispondono a niente? [La risposta, per quanto riguarda i nostri cervelli, è che i cervelli i cui simboli non corrispondono a niente tendono ad essere scartati dalla selezione naturale. Per quanto riguarda i computer programmati dall'uomo, la garanzia risiede nella bravura del programmatore. NdM. ]

La garanzia sta nell'opera del matematico Alan Turing, ...

[Salto a malincuore molte pagine. Veniamo a un punto importante.]

...


Poi sono venuti i computer: mucchi di metallo senza nessuna fata, senza magia, del tutto esorcizzati, che è impossibile spiegare facendo a meno del repertorio dei termini mentalistici tabù. «Perché il mio computer non stampa?» «Perché il programma non sa che hai sostituito la tua stampante ad aghi con una laser. Continua a pensare di stare parlando con quella ad aghi, e tenta di stampare il documento chiedendole di riconoscere il suo messaggio. Ma il messaggio la stampante non lo capisce; e lo ignora, perché si aspetta che l'input inizi con "%!". Il programma si rifiuta di cedere il controllo mentre sonda la stampante, quindi devi attirare l'attenzione del monitor affinché possa strapparglielo. Una volta che il programma avrà imparato che stampante gli è connessa, potranno comunicare.» Più il sistema è complesso e più chi lo usa è esperto, più la loro conversazione tecnica assomiglia alla trama di una telenovela.

Gli psicologi behavioristi obietterebbero che si tratta semplicemente di un uso a dir poco libero del linguaggio. Le macchine, in realtà, non capiscono né tentano niente, e quei due parlano senza far caso a quello che dicono, rischiando così di incappare in gravi errori concettuali. Che cosa c'è che non va, in questo discorso? I filosofi accusano gli scienziati del computer di pensare in modo confuso? Ma, in materia di precisione e completezza, un computer è quanto di più implacabilmente esigente, formalistico, pedante, caparbio vi sia nell'universo. A giudicare da quell'accusa, verrebbe da pensare che siano i confusi informatici a chiamare un filosofo quando il loro computer va in tilt, e non viceversa. Una spiegazione migliore è che la computazione ha finalmente demistificato i termini mentalistici. Le credenze e le convinzioni sono iscrizioni in memoria, i desideri sono iscrizioni negli obiettivi, il pensiero è computazione, le percezioni sono iscrizioni prodotte da sensori, tentare è eseguire operazioni messe in moto da un obiettivo.

(Ma, state per obiettarmi, noi esseri umani sentiamo qualcosa quando abbiamo una convinzione, o un desiderio, o una percezione, mentre una mera iscrizione non ha il potere di creare sensazioni del genere. Giusto. Cerchiamo però di tener distinto il problema di spiegare l'intelligenza da quello di spiegare le sensazioni consce. Per ora cerco di spiegare l'intelligenza, alla coscienza ci arriveremo dopo, in questo stesso capitolo.)

La teoria computazionale della mente riabilita inoltre una volta per sempre il famigerato omuncolo. Un'obiezione classica all'idea che i pensieri siano rappresentazioni interne (obiezione diffusa fra gli scienziati che cercano di dimostrare quanto sono realistici) è che una rappresentazione richiederebbe un omino nella testa che la guardasse, e l'omino richiederebbe un omino ancora più piccolo che guardasse le rappresentazioni dentro di lui, e così via, all'infinito. Ma ancora una volta siamo di fronte alla scenetta del teorico che insiste con l'ingegnere elettrico che, se l'ingegnere ha ragione, nel suo impianto devono esserci sciami di folletti. Parlare di omuncoli è indispensabile in informatica. Le strutture di dati vengono continuamente lette, interpretate, esaminate, riconosciute, rivedute, e i sottoprogrammi che lo fanno sono impudicamente chiamati «agenti», «demoni», «supervisori», «monitor», «interpreti» e «esecutivi». Perché tutto questo parlare di omuncoli non porta a una regressione all'infinito? La risposta è che una rappresentazione interna non è una fotografia completa del mondo, e l'omuncolo che «la guarda» non è una copia in miniatura dell'intero sistema, che ne richiede l'intera intelligenza. Questo sì, non spiegherebbe niente. Una rappresentazione è piuttosto una serie di simboli corrispondenti ad aspetti del mondo, e a ogni omuncolo è richiesto soltanto di reagire in pochi modi circoscritti ad alcuni dei simboli, impresa ben più semplice di quella che compie il sistema nel suo insieme. L'intelligenza del sistema emerge dalle attività dei non tanto intelligenti demoni meccanici dentro di esso. Il punto, messo per la prima volta in chiaro da Jerry Fodor nel 1968, è stato succintamente espresso da Daniel Dennett:
Gli "homunculi" sono una non-spiegazione solo se possiedono per intero i talenti che sono chiamati a spiegare ... Ma se si riesce a fare in modo che una squadra o un comitato di homunculi relativamente ignoranti, limitati, ciechi, produca il comportamento intelligente dell'intero sistema, si è fatto un progresso. Ad esempio, un "grafo di flusso" viene usato comunemente per rappresentare la suddivisione del lavoro di un comitato di homunculi (investigatori, bibliotecari, ragionieri, dirigenti); ogni blocco indica un homunculus assegnando una funzione, senza dire come debba essere realizzata (si dice soltanto: colloca qui un ometto che esegua questo compito). Se poi diamo un'occhiata più attenta ai singoli blocchi, vediamo che la funzione di ognuno viene realizzata suddividendola, tramite un altro grafo di flusso, tra altri homunculi ancora più piccoli, ancora più stupidi. Alla fine, seguitando a inserire blocchi nei blocchi, raggiungeremo homunculi così stupidi (non dovranno far altro che rispondere sì o no, se interrogati) da poter essere, come si usa dire, «sostituiti da una macchina». Dallo schema si eliminano gli homunculi raffinati organizzando eserciti di tali idioti che fanno il lavoro.


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[Ripensiamo ora alla frase "Diecimila scimmie, messe insieme, non riusciranno mai a scrivere un dramma di Shakespeare". Chi metterebbe mai in discussione questa ovvietà? Poi arriva la scienza, e rivela che il cervello di Shakespeare è una squadra di "scimmie" -- miliardi di scimmie, ben organizzate. Riflettiamo su quanto sia vano usare il ragionamento non guidato dall'evidenza, e sperare che le conclusioni così ottenute siano vere. NdM]

giovedì 21 febbraio 2008

La mente è un programma

Proseguo l'estratto del libro "Come funziona la mente" di Steven Pinker (episodio precedente qui).

Ci troviamo ancora in una parte introduttiva in cui Pinker espone rapidamente le tesi centrali del libro. Alcune tesi salienti sono: la mente è un programma, e il programmatore è la selezione naturale; le nostre credenze sono informazioni scritte fisicamente nel cervello mediante simboli; il pensiero è manipolazione di quei simboli, e in quanto tale è riproducibile su una macchina non biologica, come un computer. Viene introdotto il concetto di "psicologia evoluzionistica" e di "teoria computazionale della mente". E' notevole la soluzione offerta da Pinker del paradosso mente-corpo: come può una mente "incorporea" causare le azioni di corpi materiali?

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Un'ingegneria inversa della psiche

Argomento di questo libro è appunto la complessa struttura della mente. La sua idea chiave può essere espressa in una frase: la mente è un sistema di organi di computazione designato per selezione naturale a risolvere i problemi posti ai nostri antenati dalla loro condizione di cacciatori-raccoglitori, in particolare come capire e sfruttare oggetti, animali, piante e altre persone. Tale sintesi è scomponibile in più affermazioni. La mente è ciò che il cervello fa; in particolare, il cervello elabora informazione, e pensare è un tipo particolare di computazione. La mente è organizzata in moduli, o organi mentali, dotati ognuno di una specializzazione che ne fa un esperto in un singolo terreno d'interazione con il mondo. La logica base dei moduli è specificata dal nostro programma genetico. Il loro funzionamento si è modellato per selezione naturale in modo da risolvere i problemi della vita di cacciatori e raccoglitori condotta dai nostri antenati durante la maggior parte della nostra storia evoluzionistica. I vari problemi dei nostri antenati erano sottocompiti di un unico grande problema dei loro geni: massimizzare il numero di copie capaci di giungere alla generazione successiva.

In quest'ottica, la psicologia è ingegneria inversa. Nell'ingegneria normale si costruisce una macchina per un certo scopo; nell'ingegneria inversa si cerca di capire per quale scopo una macchina è stata costruita. Ingegneria inversa è quello che fanno segretamente gli scienziati della Sony quando la Panasonic annuncia un nuovo proodotto, o viceversa: lo comprano, lo portano in laboratorio, prendono un cacciavite e cercano di capire a che serve ognuno dei suoi elementi e come sono stati messi insieme per farlo funzionare. Tutti noi facciamo ingegneria inversa quando ci troviamo di fronte a un nuovo interessante aggeggio. Rovistando in un negozio di antiquariato, può capitarci di scoprire un oggetto che, finché non realizziamo a quale fine è stato fabbricato, resta impenetrabIle. Ma quando ci renndiamo conto che si tratta di uno snocciola-olive, all'improvviso comprendiamo che l'anello di metallo serve a deporvi l'oliva, e la leva fa calare una lama a X che spinge fuori il nocciolo dall'altra parte. In un lampo d'intuito forma e disposizione di molle, perni, lame, leve e anelli acquistano, con nostra soddisfazione, senso. Arriviamo persino a capire perché le olive in scatola hanno a un'estremità un'incisione a X.

