giovedì 21 febbraio 2008

La mente è un programma

Proseguo l'estratto del libro "Come funziona la mente" di Steven Pinker (episodio precedente qui).

Ci troviamo ancora in una parte introduttiva in cui Pinker espone rapidamente le tesi centrali del libro. Alcune tesi salienti sono: la mente è un programma, e il programmatore è la selezione naturale; le nostre credenze sono informazioni scritte fisicamente nel cervello mediante simboli; il pensiero è manipolazione di quei simboli, e in quanto tale è riproducibile su una macchina non biologica, come un computer. Viene introdotto il concetto di "psicologia evoluzionistica" e di "teoria computazionale della mente". E' notevole la soluzione offerta da Pinker del paradosso mente-corpo: come può una mente "incorporea" causare le azioni di corpi materiali?

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Un'ingegneria inversa della psiche

Argomento di questo libro è appunto la complessa struttura della mente. La sua idea chiave può essere espressa in una frase: la mente è un sistema di organi di computazione designato per selezione naturale a risolvere i problemi posti ai nostri antenati dalla loro condizione di cacciatori-raccoglitori, in particolare come capire e sfruttare oggetti, animali, piante e altre persone. Tale sintesi è scomponibile in più affermazioni. La mente è ciò che il cervello fa; in particolare, il cervello elabora informazione, e pensare è un tipo particolare di computazione. La mente è organizzata in moduli, o organi mentali, dotati ognuno di una specializzazione che ne fa un esperto in un singolo terreno d'interazione con il mondo. La logica base dei moduli è specificata dal nostro programma genetico. Il loro funzionamento si è modellato per selezione naturale in modo da risolvere i problemi della vita di cacciatori e raccoglitori condotta dai nostri antenati durante la maggior parte della nostra storia evoluzionistica. I vari problemi dei nostri antenati erano sottocompiti di un unico grande problema dei loro geni: massimizzare il numero di copie capaci di giungere alla generazione successiva.

In quest'ottica, la psicologia è ingegneria inversa. Nell'ingegneria normale si costruisce una macchina per un certo scopo; nell'ingegneria inversa si cerca di capire per quale scopo una macchina è stata costruita. Ingegneria inversa è quello che fanno segretamente gli scienziati della Sony quando la Panasonic annuncia un nuovo proodotto, o viceversa: lo comprano, lo portano in laboratorio, prendono un cacciavite e cercano di capire a che serve ognuno dei suoi elementi e come sono stati messi insieme per farlo funzionare. Tutti noi facciamo ingegneria inversa quando ci troviamo di fronte a un nuovo interessante aggeggio. Rovistando in un negozio di antiquariato, può capitarci di scoprire un oggetto che, finché non realizziamo a quale fine è stato fabbricato, resta impenetrabIle. Ma quando ci renndiamo conto che si tratta di uno snocciola-olive, all'improvviso comprendiamo che l'anello di metallo serve a deporvi l'oliva, e la leva fa calare una lama a X che spinge fuori il nocciolo dall'altra parte. In un lampo d'intuito forma e disposizione di molle, perni, lame, leve e anelli acquistano, con nostra soddisfazione, senso. Arriviamo persino a capire perché le olive in scatola hanno a un'estremità un'incisione a X.

Nel XVII secolo William Harvey scoprì che le vene sono munite di valvole, e ne dedusse che dovevano servire a far circolare il sangue. Da allora siamo giunti a intendere il corpo come una macchina di mirabile complessità, un assemblaggio di puntoni, cavi, molle, pulegge, leve, giunti, perni, incassature, serbatoi, tubi, valvole, guaine, pompe, scambiatori, filtri. Possiamo tuttora provare una deliziosa sorpresa scoprendo a che cosa servano certe sue misteriose parti. Perché abbiamo queste nostre tortuose e asimmetriche orecchie? Perché filtrano onde sonore provenienti da direzioni diverse in modi diversi. Le sfumature dei riflessi sonori dicono al cervello se la fonte del suono è sopra o sotto, di fronte o dietro di noi. La strategia dell'ingegneria inversa del corpo ha continuato a essere praticata nella seconda metà del nostro secolo, quando si è esplorata la nanotecnologia della cellula e delle molecole della vita. La sostanza vitale si è rivelata non un vibrante, ardente, portentoso gel, bensì un marchingegno fatto di minuscole guide, molle, perni, aste, lamine, magneti, cerniere, botole, assemblati da un nastro dati le cui informazioni sono copiate, scaricate e analizzate.

La legittimazione dell'ingegneria inversa degli esseri viventi viene, è naturale, da Charles Darwin. Fu lui a indicare come «organi di estrema perfezione e complessità, che giustamente suscitano la nostra ammirazione» provengano non dalla preveggenza di Dio, ma dall'evoluzione di replicatori lungo immensi periodi di tempo. Mentre i replicatori replicano, si verificano a volte casuali errori di copiatura, e quelle modifiche a cui accade di accrescere la probabilità di sopravvivenza e riproduzione del replicatore tendono ad accumularsi lungo le generazioni. Piante e animali sono replicatori, e il loro complicato macchinario sembra quindi essere stato progettato e prodotto per permettere loro di sopravvivere e riprodursi.