Nel XVII secolo William Harvey scoprì che le vene sono munite di valvole, e ne dedusse che dovevano servire a far circolare il sangue. Da allora siamo giunti a intendere il corpo come una macchina di mirabile complessità, un assemblaggio di puntoni, cavi, molle, pulegge, leve, giunti, perni, incassature, serbatoi, tubi, valvole, guaine, pompe, scambiatori, filtri. Possiamo tuttora provare una deliziosa sorpresa scoprendo a che cosa servano certe sue misteriose parti. Perché abbiamo queste nostre tortuose e asimmetriche orecchie? Perché filtrano onde sonore provenienti da direzioni diverse in modi diversi. Le sfumature dei riflessi sonori dicono al cervello se la fonte del suono è sopra o sotto, di fronte o dietro di noi. La strategia dell'ingegneria inversa del corpo ha continuato a essere praticata nella seconda metà del nostro secolo, quando si è esplorata la nanotecnologia della cellula e delle molecole della vita. La sostanza vitale si è rivelata non un vibrante, ardente, portentoso gel, bensì un marchingegno fatto di minuscole guide, molle, perni, aste, lamine, magneti, cerniere, botole, assemblati da un nastro dati le cui informazioni sono copiate, scaricate e analizzate.

La legittimazione dell'ingegneria inversa degli esseri viventi viene, è naturale, da Charles Darwin. Fu lui a indicare come «organi di estrema perfezione e complessità, che giustamente suscitano la nostra ammirazione» provengano non dalla preveggenza di Dio, ma dall'evoluzione di replicatori lungo immensi periodi di tempo. Mentre i replicatori replicano, si verificano a volte casuali errori di copiatura, e quelle modifiche a cui accade di accrescere la probabilità di sopravvivenza e riproduzione del replicatore tendono ad accumularsi lungo le generazioni. Piante e animali sono replicatori, e il loro complicato macchinario sembra quindi essere stato progettato e prodotto per permettere loro di sopravvivere e riprodursi.

Darwin sottonineò che la sua teoria spiegava non solo la complessità del corpo di un animale, ma anche quella della sua mente. «La psicologia si baserà su nuove fondamenta» è la famosa predizione con cui terminò L'origine delle specie. Ma la sua profezia non si è ancora realizzata. Oltre un secolo dopo quelle parole, lo studio della mente per lo più fa ancora a meno di Darwin, e spesso lo fa con intenzioni provocatorie. L'evoluzione, si dice, è irrilevante, peccaminosa o, al massimo, buona per un'elucubrazione serale davanti a un boccali di birra. Nelle scienze sociali e cognitive l'allergia per l'evoluzionismo e stata, a mio parere, una barriera alla comprensione. La mente è un sistema stupendamente organizzato, e compie grandi imprese che nessun ingegnere sa replicare. Com'è possibile che le forze che hanno modellato questo sistema, e gli scopi per i quali esso è stato progettato, siano irrilevanti per comprenderlo? Il pensiero evoluzionistico è indispensabile, non nella forma in cui molti lo intendono, tipo fantasticare di anelli mancanti o raccontare storie sugli stadi dell'uomo, ma nella forma di una rigorosa ingegneria inversa. Senza ingegneria inversa siamo come il cantante di The Marvelous Toy, di Tom Paxton, quando ricorda un regalo ricevuto da bambino: «Quando si muoveva faceva ZIP!, e quando si fermava, POP! e se restava immobile, WHIRR!; che cosa fosse non l'ho mai saputo, né credo che mai lo saprò». .

È solo negli ultimissimi anni che la sfida di Darwin è stata raccolta da un nuovo approccio, battezzato dall'antropologo John Tooby e dalla psicologa Leda Cosmides «psicologia evoluzionistica». La psicologia evoluzionistica fonde due rivoluzioni scientifiche. Una è la rivoluzione cognitivista degli anni Cinquanta e Sessanta, che spiega la meccanica di pensiero ed emozione in termini di informazione e computazione. L'altra è la rivoluzione nella biologia evoluzionistica degli anni Sessanta e Settanta, che spiega il complesso schema di adattamento degli esseri viventi in termini di selezione fra replicatori. Le due idee costituiscono una combinazione potente. La scienza cognitiva ci aiuta a capire come sia possibile una mente e che tipo di mente abbiamo; la biologia evoluzionistica ci aiuta a capire perché abbiamo il tipo di mente che abbiamo.

La psicologia evoluzionistica di questo libro è, per un verso, una chiara e semplice estensione della biologia che si concentra su un unico organo, la mente, di un'unica specie, l'Homo sapiens. Ma, per un altro verso, è una tesi radicale che taglia i ponti con il modo in cui i problemi riguardanti la mente sono impostati da quasi un secolo. Le premesse di questo libro non sono probabilmente quelle che pensate. Il pensiero è computazione, sostengo, ma questo non significa che il computer sia una buona metafora della mente. La mente è una serie di moduli, ma i moduli non sono scatole incapsulate o macchie circoscritte sulla superficie del cervello. L'organizzazione dei nostri moduli mentali ha origine nel nostro programma genetico, ma questo non vuol dire che esista un gene per ogni elemento o che l'apprendimento sia meno importante di quanto pensassimo. La mente è un adattamento frutto di selezione naturale, ma ciò non vuol dire che tutto ciò che pensiamo, sentiamo e facciamo sia il risultato di un adattamento biologico. Ci siamo evoluti dalle scimmie, ma non per questo la nostra mente è uguale alla loro. E, se il fine ultimo della selezione naturale è la propagazione dei geni, ciò non vuol dire che questo sia il fine ultimo anche per le persone. Io vi dirò perché no.

Questo libro si occupa del cervello, e tuttavia non parlerò granché di neuroni, ormoni e neurotrasmettitori. E questo perché la mente non è il cervello, bensì le sue funzioni, e nemmeno tutte: non, per esempio, il metabolismo dei grassi o l'emanazione di calore. Gli anni Novanta sono stati chiamati il «decennio del cervello», ma non ci sarà mai un «decennio del pancreas». Lo speciale status del cervello deriva dalla sua speciale funzione, che ci permette di vedere, pensare, provare sensazioni, scegliere e agire. Questa funzione speciale è l'elaborazione di informazioni, o computazione.

Informazione e computazione risiedono in pattern, o configurazioni, di dati e in rapporti di logica che sono indipendenti dal medium fisico che li trasporta. Quando telefono a mia madre in un'altra città, il messaggio rimane lo stesso che va dalle mie labbra alle sue orecchie, anche se cambia forma fisica: da aria in vibrazione a elettricità in un filo, a cariche nel silicio, a luce guizzante in un cavo a fibre ottiche, a onde elettromagnetiche, e ritorno seguendo il percorso inverso. Analogamente, il messaggio rimane lo stesso quando, dopo aver cambiato forma nella sua testa diventando una cascata di neuroni che si attivano e di sostanze chimiche che si diffondono atttraverso sinapsi, lei lo ripete a mio padre seduto sul lato opposto del divano. Allo stesso modo, un dato programma può correre su computer fatti di tubi a vuoto, commutatori elettromagnetici, transistor, circuiti integrati, o piccioni viaggiatori ben addestrati, e ottiene gli stessi risultati per le stesse ragioni.

Tale intuizione, espressa per la prima volta dal matematico Alan Turing, dagli informatici Alan Newell, Herbert Simon e Marvin Minsky e dai filosofi Hilary Putnam e Jerry Fodor, è ora detta teoria computazionale della mente. È una delle grandi idee della storia della cultura, perché risolve uno degli enigmi che costituiscono il «problema mente-corpo»: come connettere il mondo immateriale di significato e intenzione, l'essenza della nostra vita mentale, con un grumo di materia come il cervello. Perché Bill è salito sull'autobus? Perché voleva andare a trovare sua nonna e sapeva che l'autobus ve lo avrebbe portato. Nessun'altra risposta funziona. Se Bill detestasse vedere sua nonna, o sapesse che l'autobus ha cambiato percorso, il suo corpo non ci sarebbe salito. Per millenni questo è stato un paradosso. Entità quali «volere far visita alla nonna» e «sapere che l'autobus porta a casa della nonna» sono incolori, inodori e insapori. Eppure, nello stesso tempo, sono cause di eventi fisici, potenti come una palla di biliardo che ne colpisce un'altra.

La teoria computazionale della mente risolve il paradosso. Essa afferma che credenze e desideri sono informazioni, incarnate come configurazioni di simboli. I simboli sono gli stati fisici di pezzetti di materia, quali i chips di un computer o i neuroni del cervello. Essi simboleggiano cose esistenti nel mondo perché sono attivati da quelle cose tramite i nostri organi di senso e per via di ciò che fanno una volta attivati. Se i pezzetti di materia che costituiscono un simbolo sono disposti in modo da collidere nella maniera corretta con i pezzetti di materia che costituiscono un altro simbolo, i simboli corrispondenti a una credenza possono dare origine a nuovi simboli corrispondenti a un'altra credenza logicamente connessa, il che può dare origine a simboli corrispondenti ad altre credenze e così via. A un certo punto, i pezzetti di materia che costituiscono un simbolo collidono con pezzetti di materia connessi ai muscoli, e si produce il comportamento. [E cosa garantisce che, nel nostro cervello, i pezzetti di materia siano disposti esattamente nel modo giusto, così da "collidere" nel modo giusto, e far quindi muovere il corpo in modo coerente? La domanda equivale a domandare cosa garantisce che il cervello sia ben programmato. La risposta, come vedremo, è "la selezione naturale". Essa garantisce che i simboli nel nostro cervello tendano a riflettere correttamente la logica del mondo esterno, NdM.] La teoria computazionale della mente ci consente insomma di mantenere credenze e desideri nelle nostre spiegazioni del comportamento, pur radicandoli nell'universo fisico. Permette al significato di causare ed essere causato.

[...]

Senza la teoria computazionale è impossibile capire l'evoluzione della mente. La maggior parte degli intellettuali pensano che la mente umana debba essere in qualche modo sfuggita al processo evoluzionistico. L'evoluzione, ritengono, può fabbricare solo istinti stupidi e modelli d'azione fissi: una pulsione sessuale, un impulso aggressivo, un imperativo territoriale, galline che siedono sulle uova, anatroccoli che seguono le barche. Il comportamento umano è troppo sottile e flessibile, pensano, per essere frutto dell'evoluzione; deve venire da qualche altra parte, dalla «cultura», per esempio. Ma se l'evoluzione non ci ha dotati di impulsi irresistibili e riflessi rigidi, bensì di un computer neurale, tutto cambia. Un programma è una complessa ricetta di operazioni logiche e statistiche che procedono per comparazioni, test, rami, raccordi e sottoprogrammi inscritti in sottoprogrammmi. I programmi artificiali per computer, dall'interfaccia utente del Macintosh alle simulazioni meteorologiche, ai programmi che riconoscono la voce e rispondono a domande in inglese, danno un'idea della raffinatezza e della potenza di cui la computazione è capace. Il pensiero e il comportamento umani, per quanto sottili e flessibili, potrebbero essere il frutto di un programma estremamente complicato, programma che potremmo avere in dotazione per selezione naturale. L'imperativo tipico che viene dalla biologia non è «Dovrete ... », ma «Se ... allora ... altrimenti».

martedì 15 gennaio 2008

Indagare sulla morale naturale - Steven Pinker


Ecco la seconda e ultima parte dell'articolo di Pinker "L'istinto morale." L'episodio precedente è qui.

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(seguito)

Naturalmente anche i linguaggi variano. Nella teoria di Chomsky, i linguaggi si conformano ad una struttura astratta, come il fatto di avere frasi composte di verbi e oggetti, mentre variano i dettagli, come il fatto se viene prima il verbo o l'oggetto. Potremmo anche noi essere dotati di una specifica architettonica astratta che abbraccia tutte le strane idee moralizzate dalle persone in differenti culture?

Le varietà dell'esperienza morale

Quando antropologi come Richard Shweder ed Alan Fiske investigano sulle preoccupazioni morali in ogni parte del mondo, scoprono che alcuni temi continuano a ripresentarsi in mezzo alla diversità. Da ogni parte del mondo le persone ritengono sbagliato far del male agli altri e giusto aiutarli, almeno in certe circostanze e verso certe persone. Possiedono un senso di equità: il senso che bisogna ricambiare i favori, premiare i benefattori e punire gli imbroglioni. Danno valore alla lealtà verso un gruppo, alla condivisione e alla solidarietà verso i suoi membri, e alla conformità alle sue norme. Ritengono giusto sottomettersi ad autorità legittime e rispettare le persone di rango elevato. Ed esaltano la purezza, la pulizia e la santità mentre disprezzano la dissacrazione, la contaminazione e la carnalità.

Il numero esatto di temi dipende dal criterio che usiamo per raggrupparli, ma Haidt ne conta cinque -- danno, equità, comunità (o lealtà verso il gruppo), autorità e purezza -- e suggerisce che questi siano i colori primari del nostro senso morale. Non solo essi continuano a ricomparire attraverso diverse culture, ma ognuno di essi si aggancia alle intuizioni morali della gente nella nostra cultura. Haidt chiede di considerare quanti soldi chiederesti in pagamento per compiere le seguenti azioni:

Trapassarti il palmo con un ago;

Trapassare con un ago il palmo di un bambino che non conosci (danno);

Accettare un televisore wide-screen da un amico che lo ha ottenuto gratis a causa dell'errore di un computer;

Accettare un televisore wide-screen da un amico che lo ha ricevuto da un ladro che lo ha rubato a una famiglia ricca (equità);

Dire una cosa brutta sul tuo paese (che tu non credi vera) in un programma televisivo nel tuo paese;

Dire una cosa brutta sul tuo paese (che tu non credi vera) in un programma televisivo in un paese straniero (comunità).

Dare uno schiaffo in faccia ad un tuo amico, col suo permesso, come parte del copione di una recita;

Dare uno schiaffo in faccia a un tuo ministro, con il suo permesso, come parte del copione di una recita. (autorità)

Guardare una recita artistica in cui gli attori si comportano da idioti per mezz'ora, e tra le altre cose non riescono a risolvere problemi semplici e cadono a terra sul palco.

Guardare una recita artistica in cui gli attori si comportano da animali per mezz'ora, e tra le altre cose strisciano al suolo nudi e urinano sul palco. (purezza)

In ciascuna coppia, la seconda azione appare molto più ripugnante. La maggior parte delle illusioni morali che abbiamo visitato deriva dall'intrusione nel nostro giudizio di una delle sfere morali. Una violazione della comunità fa sentire alla gente repulsione verso l'atto di usare una vecchia bandiera per pulire un bagno. Una violazione della purezza fa sentire repulsione alle persone che giudicano la moralità dell'incesto consensuale e impedisce ai vegetariani morali e ai non fumatori di tollerare la minima traccia del vile contaminante. Dall'altra parte della scala, dimostrazioni di estrema purezza portano le persone a venerare i leader religiosi che vestono di bianco e possiedono un'aura di castità e ascetismo.

La genealogia della morale

Le cinque sfere sono buoni candidati per produrre una tavola periodica del senso morale, non solo perché sono onnipresenti, ma anche perché sembrano avere antiche radici evoluzionistiche. L'impulso ad evitare di ferire le persone, che nel caso del carrello ferroviario impedisce alle persone di gettare l'uomo grasso giù dal ponte, si trova anche nelle scimmie rhesus, che preferiscono patire la fame piuttosto che tirare una catena che rilascia loro il cibo ma dà una scossa elettrica ad un'altra scimmia. Il rispetto per l'autorità è chiaramente correlato all'ordine di dominanza che è largamente diffuso nel regno animale. Il contrasto purezza-impurità regola l'emozione del disgusto che viene attivata da potenziali vettori di malattia come gli odori corporei, la carne in decomposizione e i tipi di carne non convenzionali, e da pratiche sessuali rischiose come l'incesto.

Le altre due sfere moralizzate rispettano gli esempi classici di come può evolversi l'altruismo, esempi ideati negli anni '60 e '70 dai sociobiologi e resi famosi da Richard Dawkins nel suo libro "Il gene egoista". L'equità è molto vicina a ciò che gli scienziati chiamano "altruismo reciproco", dove la tendenza ad essere gentili può evolversi laddove il favore aiuti il destinatario più di quanto costa al suo autore, e il destinatario restituisca il favore quando la sorte si inverte. Questa analisi dà l'impressione che l'altruismo reciproco derivi da una specie di calcolo robotico, ma Robert Trivers, il biologo che ha ideato la teoria, sostiene che esso è realizzato nel cervello come un pacchetto di emozioni morali. La compassione porta la persona ad offrire il primo favore, specialmente verso qualcuno che ha molto a cuore e che si trova in stato di bisogno. La rabbia protegge la persona da coloro che accettano un favore senza ricambiare, dandole il bisogno impellente di punire gli ingrati o di terminare i rapporti con loro. La gratitudine dà a una persona il bisogno impellente di ricambiare quelli che la aiutarono in passato. Il senso di colpa spinge un imbroglione che si trova in pericolo di essere scoperto a riparare la relazione, riparando il torto e manifestando l'intenzione di comportarsi meglio in futuro (il che è consistente con la definizione data da Mencken della coscienza come "la voce interiore che ci avverte che qualcuno potrebbe osservarci"). Queste previsioni sono state confermate da molti esperimenti su chi aiuta chi, chi ha simpatia per chi, chi punisce chi, e chi si sente in colpa per che cosa.

La "comunità", quell'emozione molto diversa che spinge le persone a condividere le proprie cose e a sacrificarsi senza aspettarsi di essere ripagati, potrebbe avere radici nell'altruismo nepotista, cioè l'empatia e la solidarietà che sentiamo verso i nostri parenti (la quale si è evoluta perché qualunque gene spinga un organismo ad aiutare un parente sta aiutando le copie di se stesso che si trovano all'interno di quel parente). Negli umani, naturalmente, i sentimenti comunitari possono essere diretti anche verso i non parenti. A volte amare i nostri compagni paga (in senso evolutivo) perché i nostri interessi sono collegati ai loro; questo avviene ad esempio tra due coniugi verso i figli comuni, tra parenti acquisiti verso parenti comuni, tra amici verso gusti comuni, o tra alleati verso nemici comuni. E a volte non paga affatto: i nostri rilevatori di parentela vengono ingannati e portati a trattare i nostri compagni di gruppo come parenti; tale inganno è avvenuto grazie a tattiche come le metafore di parentela (fratelli di sangue, fratellanze, la madre patria), i miti sulle origini, i pasti comuni e altri rituali di fratellanza.