Darwin sottonineò che la sua teoria spiegava non solo la complessità del corpo di un animale, ma anche quella della sua mente. «La psicologia si baserà su nuove fondamenta» è la famosa predizione con cui terminò L'origine delle specie. Ma la sua profezia non si è ancora realizzata. Oltre un secolo dopo quelle parole, lo studio della mente per lo più fa ancora a meno di Darwin, e spesso lo fa con intenzioni provocatorie. L'evoluzione, si dice, è irrilevante, peccaminosa o, al massimo, buona per un'elucubrazione serale davanti a un boccali di birra. Nelle scienze sociali e cognitive l'allergia per l'evoluzionismo e stata, a mio parere, una barriera alla comprensione. La mente è un sistema stupendamente organizzato, e compie grandi imprese che nessun ingegnere sa replicare. Com'è possibile che le forze che hanno modellato questo sistema, e gli scopi per i quali esso è stato progettato, siano irrilevanti per comprenderlo? Il pensiero evoluzionistico è indispensabile, non nella forma in cui molti lo intendono, tipo fantasticare di anelli mancanti o raccontare storie sugli stadi dell'uomo, ma nella forma di una rigorosa ingegneria inversa. Senza ingegneria inversa siamo come il cantante di The Marvelous Toy, di Tom Paxton, quando ricorda un regalo ricevuto da bambino: «Quando si muoveva faceva ZIP!, e quando si fermava, POP! e se restava immobile, WHIRR!; che cosa fosse non l'ho mai saputo, né credo che mai lo saprò». .

È solo negli ultimissimi anni che la sfida di Darwin è stata raccolta da un nuovo approccio, battezzato dall'antropologo John Tooby e dalla psicologa Leda Cosmides «psicologia evoluzionistica». La psicologia evoluzionistica fonde due rivoluzioni scientifiche. Una è la rivoluzione cognitivista degli anni Cinquanta e Sessanta, che spiega la meccanica di pensiero ed emozione in termini di informazione e computazione. L'altra è la rivoluzione nella biologia evoluzionistica degli anni Sessanta e Settanta, che spiega il complesso schema di adattamento degli esseri viventi in termini di selezione fra replicatori. Le due idee costituiscono una combinazione potente. La scienza cognitiva ci aiuta a capire come sia possibile una mente e che tipo di mente abbiamo; la biologia evoluzionistica ci aiuta a capire perché abbiamo il tipo di mente che abbiamo.

La psicologia evoluzionistica di questo libro è, per un verso, una chiara e semplice estensione della biologia che si concentra su un unico organo, la mente, di un'unica specie, l'Homo sapiens. Ma, per un altro verso, è una tesi radicale che taglia i ponti con il modo in cui i problemi riguardanti la mente sono impostati da quasi un secolo. Le premesse di questo libro non sono probabilmente quelle che pensate. Il pensiero è computazione, sostengo, ma questo non significa che il computer sia una buona metafora della mente. La mente è una serie di moduli, ma i moduli non sono scatole incapsulate o macchie circoscritte sulla superficie del cervello. L'organizzazione dei nostri moduli mentali ha origine nel nostro programma genetico, ma questo non vuol dire che esista un gene per ogni elemento o che l'apprendimento sia meno importante di quanto pensassimo. La mente è un adattamento frutto di selezione naturale, ma ciò non vuol dire che tutto ciò che pensiamo, sentiamo e facciamo sia il risultato di un adattamento biologico. Ci siamo evoluti dalle scimmie, ma non per questo la nostra mente è uguale alla loro. E, se il fine ultimo della selezione naturale è la propagazione dei geni, ciò non vuol dire che questo sia il fine ultimo anche per le persone. Io vi dirò perché no.

Questo libro si occupa del cervello, e tuttavia non parlerò granché di neuroni, ormoni e neurotrasmettitori. E questo perché la mente non è il cervello, bensì le sue funzioni, e nemmeno tutte: non, per esempio, il metabolismo dei grassi o l'emanazione di calore. Gli anni Novanta sono stati chiamati il «decennio del cervello», ma non ci sarà mai un «decennio del pancreas». Lo speciale status del cervello deriva dalla sua speciale funzione, che ci permette di vedere, pensare, provare sensazioni, scegliere e agire. Questa funzione speciale è l'elaborazione di informazioni, o computazione.