Mescolare le sfere

Tutto ciò ci porta a una teoria di come il senso morale possa essere universale e variabile allo stesso tempo. La cinque sfere morali sono universali, un'eredità dell'evoluzione. Ma il loro ordine di importanza dipende dalla cultura; e dipende dalla cultura anche quale di queste sfere viene usata per moralizzare quale area della vita sociale -- il sesso, il governo, il commercio, la religione, la dieta ecc. Molte pratiche sconvolgenti che sono attuate in luoghi lontani divengono più comprensibili quando ci rendiamo conto che lo stesso impulso moralizzatore che le elite occidentali indirizzano verso la violazione del "danno" e della "equità" (le nostre ossessioni morali) viene altrove indirizzato verso violazioni in altre sfere. Pensate alla paura che i giapponesi hanno dell'anticonformismo (comunità), alle sacre abluzioni e restrizioni dietetiche di induisti, ebrei ortodossi [e musulmani] (purezza), al senso di oltraggio di fronte all'insulto al Profeta tra i musulmani (autorità). In occidente crediamo che, negli affari e nel governo, il senso di equità debba prevalere sul senso di comunità, e cerchiamo di eliminare il nepotismo e il cronismo. In altre parti del mondo questo è incomprensibile -- quale mostro insensibile potrebbe mai preferire un estraneo al proprio fratello?


L'ordine di importanza delle sfere morali divide anche la cultura di destra e sinistra negli Stati Uniti. Molti argomenti del contendere riflettono diversi pesi dati alle sfere: a destra l'omosessualità, l'ateismo e le famiglie con un solo componente, a sinistra gli sbilanciamenti razziali, i negozi che danno salari bassi, e la paga dei dirigenti. In un grande sondaggio web, Haidt ha trovato che le persone di sinistra danno un peso enorme ad equità e danno, e poco peso a lealtà, autorità e purezza. La destra invece dà un peso moderatamente alto a tutti e cinque. Non è sorprendente che ognuna delle due fazioni ritenga di essere guidata da valori etici elevati, e che l'altra fazione appaia priva di principi.

Non è facile riassegnare un'attività ad una sfera diversa, o portarla fuori da tutte le sfere morali. Le persone pensano che un comportamente appartenga a una certa sfera per una specie di sacra necessità, e che l'atto stesso di mettere in discussione un assegnamento sia un oltraggio morale. Lo psicologo Philip Tetlock ha mostrato che la mentalità del tabù (la convinzione che è peccato anche solo pensare certe cose) non è solo una superstizione dei polinesiani, ma una mentalità che può essere facilmente attivata nei laureati americani. Basta chiedere loro di applicare la sfera della reciprocità alle relazioni solitamente governate dalla sfera della comunità o autorità. Quando Tetlock chiese ai soggetti se le agenzie di adozione debbano consegnare i bambini alle coppie che offrono più soldi, o se le persone debbano avere il diritto di vendere i propri organi, o se debba essere possibile pagare per evitare di fare da membro della giuria, i soggetti non solo si dichiaravano in disaccordo ma si sentivano personalmente insultati, ed erano oltraggiati che qualcuno facesse quelle domande.

Le istituzioni moderne forniscono spesso esperimenti sul modo in cui le attività vengono assegnate alle sfere morali. Le economie di mercato tendono a mettere ogni cosa in vendita. La scienza amoralizza il mondo cercando di comprendere fenomeni anziché evitare di giudicarli. La filosofia laica cerca di analizzare tutte le credenze, comprese quelle ammantate di autorità e tradizione. Non è sorprendente che queste istituzioni siano spesso viste come moralmente corrosive.

Non c'è niente di sacro?

"Moralmente corrosivo" è esattamente il termine che alcuni critici applicherebbero alla nuova scienza del senso morale. Il tentativo di svelare le nostre intuizioni morali per ciò che sono può apparire come un tentativo di minarne la legittimità. Sembra che gli psicologi evoluzionisti vogliano demistificare i nostri sentimenti più nobili rivelando che in realtà sono il frutto di interesse egoistico -- mostrare che il nostro amore verso i figli, la compassione per gli sfortunati e il senso di giustizia sono solo tattiche vantaggiose nella lotta darwiniana per perpetuare i nostri geni. L'atto di spiegare come diverse culture si appellino a diverse sfere morali potrebbe condurre a un relativismo senza uscita, in cui non avremmo mai una base per criticare le pratiche di un'altra cultura, non importa quanto barbarica, perché "noi abbiamo la nostra moralità e loro hanno la loro". E l'intera impresa sembra trascinarci verso un nichilismo amorale, in cui la moralità stessa sarebbe declassata da principio trascendente a costruzione dei nostri circuiti neurali.

In realtà nessuna di queste paure è giustificata, ed è importante capire perché. Il primo fraintendimento riguarda la logica delle spiegazioni evoluzionistiche. I biologi evoluzionisti a volte antropomorfizzano il DNA per la stessa ragione per cui gli insegnanti di scienza trovano utile far immaginare agli studenti il mondo dal punto di vista di una molecola o di un raggio di luce. Un modo per comprendere la selezione naturale senza fare calcoli matematici è immaginare che i geni siano piccoli agenti che cercano di fare copie di se stessi.

Sfortunatamente, l'idea del gene egoista è sfuggita al controllo dei libri di biologia divulgativi e si è trasformata nell'idea che gli organismi (comprese le persone) siano inevitabilmente egoisti. E questo non segue. I geni non sono i custodi dei nostri desideri più oscuri e inconsci. I geni "egoisti" sono perfettamente compatibili con gli organismi altruisti, perché il metaforico scopo di un gene di replicare se stesso può essere raggiunto producendo cervelli altruisti, cervelli gentili coi parenti o che fanno del bene agli estranei. Quando una madre resta sveglia di notte per confortare un figlio malato, i geni che la hanno dotata di quella tenerezza sono stati "egoisti" in senso metaforico, ma in nessun modo questo significa che lei sia egoista.

Né l'altruismo reciproco (la ragione evoluzionistica per cui esiste il senso di equità) implica che le persone facciano opere buone nella cinica aspettativa di essere ripagati. Tutti noi conosciamo esempi di gesti buoni non richiesti, come dare mance a una barista in una città dove non tornerai mai più, o cadere su una granata per salvare i compagni del plotone. Questi impulsi di bontà non sono per un biologo così anomali come potrebbe sembrare.

Nel suo articolo classico del 1971 il biologo Trivers mostrò come la selezione naturale possa spingere nella direzione del vero altruismo. L'emergere della reciprocità Tit-for-tat, che permette agli organismi di scambiarsi favori senza essere imbrogliati, è solo un primo passo. Chi fa un favore non solo deve evitare gli imbroglioni (quelli che accetterebbero il favore senza restituirlo) ma anche preferire i reciprocatori generosi (quelli che restituirebbero il favore più grande che possono) rispetto a quelli avari (che restituirebbero il favore più piccolo). Poiché essere scelti come beneficiari di un favore è una cosa buona, nasce tra gli individui una competizione per essere il partner più generoso che c'è in giro. Per dirla in modo più accurato, nasce una competizione per sembrare il partner più generoso che c'è in giro, visto che l'autore del favore non può letteralmente leggere il pensiero o vedere nel futuro. La reputazione di equità e generosità diviene una ricchezza.

Questo crea una competizione tra i potenziali beneficiari a gonfiare la propria reputazione senza sforzarsi di supportarla coi fatti. Ma dà anche un incentivo all'artefice del favore a sviluppare un radar sempre più sensibile per distinguere i partner davvero generosi da quelli ipocriti. Questa "corsa agli armamenti" raggiungerà alla fine una logica conclusione. Il modo più efficace di sembrare generosi ed equi, quando si è sotto uno scrutinio così attento, è essere generosi ed equi. A lungo andare, quindi, la reputazione si può costruire solo con i fatti e con la dedizione. Almeno alcuni agenti evolvono una genuina capacità di sacrificarsi -- sono morali non per ciò che ne ricavano ma perché è questo il genere di persona che sono.

Naturalmente, una teoria che predicesse che tutti si sacrificheranno sempre per il bene altrui sarebbe assurda tanto quanto una che predicesse che nessuno si sacrificherà mai. Oltre a un posto per i santi c'è un posto per i reciprocatori più pigri, che attraggono meno partner e partner peggiori ma non fanno i sacrifici necessari per avere una reputazione scintillante. Ed entrambi possono coesistere con gli imbroglioni puri e semplici, che sfuttano gli ignari in episodi "una botta e via". Può così evolversi un ecosistema di nicchie, ognuna con una diversa strategia, dove il tornaconto di ciascuna strategia dipende da quanti giocatori stanno seguendo le altre strategie. L'ambiente sociale umano ha la sua buona dose di personaggi generosi, intermedi e disonesti, e la variazione genetica nella personalità sembra mostrare i tratti inconfondibili del suo processo evolutivo.

La moralità è un'illusione?

Quindi la comprensione biologica del senso morale non implica che le persone siano calcolatori che massimizzano [consapevolmente] il proprio interesse o quello dei propri geni. Ma in che posizione lascia il concetto di moralità stesso?

Ecco la preoccupazione. L'indagine scientifica ci ha rivelato che alcune parti della nostra esperienza soggettiva sono il prodotto della nostra storia biologica e non hanno controparte oggettiva nel mondo. La differenza qualitativa tra verde e rosso, il sapore della frutta e il tanfo di una carcassa, la paura delle altezze e la bellezza dei fiori sono caratteristiche architetturali del nostro sistema nervoso condiviso, e se la nostra specie si fosse evoluta in un altro ecosistema, o se fossimo nati senza alcuni geni, le nostre reazioni potrebbero andare nell'altra direzione. Ora, se anche la distinzione tra giusto e sbagliato è il prodotto del particolare modo in cui sono intrecciati i circuiti del nostro cervello, perché dovremmo ritenerla più reale della distinzione tra rosso e verde? E se questa è solo un'allucinazione collettiva, come potremmo sostenere che alcune malvagità come il genocidio e la schiavitù siano sbagliate per tutti, anziché semplicemente sgradevoli per noi?

Naturalmente un modo di risolvere il problema è mettere Dio a capo della moralità, se non fosse che Platone ha fatto a pezzi questa possibilità 2400 anni fa. Dio ha una ragione per definire certi atti come morali ed altri come immorali? Se non ce l'ha (cioè se i suoi precetti sono solo dei capricci divini) perché dovremmo prenderli seriamente? Supponi che Dio ci comandasse di torturare un bambino. Questo lo renderebbe giusto, oppure qualche altro standard ci darebbe motivo di opporci? Se invece Dio è stato costretto da ragioni morali a darci alcuni comandi e non altri (cioè se comandarci di torturare un bambino non è mai stato un'opzione) allora perché non appellarci direttamente a quelle ragioni?

Questo ci riporta a chiederci da dove vengano davvero quelle ragioni, se non sono semplici costruzioni del nostro cervello. Certamente non si trovano nel mondo fisico, come le lunghezze d'onda o la massa. L'unica opzione che rimane è che le verità morali esistano in qualche astratto regno platonico, pronte per essere scoperte da noi, forse nello stesso modo in cui scopriamo le verità matematiche (secondo la maggior parte dei matematici). Secondo questa analogia, noi nasciamo già dotati di un concetto rudimentale di numero, ma, non appena lo usiamo per ragionare secondo ragionamenti matematici formali, la natura della realtà matematica ci costringe a scoprire alcune verità e non altre. (Nessuno che comprende il concetto di "due", il concetto di "quattro" e il concetto di addizione può arrivare ad una conclusione diversa da "2+2 = 4".) Forse nasciamo con un rudimentale senso morale e, non appena lo usiamo per ragionare, la natura della realtà morale ci costringe ad alcune conclusioni ma non ad altre.

Questa idea, che si chiama realismo morale, è troppo ricca per molti filosofi. [Vedi anche l'opinione di Sam Harris, NdM.] Eppure una versione indebolita dell'idea non è affatto folle. (La versione che dice: ok, forse non abbiamo nel cervello una lista di regole "tu devi", ma almeno qualche regola del tipo "se-allora".) Ci sono due caratteristiche della realtà che indirizzano qualunque agente sociale razionale e dotato di autoconservazione in una direzione morale. E potrebbero fornire un criterio di valutazione per determinare quando i nostri giudizi morali sono allineati con la moralità stessa.

Una di queste caratteristiche è la prevalenza dei giochi a somma non-zero. In molte situazioni della vita, due individui hanno un risultato oggettivamente migliore se agiscono entrambi in modo non egoistico, piuttosto che se agiscono in modo egoistico. Tu e io stiamo meglio se condividiamo il cibo che ci avanza, salviamo i nostri rispettivi figli se si trovano in pericolo, ed evitiamo di spararci l'un l'altro, anziché accumulare ciò che ci avanza fino a farlo marcire, far affogare il figlio altrui mentre ci limiamo le unghie, o combattere tra noi come gli Hatfield e i McCoy. Certo, potrei stare un po' meglio se io agissi in modo egoistico alle tue spese e tu assumessi il ruolo del classico "fesso", ma lo stesso vale per te nei miei confronti, quindi se ognuno di noi provasse ad ottenere quel vantaggio staremmo entrambi peggio. Qualunque osservatore neutrale, come io e te se potessimo parlarne razionalmente, concluderebbe che lo stato a cui dobbiamo mirare è quello in cui tu e io siamo entrambi altruisti. Questo esito non è solo un capriccio della nostra circuitazione cerebrale, né è dettato da un ente soprannaturale; è nella natura stessa delle cose. [In altre parole, Pinker vuole dire che le leggi della fisica e dell'evoluzione produrranno necessariamente cervelli con quelle leggi morali, e non altre, quindi le leggi morali non sono soltanto accidenti storici, NdM].

Il secondo supporto esterno alla moralità è una caratteristica della moralità stessa. E' il fatto che essa non può dipendere dall'egocentrico punto di vantaggio assunto dall'osservatore. Se io ti chiedo di non fare una cosa che danneggia me (di scendere dal mio piede, o di dirmi che ore sono, o di non investirmi con la tua auto) allora non posso farlo in un modo che privilegia i miei interessi sui tuoi (diciamo, conservando per me il diritto di investire te con la mia auto) se voglio essere preso sul serio. A meno che io non sia l'Imperatore della Galassia, devo formulare la mia pretesa in un modo che mi costringa a trattarti in modo simile. Non posso agire come se i miei interessi fossero speciali solo perché io sono io e tu sei tu, più di quanto possa persuaderti che il punto in cui sono seduto è un posto speciale nell'universo perché si dà il caso che sia io ad esserci.

Non è un caso che il cuore di questa idea (l'intercambiabilità delle prospettive) continui a ricomparire nelle più ponderate filosofie morali della storia, compresa la Regola D'Oro (essa stessa scoperta molte volte); il punto di vista eterno di Spinoza; il contratto sociale di Hobbes, Rousseau e Locke; L'imperativo categorico di Kant; il velo di ignoranza di Rawls. Soggiace anche alla teoria di Peter Singer del cerchio in espansione -- la proposta ottimistica che il nostro senso morale, sebbene plasmato dall'evoluzione per farci dare un valore superiore a noi stessi, ai nostri parenti e al nostro clan, possa tuttavia spingerci verso un percorso di progresso morale, man mano che il ragionamento ci costringe a generalizzare e a dar valore ad un insieme sempre più vasto di esseri senzienti.

Conoscere noi stessi per agire meglio

La moralità, quindi, rimane qualcosa di più grande del senso morale che abbiamo ereditato, e la nuova scienza del senso morale non rende obsoleti il ragionamento morale e le convinzioni morali. Allo stesso tempo, le sue implicazioni per il nostro universo morale sono profonde.

Quantomeno, la scienza ci dice che anche quando le intenzioni dei nostri avversari sono del tutto sconcertanti, tuttavia essi potrebbero non essere degli psicopatici amorali, ma potrebbero essere in preda ad una mentalità morale che appare loro tanto obbligatoria e universale quanto la nostra appare a noi. Naturalmente, alcuni avversari sono davvero degli psicopatici, ed altri sono così avvelenati dalla moralizzazione punitiva che si collocano oltre il confine della ragione. (L'attore Will Smith ha avuto molti storici al suo fianco quando recentemente suggerì alla stampa che Hitler riteneva di agire moralmente.) Ma in ogni conflitto in cui un incontro di menti non sia del tutto inutile, riconoscere che l'altro sta agendo guidato dalla morale anziché da ragioni venali può essere un primo passo verso un risultato positivo per entrambi. Una parte può riconoscere la preoccupazione dell'altra per la comunità o la stabilità o l'equità o la dignità, e allo stesso tempo sostenere che qualche altro valore debba prevalere in quel caso particolare. Con le quote rosa, ad esempio, gli oppositori si possono considerare come agenti nel nome dell'equità, non del razzismo, e i difensori si possono considerare come agenti nel nome della comunità, non del potere burocratico. La sinistra può riconoscere la preoccupazione della destra verso la famiglia, notando allo stesso tempo che il matrimonio gay è perfettamente coerente con quella preoccupazione.

La scienza del senso morale ci sensibilizza anche verso i modi in cui la nostra impostazione psicologica può ostacolarci verso il raggiungimento delle conclusioni morali più difendibili. Il senso morale, come stiamo imparando, è vulnerabile alle illusioni tanto quanto gli altri sensi. Ha la tendenza a confondere la moralità stessa con la purezza, lo status e il conformismo. Tende a riformulare quelli che sono problemi pratici come crociate morali, e quindi vede la soluzione nell'aggressione punitiva. Impone tabù che rendono alcune idee impossibili da discutere. Ad ha anche la cattiva abitudine di porre sempre se stessi dalla parte degli angeli.

Sebbene i saggi abbiano a lungo riflettuto su come possiamo essere accecati dalla nostra stessa [sanctimony], i nostri dibattiti pubblici non riescono ancora a prenderne atto. Nei casi peggiori, la stupidità delle nostre intuizioni istintive viene celebrata come una virtù. Nel suo influente saggio "The Wisdom of Repugnance" [la saggezza della repulsione], Leon Kass, ex membro del consiglio presidenziale di bioetica, ha sostenuto che non dovremmo ascoltare la nostra ragione quando si parla di clonazione e altre tecnologie biomediche, ed ascoltare solo il nostro istinto: "Abbiamo repulsione verso la prospettiva di clonare esseri umani... perché intuiamo e sentiamo, immediatamente e senza discussione, la violazione di quelle cose a cui giustamente diamo valore... In questa epoca in cui tutto è permissibile fino a che si può fare liberamente... la repulsione potrebbe essere l'ultima voce che si leva a difesa del nucleo centrale dell'umanità. Di grande pochezza sono quelle anime che hanno dimenticato come si prova disgusto."