Informazione e computazione risiedono in pattern, o configurazioni, di dati e in rapporti di logica che sono indipendenti dal medium fisico che li trasporta. Quando telefono a mia madre in un'altra città, il messaggio rimane lo stesso che va dalle mie labbra alle sue orecchie, anche se cambia forma fisica: da aria in vibrazione a elettricità in un filo, a cariche nel silicio, a luce guizzante in un cavo a fibre ottiche, a onde elettromagnetiche, e ritorno seguendo il percorso inverso. Analogamente, il messaggio rimane lo stesso quando, dopo aver cambiato forma nella sua testa diventando una cascata di neuroni che si attivano e di sostanze chimiche che si diffondono atttraverso sinapsi, lei lo ripete a mio padre seduto sul lato opposto del divano. Allo stesso modo, un dato programma può correre su computer fatti di tubi a vuoto, commutatori elettromagnetici, transistor, circuiti integrati, o piccioni viaggiatori ben addestrati, e ottiene gli stessi risultati per le stesse ragioni.

Tale intuizione, espressa per la prima volta dal matematico Alan Turing, dagli informatici Alan Newell, Herbert Simon e Marvin Minsky e dai filosofi Hilary Putnam e Jerry Fodor, è ora detta teoria computazionale della mente. È una delle grandi idee della storia della cultura, perché risolve uno degli enigmi che costituiscono il «problema mente-corpo»: come connettere il mondo immateriale di significato e intenzione, l'essenza della nostra vita mentale, con un grumo di materia come il cervello. Perché Bill è salito sull'autobus? Perché voleva andare a trovare sua nonna e sapeva che l'autobus ve lo avrebbe portato. Nessun'altra risposta funziona. Se Bill detestasse vedere sua nonna, o sapesse che l'autobus ha cambiato percorso, il suo corpo non ci sarebbe salito. Per millenni questo è stato un paradosso. Entità quali «volere far visita alla nonna» e «sapere che l'autobus porta a casa della nonna» sono incolori, inodori e insapori. Eppure, nello stesso tempo, sono cause di eventi fisici, potenti come una palla di biliardo che ne colpisce un'altra.

La teoria computazionale della mente risolve il paradosso. Essa afferma che credenze e desideri sono informazioni, incarnate come configurazioni di simboli. I simboli sono gli stati fisici di pezzetti di materia, quali i chips di un computer o i neuroni del cervello. Essi simboleggiano cose esistenti nel mondo perché sono attivati da quelle cose tramite i nostri organi di senso e per via di ciò che fanno una volta attivati. Se i pezzetti di materia che costituiscono un simbolo sono disposti in modo da collidere nella maniera corretta con i pezzetti di materia che costituiscono un altro simbolo, i simboli corrispondenti a una credenza possono dare origine a nuovi simboli corrispondenti a un'altra credenza logicamente connessa, il che può dare origine a simboli corrispondenti ad altre credenze e così via. A un certo punto, i pezzetti di materia che costituiscono un simbolo collidono con pezzetti di materia connessi ai muscoli, e si produce il comportamento. [E cosa garantisce che, nel nostro cervello, i pezzetti di materia siano disposti esattamente nel modo giusto, così da "collidere" nel modo giusto, e far quindi muovere il corpo in modo coerente? La domanda equivale a domandare cosa garantisce che il cervello sia ben programmato. La risposta, come vedremo, è "la selezione naturale". Essa garantisce che i simboli nel nostro cervello tendano a riflettere correttamente la logica del mondo esterno, NdM.] La teoria computazionale della mente ci consente insomma di mantenere credenze e desideri nelle nostre spiegazioni del comportamento, pur radicandoli nell'universo fisico. Permette al significato di causare ed essere causato.

[...]

Senza la teoria computazionale è impossibile capire l'evoluzione della mente. La maggior parte degli intellettuali pensano che la mente umana debba essere in qualche modo sfuggita al processo evoluzionistico. L'evoluzione, ritengono, può fabbricare solo istinti stupidi e modelli d'azione fissi: una pulsione sessuale, un impulso aggressivo, un imperativo territoriale, galline che siedono sulle uova, anatroccoli che seguono le barche. Il comportamento umano è troppo sottile e flessibile, pensano, per essere frutto dell'evoluzione; deve venire da qualche altra parte, dalla «cultura», per esempio. Ma se l'evoluzione non ci ha dotati di impulsi irresistibili e riflessi rigidi, bensì di un computer neurale, tutto cambia. Un programma è una complessa ricetta di operazioni logiche e statistiche che procedono per comparazioni, test, rami, raccordi e sottoprogrammi inscritti in sottoprogrammmi. I programmi artificiali per computer, dall'interfaccia utente del Macintosh alle simulazioni meteorologiche, ai programmi che riconoscono la voce e rispondono a domande in inglese, danno un'idea della raffinatezza e della potenza di cui la computazione è capace. Il pensiero e il comportamento umani, per quanto sottili e flessibili, potrebbero essere il frutto di un programma estremamente complicato, programma che potremmo avere in dotazione per selezione naturale. L'imperativo tipico che viene dalla biologia non è «Dovrete ... », ma «Se ... allora ... altrimenti».
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