Ci sono naturalmente buone ragioni per regolare la clonazione umana, ma il test del disgusto non è una di queste. Storicamente le persone hanno provato repulsione di fronte a ogni tipo di violazioni della purezza nella loro cultura, violazioni che non hanno niente a che fare con la moralità: toccare un intoccabile, bere dalla stessa fontana con un negro, permettere al sangue ebreo di mescolarsi al sangue ariano, tollerare la sodomia tra uomini consenzienti. E se la repulsione provata dai nostri antenati avesse avuto la meglio, non avremmo mai avuto le autopsie, le vaccinazioni, le trasfusioni di sangue, l'inseminazione artificiale, i trapianti di organi, e la fertilizzazione in vitro, tutte cose che furono denunciate come immorali quando erano nuove.

Ci sono molte altre questioni per cui abbiamo troppa fretta di premere l'intetturrore della moralizzazione, e ad andare in cerca dei "cattivi" anziché di correzioni. Che cosa dovremmo fare quando un paziente di ospedale viene ucciso da un'infermiera che amministra la sostanza sbagliata per via intravenosa? Dovremmo rendere più facile denunciare l'ospedale per danni? O dovremmo riprogettare le connessioni IV in modo che sia fisicamente impossibile connettere la bottiglia sbagliata?

E la moralizzazione non è mai tanto sbagliata quanto nella nostra più grande sfida globale. La minaccia di un cambiamento climatico indotto dall'uomo è diventata occasione per un revival di moralismo. In molte discussioni, la causa del cambiamento climatico è l'eccessiva indulgenza (troppi SUV) e l'impurità (inquinare l'atmosfera), e la soluzione è la temperanza (conservazione) e l'espiazione (comprare buoni per il [carbon offset]). Eppure gli esperti sono concordi che questi argomenti non hanno senso: anche se ogni singolo americano diventasse coscienzioso sulle proprie emissioni di carbonio, l'effetto sul cambiamento del clima sarebbe irrisorio, se non altro perché è improbabile che due miliardi di indiani e cinesi imitino la nostra pura astinenza. Sebbene la conservazione volontaria possa essere un aspetto verso un'efficace riduzione dell'emissione di carbonio, gli altri aspetti dovranno essere moralmente noiosi, come una tassa sul carbonio e nuove tecnologie energetiche, o persino tabù, come l'energia nucleare e la manipolazione deliberata degli oceani e dell'atmosfera. La nostra abitudine di moralizzare i problemi, fondendoli con intuizioni sulla purezza e la contaminazione, e di quietarci quando poi sentiamo le giuste emozioni, può essere un ostacolo verso la cosa giusta da fare.

La scienza del senso morale, quindi, lungi dal delegittimare la moralità, può farla progredire, permettendoci di vedere oltre le illusioni che l'evoluzione e la cultura hanno preparato per noi, e di concentrarci sugli obiettivi che possiamo condividere e difendere. Come scrisse Anton Chekhov, "L'uomo diverrà migliore quando gli mostrerai la sua vera natura".

lunedì 14 gennaio 2008

L'istinto morale, di Steven Pinker


Questa è la prima metà della traduzione dell'articolo "l'istinto morale" di Steven Pinker. L'articolo originale in inglese si trova qui. Pinker è uno scienziato linguista e cognitivista autore tra l'altro dei libri "Come funziona la mente" e "Tabula rasa".

Per chi fosse particolarmente interessato a questo argomento, vedere anche qui.


L'istinto morale

Quale delle seguenti persone considerate più degna di ammirazione: madre Teresa, Bill Gates oppure Norman Borlaug? E quale la meno degna? Per la maggior parte della gente si tratta di una domanda facile. Madre Teresa, famosa per essersi presa cura dei poveri a Calcutta, è stata beatificata dal Vaticano, ha ricevuto il premio Nobel per la pace ed è stata classificata in un sondaggio americano come la persona più ammirata del ventesimo secolo. Bill Gates, famigerato per averci donato la graffetta animata Clippy e lo schermo blu della morte, è stato decapitato graficamente nei siti Web "odio Gates" e colpito con una torta in faccia. Per quanto riguarda Norman Burlaugh... chi cavolo è Norman Borlaug?

Eppure uno sguardo più attento potrebbe portarvi a ripensare le vostre risposte. A Borlaug, il padre della "rivoluzione verde" che ha usato la scienza dell'agricoltura per ridurre la fame nel mondo, è stato riconosciuto di aver salvato un miliardo di vite, più di qualunque altra persona nella storia. Gates, nel decidere cosa fare con la sua fortuna, ha calcolato che il modo con cui poteva alleviare più sofferenza era combattere le afflizioni di tutti giorni nel mondo sottosviluppato, come malaria, diarrea e parassiti. Madre Teresa, da parte sua, esaltava la virtù della sofferenza ed amministrava le sue ben finanziate missioni in base a questo principio: ai suoi malati venivano offerte molte preghiere ma condizioni durissime, pochi analgesici e cure mediche pericolosamente primitive.

Non è difficile vedere perché la reputazione morale di questo trio debba essere così lontana dal bene che hanno fatto. Madre Teresa era la personificazione stessa della santità: vestita di bianco, con gli occhi tristi, ascetica e spesso fotografata assieme ai reietti. Gates è il secchione dei secchioni nonché l'uomo più ricco del mondo, con tante probabilità di entrare in paradiso quante il proverbiale cammello di entrare nella cruna di un ago. E Borlaug, che ora ha 93 anni, è un agronomo che ha speso la maggior parte della sua vita in laboratori e associazioni senza scopo di lucro, entrando raramente sotto i riflettori dei media, e quindi nella nostra coscienza.

Dubito che questi esempi persuaderanno chiunque a preferire Bill Gates a madre Teresa in quanto a santità. Ma mostrano che le nostre attenzioni possono essere attirate da un'aura di santità, distraendoci da un'analisi più obiettiva delle azioni che fanno soffrire o star bene le persone. Sembra che siamo vulnerabili ad illusioni morali che sono l'equivalente etico delle illusioni ottiche che si trovano nei libri di psicologia e nelle scatole di cereali, dove alcune linee sembrano incurvarsi ed ingannano l'occhio. Le illusioni sono uno strumento molto usato dagli scienziati della percezione per rivelare il funzionamento dei cinque sensi, e dai filosofi per farci abbandonare l'ingenua convinzione che la nostra mente ci offra una fotografia attendibile del mondo (poiché se i nostri occhi possono essere ingannati da un'illusione, perché dovremmo fidarci di loro in altri momenti?). Oggi un nuovo settore scientifico sta usando le illusioni per smascherare un sesto senso, il senso morale. Le intuizioni morali vengono estratte dai soggetti in laboratorio, su siti Web o con scanner cerebrali, e vengono spiegate con strumenti provenienti dalla teoria dei giochi, dalla neuroscienza e della biologia evoluzionistica.

"Due cose riempiono la mente di ammirazione e stupore, sempre più forti man mano che ci riflettiamo sopra" scrisse Immanuel Kant "il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi". Al giorno d'oggi, la legge morale viene guardata con stupore sempre maggiore, sebbene non sempre con ammirazione. Il senso morale umano si rivela essere un organo di complessità notevole, con piccole stranezze che riflettono la sua storia evolutiva e il suo fondamento neurobiologico.

Queste stranezze sono destinate ad avere implicazioni per i predicamenti umani. La moralità non è solo un argomento come un altro in psicologia ma è vicina alla nostra concezione del significato della vita. La bontà morale è ciò che ci fa sentire esseri umani degni di questo nome. La cerchiamo nei nostri amici e compagni, cerchiamo di impartirla ai nostri figli, la esponiamo nella nostra politica e la giustifichiamo con la nostra religione. La colpa dei peccati di tutti giorni e delle peggiori atrocità della storia viene attribuita a una mancanza di rispetto per la moralità. Per sopportare questo peso, il concetto di moralità dovrebbe essere più grande di ciascuno di noi e al di fuori di ciascuno di noi.

Quindi indagare sulle intuizioni morali non è una questione da poco. Se la moralità è semplicemente un'illusione del cervello, alcuni temono che possano crollare le stesse fondamenta dell'essere morali. Eppure, come vedremo, la scienza del senso morale può al contrario rafforzare queste basi, chiarendo cosa è la moralità e come dovrebbe guidare le nostre azioni.

L'interruttore della moralizzazione

Il punto di partenza per rendersi conto che la nostra psicologia morale ha qualcosa di unico è notare come i giudizi morali differiscano dagli altri tipi di opinioni che abbiamo di come le persone dovrebbero comportarsi. La moralizzazione è uno stato psicologico che si può accendere e spegnere come un interruttore, e, quando è acceso, il nostro pensiero è guidato da una mentalità molto particolare. È la mentalità che ci fa qualificare alcune azioni come immorali ("uccidere è sbagliato") piuttosto che semplicemente non condivisibili (odio i cavoletti di Bruxelles), sconvenienti (il doppio petto è fuori moda) o imprudenti ("non grattarti le punture di zanzara").

Il primo segno distintivo della moralizzazione è che le regole da essa invocate vengono percepite come universali. La proibizione dello stupro e dell'omicidio, ad esempio, vengono percepite non come questioni di costume locale ma come qualcosa che deve essere garantito universalmente e oggettivamente. Uno può facilmente dire "non mi piacciono i cavoletti di Bruxelles, ma non ho alcun problema se tu li vuoi mangiare" ma nessuno direbbe "non mi piace uccidere, ma non ho problemi se tu uccidi qualcuno".

L'altro segno distintivo è che le persone sentono che coloro che commettono atti immorali meritano di essere puniti. Non solo è lecito infliggere dolore in una persona che ha rotto una regola morale; addirittura è sbagliato non farlo, cioè "lasciare che la faccia franca". Le persone quindi non hanno alcun problema ad invocare la retribuzione divina o il potere dello Stato per infliggere un danno ad altre persone che ritengono immorali. Scrisse Bertrand Russell: "Poter infliggere dolore con la coscienza pulita è una cosa che manda in visibilio i moralisti -- ecco perché hanno inventato l'inferno".

Sappiamo tutti cosa si prova quando scatta dentro di noi l'interruttore della moralizzazione -- il senso di essere nel giusto, il bruciore dell'ingiustizia, l'impulso di reclutare altre persone nella nostra causa. Lo psicologo Paul Rozin ha studiato questo interruttore confrontando due tipi di persone che assumono lo stesso comportamento ma con diverse motivazioni per azionare l'interruttore. Quelli che sono vegetariani a scopo di salute evitano la carne per ragioni pratiche, come abbassare il colesterolo ed evitare le tossine. I vegetariani morali evitano la carne per ragioni etiche: per evitare di essere complici nella sofferenza degli animali. Investigando i loro sentimenti circa l'atto di mangiare carne, Rozin ha mostrato che l'obiettivo morale mette in azione una catena di opinioni. I vegetariani morali hanno più probabilità di trattare la carne come un contaminante -- ad esempio si rifiutano di mangiare una zuppa in cui è caduta una goccia di brodo di carne. Hanno una probabilità maggiore di pensare che gli altri dovrebbero essere vegetariani, e hanno maggior probabilità di collegare le proprie abitudini alimentari con altre virtù, come il credere che evitare la carne renda le persone meno aggressive e bestiali.

La maggior parte della nostra storia sociale recente, comprese le guerre culturali tra sinistra a destra, consiste nella moralizzazione o amoralizzazione di alcuni comportamenti. Anche quando le persone sono d'accordo che sia desiderabile un certo risultato, possono non essere d'accordo se si debba trattare come una questione di preferenza e prudenza oppure come una questione di peccato e virtù. Ad esempio, Rozin nota che l'atto di fumare è stato recentemente moralizzato. Fino a poco tempo fa, si capiva che alcune persone non amavano fumare o lo evitavano perché era un danno per la loro salute. Ma con la scoperta degli effetti nocivi nel fumo passivo, fumare è oggi divenuto immorale. I fumatori sono ostracizzati; le immagini delle persone che fumano vengono censurate; e gli oggetti toccati dal fumo vengono percepiti come contaminati (per cui gli hotel hanno non solo camere per non fumatori ma piani per non fumatori). La sete di retribuzione è stata indirizzata verso le compagnie del tabacco, a cui sono stati inflitti enormi "danni punitivi".

Allo stesso tempo, molti comportamenti sono stati amoralizzati, passando da errori morali a scelte di vita. Includono il divorzio, l'illegittimità, l'essere una madre che lavora, il fare uso di marijuana e l'essere omosessuali. Molte condizioni di sofferenza che una volta erano considerate un pagamento per aver fatto cattive scelte ora vengono considerate il frutto della sfortuna. Una volta c'erano persone che venivano chiamate "barboni" ["bums" e "trams"], mentre ora sono "senzatetto". La tossicodipendenza è una "malattia"; la sifilide una volta era il pagamento per un comportamento libertino, poi è diventata una "malattia sessualmente trasmessa" e più recentemente è diventata una "infezione sessualmente trasmessa".

Questa ondata di amoralizzazione ha portato la destra culturale a dire che la moralità stessa è sotto assalto [..]. Al contrario sembra esistere una Legge della Conservazione della Moralità, tale che, man mano che alcuni vecchi comportamenti vengono rimossi dall'elenco di quelli moralizzati, ne vengono aggiunti dei nuovi. Molte cose che le generazioni passate trattavano come faccende pratiche ora sono diventate questioni etiche, e comprendono i pannolini che si possono gettare nell'immondizia, i test di intelligenza, le fattorie dove si allevano polli, le bambole Barbie e la ricerca sul cancro al seno. Il cibo è diventato un campo minato, in cui molti critici si profondono in sermoni riguardanti la dimensione delle lattine, la chimica dei grassi, la libertà dei polli, il prezzo dei chicchi di caffè, le specie di pesci, e oggi la distanza che è stata percorsa dal cibo per giungere dalla fattoria al nostro piatto.

Molte di queste moralizzazioni, come l'assalto al fumo, si possono spiegare come tattiche pratiche per ridurre alcuni danni recentemente identificati. Ma non è sempre così: se un'attività fa scattare o meno il nostro interruttore morale non è soltanto una faccenda di quanto danno fa. Noi non mostriamo disprezzo verso un uomo che per negligenza non cambia la batteria nei suoi allarmi antifumo, o che porta la sua famiglia in vacanza in automobile, entrambi cose che moltiplicano il rischio di morire in un incidente. Guidare una Hummer che consuma moltissimo è considerato riprovevole, ma guidare una vecchia Volvo che consuma moltissimo non lo è; mangiare un Big Mac è un atto non coscienzioso, ma mangiare del formaggio importato o la creme brulee non lo è. La ragione di questo doppio standard è ovvia: la gente tende ad allineare la propria moralizzazione con il proprio stile di vita.

Ragionare e razionalizzare

Non è solo il contenuto dei nostri giudizi morali ad essere spesso discutibile, ma il modo in cui ci arriviamo. Ci piace pensare che, quando abbiamo una convinzione, ci sono buone ragioni che ci hanno portato a maturarla. Ecco perché un approccio meno recente alla psicologia morale, condotto da Jean Piaget e Lawrence Kohlberg, ha cercato di documentare il modo di ragionare che guidava le persone verso conclusioni morali. Ma considerate queste situazioni, ideate dallo psicologo Jonathan Haidt:

Julie, una ragazza che frequenta il college, si trova in viaggio in Francia, in vacanza estiva, con suo fratello Mark. Una notte decidono che sarebbe interessante e divertente se provassero a fare l'amore. Julie stava già prendendo pillole anticoncezionali, ma Mark decide di indossare anche il preservativo, per maggiore sicurezza. Il rapporto sessuale risulta piacevole per entrambi, ma decidono di non ripeterlo. Conservano quella notte come un segreto speciale, che li rende più vicini l'uno con l'altra. Che cosa ne pensate? E' stato ok per loro fare l'amore?

Una donna sta pulendo l'armadio e trova una sua vecchia bandiera americana. Non la vuole più, quindi la fa a pezzi e la usa come straccio per pulire il bagno.

Il cane di una famiglia viene investito e ucciso da una macchina davanti a casa loro. I membri della famiglia avevano sentito dire che la carne di cane è deliziosa, quindi fanno a pezzi il corpo del cane, lo cucinano e lo mangiano per cena.

La maggior parte delle persone dichiara immediatamente che questi atti sono sbagliati, ma poi ha problemi a giustificare perché sono sbagliati. Non è così facile. Nel caso di Julie e Mark, le persone tirano in ballo la possibilità di generare figli con difetti di nascita, ma poi si ricordano della coppia è stata attenta alla contraccezione. Suggeriscono che i due fratelli avranno un danno emotivo, ma la storia chiarisce che non è stato così. Provano a dire che l'atto offenderebbe la comunità, ma poi si ricordano che l'atto è stato mantenuto segreto. Alla fine molte persone ammettono "non lo so, non riesco a spiegarlo, semplicemente so che è sbagliato". Le persone in genere non fanno un ragionamento morale, dice Haidt, ma una razionalizzazione morale [a posteriori]: partono dalla conclusione, che è stata generata da un'emozione inconscia, e poi ragionano all'indietro per cercare una giustificazione plausibile. [Notare l'affinità con questo esperimento, in cui la decisione non è stata presa da te, ma tu ti autoconvinci che sei stato tu, NdM].

La lacuna tra le convinzioni delle persone e le loro giustificazioni è anche molto evidente in un esperimento mentale oggi molto in voga tra gli psicologi morali, inventato dai filosofi Pjilippa Foot e Judith Jarvis Thomson, chiamato il problema del carrello ferroviario. [L'abbiamo già visto qui, NdM]. Stai camminando di mattina e vedi un carrello ferroviario che corre impazzito lungo la rotaia, perché il suo conducente è svenuto al comando. Sul percorso del carrello ci sono cinque uomini che lavorano alla rotaia, ignari del pericolo. Tu ti trovi a una biforcazione nella rotaia e hai la possibilità di tirare la leva che dirotterà il carrello su un binario laterale, salvando i cinque uomini. Sfortunatamente, il carrello in quel caso investirà il singolo operaio che sta lavorando in quel punto. È lecito azionare lo scambio, uccidendo un uomo per salvarne cinque? quasi tutti rispondono di sì.

Considerate ora una scena diversa. Siete su un ponte da cui si vedono le rotaie sottostanti, e avete visto il carrello impazzito che sta per investire i 5 operai. Ora l'unico modo di fermare il carrello è lanciare un oggetto pesante sul suo percorso. E l'unico oggetto pesante nei paraggi è un uomo grasso che si trova vicino a te. Dovresti lanciare l'uomo giù dal ponte? Entrambi i dilemmi ti offrono l'opzione di sacrificare una vita per salvarne cinque, e quindi, secondo gli standard utilitaristici di ciò che produrrebbe il bene maggiore per il maggior numero di persone, i due dilemmi sono moralmente equivalenti. Eppure la maggior parte delle persone non la vedono così: azionerebbero il cambio nel primo dilemma, ma non spingerebbero l'uomo grasso nel secondo. Quando si chiede loro la ragione, non riescono a dire nulla di coerente, sebbene anche i filosofi morali abbiano avuto difficoltà a trovare una differenza rilevante.

[..] Questa differenza tra la liceità di azionare il cambio nei due casi, e l'incapacità di giustificare la scelta, è stata riscontrata negli abitanti dell'Europa, Asia, Nord America e Sud America; tra uomini e donne, bianchi e neri, teenager e ottuagenari, induisti, musulmani, buddisti, cristiani, ebrei ed atei; persone con la licenza di scuola elementare e persone con un dottorato. [E anche tra tribù completamente isolate dal mondo civile, dove i concetti di ferrovia e carrello sono stati tradotti con concetti corrispondenti a loro comprensibili, come alligatore e canoa, NdM]

Joshua Greene, filosofo e neuroscienziato cognitivista, suggerisce che l'evoluzione abbia dotato le persone di una repulsione verso l'atto di usare la forza verso una persona innocente. [Dawkins sostiene che la legge morale, creata dall'evoluzione, è che non è lecito usare un tuo simile come mezzo non consenziente per uno scopo: nel primo caso l'uomo sacrificato sul binario laterale non sta venendo usato da me come mezzo, ma è una "vittima collaterale", NdM.] Questo istinto, suggerisce Greene, tende a prevalere su qualunque calcolo utilitaristico che tenga conto del numero di vite salvate e perdute. [Nota: questo stesso argomento è usato anche dai libertari per sostenere che non è moralmente lecito sottrarre con la forza un centesimo a un ricco per salvare la vita a un povero, NdM. ] La repulsione verso l'atto di usare la forza verso un proprio simile spiegherebbe altri esempi in cui le persone non ritengono lecito uccidere una persona per salvarne tante, come il caso di uccidere in modo indolore un paziente di un ospedale allo scopo di salvare la vita di cinque pazienti che hanno bisogno di un trapianto, o il caso di gettare qualcuno da una barca affollata per evitare che affondi.

Di per sé questa non sarebbe molto più che una storia plausibile, ma Greene si è associato al neuroscienziato cognitivista Jonathan Cohen e numerosi altri colleghi di Princeton per spiare all'interno del cervello delle persone per mezzo dell'M.R.I. funzionale. Hanno cercato segni di un conflitto tra le aree del cervello associate alle emozioni (quelle che si attivano quando si fa del male a qualcuno) e le aree adibite all'analisi razionale (quelle che calcolano le vite salvate e perdute).

Quando le persone ponderavano i dilemmi che richiedevano di uccidere qualcuno a mani nude, si accendevano diverse aree del cervello. Una di esse, che comprende le parti mediali (rivolte verso l'interno) dei lobi frontali, è implicata nelle emozioni verso le altre persone. Un'altra area, quella dorsolaterale (rivolta verso l'alto e l'esterno), è implicata nella computazione mentale (il che comprende il ragionamento nonmorale, come decidere se prendere il treno o l'aereo per andare da qualche parte). E una terza regione, la corteccia cingolata anteriore (una striscia evolutivamente antica che si trova alla base della superficie interna di ciascun emisfero del cervello) registra un conflitto tra un impulso proveniente da una parte del cervello e un precetto che proviene da un altro.

Ma quando le persone stavano ponderando un dilemma dove non è necessario mettere le mani addosso a nessuno, come quello di azionare il cambio ferroviario, il cervello reagiva in modo diverso: si attivava solo l'area di cervello associata al calcolo razionale.

Altri studi hanno mostrato che i pazienti neurologici che subiscono una menomazione alle emozioni, a causa di danni ai lobi frontali, si trasformano in utilitaristi: essi ritengono che abbia perfettamente senso gettare l'uomo grasso giù dal ponte. Tutte queste scoperte messe assieme corroborano la teoria di Greene che le nostre intuizioni non-utilitaristiche derivano dal fatto che un impulso emotivo prevale sull'analisi razionale costi-benefici.



Una moralità universale?

Le scoperte della carrellologia -- intuizioni morali complesse, istintive e comuni in ogni parte del mondo -- hanno portato Hauser e John Mikhail (uno studioso di legge) a ripescare un'analogia del filosofo John Rawls tra il senso morale e il linguaggio. Secondo Noam Chomsky, veniamo al mondo dotati di una "grammatica universale" che ci costringe ad analizzare la lingua parlata in termini della sua struttura grammaticale, senza avere alcuna consapevolezza conscia delle regole del linguaggio. Per analogia, veniamo al mondo con una grammatica morale universale che ci costringe ad analizzare l'azione umana in termini della sua struttura morale, anche qui senza consapevolezza di ciò che avviene nel nostro cervello.

L'idea che il senso morale sia una parte innata della natura umana non è un'esagerazione. L'antropologo Donald E. Brown ha riempito un elenco di caratteristiche universali umane, che comprende molti concetti ed emozioni morali, tra cui la distinzione tra giusto e sbagliato; l'empatia; l'equità; l'ammirazione della generosità; i diritti e gli obblighi; la proscrizione di omicidio, stupro ed altre forme di violenza; la compensazione dei torti; le sanzioni per i torti contro la comunità; la vergogna; i tabù.

Gli impulsi della moralità si manifestano presto nell'infanzia. I bambini offrono spontaneamente giocattoli ed aiuto ad altri, e cercano di confortare le persone che vedono in pena. E secondo gli psicologi Elliot Turel e Judith Smetana, i bambini dell'asilo conoscono già in parte la differenza tra le convenzioni sociali e i principi morali. I bambini di quattro anni dicono che non è lecito indossare il pigiama a scuola (una convenzione) e anche che non è lecito colpire una bambina senza ragione (un principio morale). Ma quando si chiede loro se queste azioni sarebbero lecite se il maestro le permettesse, la maggior parte dei bambini dicono che indossare il pigiama sarebbe ora lecito, ma colpire una bambina non lo sarebbe.

Sebbene nessuno abbia identificato i geni della moralità, c'è evidenza circostanziale della loro esistenza. Quei tratti del carattere chiamati "coscienziosità" e "condivisibilità" sono molto più correlati nei gemelli identici separati alla nascita (i quali condividono i geni ma non l'ambiente) che in fratelli adottivi allevati insieme (i quali condividono l'ambiente ma non i geni). Le persone a cui viene diagnosticato il "disordine antisociale della personalità" o la "psicopatia" mostrano segni di cecità morale sin da bambini. Fanno bullismo sui bambini più piccoli, torturano gli animali, mentono abitualmente e sembrano incapaci di empatia o rimorso, spesso pur avendo una famiglia normale. Alcuni di questi bambini crescendo diventano dei mostri che derubano gli anziani di tutti i loro risparmi, stuprano molte donne in successione o sparano ai commessi nei negozi di alimentari sdraiati al suolo durante una rapina.

Sebbene la psicopatia derivi probabilmente da una predisposizione genetica, in una versione più debole può essere causata da un danno alle regioni frontali del cervello (comprese le aree che impediscono alle persone normali di spingere l'ipotetico uomo grasso giù dal ponte). I neuroscienziati Hanna ed Antonio Damasio e i loro colleghi hanno scoperto che alcuni bambini che subiscono gravi danni ai lobi frontali possono diventare crudeli e irresponsabili da adulti, pur avendo un'intelligenza normale. Essi mentono, rubano, ignorano le punizioni, mettono in pericolo i propri figli e non riescono a venire a capo neppure del più semplice dilemma morale, come che cosa devono fare due persone se non sono d'accordo su quale canale tv guardare, o se un uomo possa rubare un farmaco per salvare sua moglie che sta morendo.

Il senso morale, dunque, potrebbe essere radicato nell'architettura del cervello umano normale. Eppure [...] questa idea è nel caso migliore incompleta. Considerate questo dilemma morale: un carrello impazzito sta per uccidere una maestra di scuola. Potete dirottare il carrello su un binario laterale, ma il carrello attiverebbe un interruttore che manda un segnale ad una classe di bambini di sei anni, dando loro il permesso di dare il nome Maometto ad un orsetto di peluche. È lecito spingere la leva?

Questo non è uno scherzo. Il mese scorso una donna britannica che insegnava in una scuola privata in Sudan ha permesso alla sua classe di dare a un orsetto il nome del bambino più popolare della classe, che aveva il nome del fondatore dell'Islam. È stata incarcerata per blasfemia e minacciata di flagellazione pubblica, mentre una folla fuori della prigione pretendeva la sua morte. Per queste persone, la vita della donna chiaramente valeva meno che massimizzare la dignità della loro religione, e il loro giudizio sulla domanda se sia giusto deviare l'ipotetico carrello sarebbe stato diverso dal nostro. Qualunque grammatica guidi i giudizi morali delle persone non può essere troppo universale. Chiunque abbia seguito un corso introduttivo di antropologia senza dormire potrebbe offrire molti altri esempi.

(continua qui)